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Il saggio, attraverso lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo (Catania, 2009-2010) della regista Maria Arena intorno agli scritti autobiografici Lettera aperta (1967) e Il filo di mezzogiorno (1969), offre uno sguardo sull’eredità artistica e memoriale della scrittrice e attrice Goliarda Sapienza nel contesto contemporaneo.

This essay, through the intermedial show Io ho fatto tutto questo(Catania, 2009-2010) by the director Maria Arena about the autobiographical writings Lettera aperta (1967) and Il filo di Mezzogiorno (1969), looks at the artistic heritage in the new millennium of the writer and actress Goliarda Sapienza.

 

Il soggetto individuale è sempre un evento sociale, e ogni singolo è come una cavità teatrale che riecheggia i diversi motivi e linguaggi della società.

Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente

 

Questo pensiero di Giacomo Marramao racchiude in sé il carattere di fondo della scelta di Maria Arena di portare in scena, nel 2009 a Catania, con lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo, la complessa formazione della scrittrice/attrice Goliarda Sapienza, partendo dal lavoro sugli scritti autobiografici Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno.[1] Al di là dell’impellente necessità testimoniale, negli anni della sua riscoperta in Italia, per la regista era necessario andare oltre l’istantaneità del ricordo per intercettare la memoria di una trasformazione vitale emblematica per la sua «stra-ordinarietà», l’esemplarità di «un percorso a ostacoli, una ricerca di autenticità».[2] Per questo Maria Arena sceglie di mettere in scena non solo il racconto ma anche l’esperienza di una condizione di crisi esistenziale partendo da un un momento preciso della sua biografia legato alla profonda crisi vissuta intorno ai quarant’anni che la portò a due tentati suicidi. Il primo dopo il crollo depressivo seguito alla morte della madre, per cui fu sottoposta a degli elettroshock che ne causarono uno stato di paurosa instabilità e la perdita della memoria. Il secondo fu dato dal fallimento del recupero della riappropriazione di sé attraverso i propri ricordi dopo l’abbandono della professione del suo terapista. Il recupero narrativo attraverso la scrittura si rivelò però il miglior strumento terapeutico per recuperare la molteplicità delle immagini della propria identità. La regista ripercorre quindi il viaggio a ritroso percorso dalla scrittrice nei due testi autobiografici del ’67 e del ’69 Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, in cui racconta la riscoperta e la rinascita come scrittrice attraverso un itinerario interiore: dalla vivacità formativa della propria infanzia, vissuta tra le strade del quartiere popolare San Berillo di Catania, sino alla deludente esperienza d’attrice teatrale e cinematografica a Roma.

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Nel mondo dei media always on, che quotidianamente ci investono con una Ê»granularità di stimoliʼ da gestire con sempre più abile multitasking, il teatro, tra le più antiche forme di comunicazione artistica, ridefinisce il proprio statuto e la propria funzione mediali tramite l’appropriazione e l’elaborazione dei linguaggi attivi nel mediascape contemporaneo.

La questione dello sviluppo dell’arte teatrale in parallelo all’evoluzione della comunicazione e delle sue tecnologie, già asse teorico stratificato di riflessioni e traiettorie di ricerca, si arricchisce di un nuovo, significativo, momento di analisi e divulgazione con il volume Teatro e immaginari digitali. Saggi di mediologia dello spettacolo multimediale a cura di Alfonso Amendola e Vincenzo Del Gaudio (Gechi Edizioni, 2018).

 

 

Pubblicazione collettanea dalla spinta vocazione prismatica, il testo concentra l’attenzione di diversi studiosi nei confronti del «plesso semantico che tiene insieme il teatro con i nuovi media digitali» (Amendola, p. 18), nel segno di una prospettiva di ricerca duplice, media-archeologica e sociologica, ben argomentata nell’introduzione dai curatori.

Il primo approccio, seguendo l’intuizione dello studioso Jussi Pa­rikka, si fonda sull’ «investigate the new media cultures through insights from past new media» (Parikka, 2002); il che significa, nell’indagine sul medium-teatro, riconoscere e valorizzare gli spettacoli pionieristici nell’uso delle tecnologie analogiche, che dagli anni Ottanta del secolo scorso sono riusciti a rideterminare i rapporti di forza tra teatro e media.

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Lo spettacolo 887 dell’eclettico artista teatrale canadese Robert Lepage è un’incursione nel mondo della memoria, una storia che inizia nei suoi ricordi di infanzia. Attraverso la costurzione di un allestimento scenografico ʻtrasformistaʼ, l’autore si immerge nel cuore della propria memoria, interrogandosi sui suoi meccanismi (Perché ricordiamo il numero di telefono della nostra gioventù, quando dimentichiamo il presente? Perché le informazioni inutili persistono, mentre altre, più utili, evadono?). Il saggio prende in esame il processo creativo dello spettacolo di Lepage alla luce della tecnica dell’ʻautofinzioneʼ, che permette all’artista di alimentare la realtà autobiografica con elementi a metà tra verità e fantasia. 

The show 887 directed by the eclectic theatrical Canadian artist Robert Lepage is a foray into the world of memory, a story that begins in his childhood memories. Through the set-up of a scenographic setting ʻtransformativeʼ, the author immerses himself in the heart of his memory, questioning about his mechanisms (Why do we remember the phone number of our youth, while we forget the current one? Why does useless information persist, while others, more useful, escape?). The essay examines the creative process of the Lepage's show in light of the 'autofiction' technique, which allows the artist to feed the autobiographical reality with elements halfway between truth and fantasy.

 

 

Lo spettacolo 887 (2015), dall’indirizzo della via in cui il regista e interprete franco canadese Robert Lepage ha vissuto la sua infanzia e adolescenza con la famiglia a Québec (Rue Murray 887), è un tuffo nella memoria personale e collettiva: gli episodi autobiografici, infatti, si intrecciano a eventi legati al periodo del terrorismo separatista degli anni Sessanta. E’ un tentativo di riconciliazione con il proprio passato, un’occasione per ripensare il rapporto con il padre ed un modo per rileggere le contraddizioni politiche del Québec in epoca di piena rivoluzione. «Il teatro è tutto sulla memoria» dice Lepage. «È il grande sport del ricordare. L’unico modo per parlare della storia con la S maiuscola è guardare la storia con una s minuscola. Cercavo la mia famiglia e ho scoperto la storia di Québec».

L’interrogativo del perché ricordiamo e di cosa seleziona la nostra memoria è il tema dello spettacolo, declinato anche in versione contemporanea, ovvero riferito alla memoria offerta dai nuovi strumenti tecnologici.

Così Lepage affronta la materia dello spettacolo:

Il racconto teatrale, fatte queste premesse, va nella direzione di un ibrido di parola e iconicità elettronica, denunciando al tempo stesso uno scetticismo di fondo sui possibili usi distorti dei new media che trasformano la memoria semplicemente in Ê»datiʼ. Nello spettacolo si parla di memoria e contemporaneamente si usano i suoi strumenti attuali: si proiettano foto e video archiviati dentro il nostro cellulare, si mostra una mappa digitale per localizzazione i luoghi, si usa una rubrica telefonica per ricordare i numeri:

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Negli ultimi decenni le nuove tecnologie hanno lasciato scorgere la possibilità di suscitare emozioni superando la dimensione algida che ha spesso caratterizzato le creazioni dall’alto livello tecnologico; oggi, nei migliori esempi della scena contemporanea che se ne avvalgono, la purezza dell’immagine e del suono supera la soglia della contemplazione immobile facendosi capace di ‘muovere’ (e di com-muovere). Non si tratta di una reazione che passa attraverso il sentimento, bensì di un movimento emotivo innescato dall’appello alla sfera percettiva. Qualcosa di simile a quanto intuiva Kandinskij nello Spirituale nell’arte nel distinguere, nell’esperienza del colore, la semplice associazione visiva mnemonica dall’effetto ‘spirituale’, dove la percezione cromatica avrebbe ‘toccato’ (fatto risuonare) direttamente l’anima. Le categorie alle quali fa ricorso Kandinskij, ‘risonanza’ o vibrazione, sembrano essere rivisitate in chiave contemporanea nella creazione di Takatani.

In ST/LL l’implicazione di tecnologie avanzate non riguarda solo l’elemento più vistoso, cioè l’utilizzo di una spidercam (una camera senza limiti di direzioni nell’esplorazione dello spazio), strumento e perno della concezione drammaturgica, ma anche un complesso sistema di spazializzazione del suono e un raffinatissimo impiego della luce, capaci appunto di ‘risuonare’ nell’esperienza visiva e auditiva dello spettatore.

Takatani, fondatore a Kyoto del collettivo Dumb Type nel 1984, concepisce una scena fortemente segnata da linee orizzontali e verticali. Nell’ampio spazio del palcoscenico, la zona centrale è occupata da un importante impianto verticale: perpendicolare alla ribalta, si allunga una tavola apparecchiata; la lunga linea del tavolo prosegue idealmente nell’alto schermo verticale, bianco di luce. Colpisce lo scarto proporzionale tra gli oggetti (minuscoli, ma sin dall’inizio protagonisti nella composizione visiva) e il respiro dello spazio. Accenti cromatici completano il quadro (la trasparenza di calici e sedie, il metallo delle stoviglie, una mela rossa – unico accento di colore e solo elemento organico di questa tavola “imbandita” di assenza).

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Il 14 novembre 2015 è andato in scena al Teatro delle Briciole di Parma Trincea, lo spettacolo teatrale scritto e interpretato da Marco Baliani, per la regia di Maria Maglietta. Appartenente al genere del teatro di narrazione, Trincea mette in scena il corpo di un soldato semplice a contatto con la brutale matericità della Grande Guerra. Lontano da ogni didascalismo o nozionismo scolastico, lo spettacolo inchioda lo sguardo attonito dello spettatore dinanzi a un grottesco campionario degli effetti che il conflitto produsse su corpi ridotti, costretti e annichiliti negli angusti spazi di trincea.

Lo spazio scenico è costituito da una piattaforma leggermente inclinata, dietro la quale si innalza un fondale di eguale superficie, che presenta due botole. Da una di queste entra in scena il soldato-Baliani, che incarna nel corso dello spettacolo diverse figure di coscritto: i pensieri a cui dà voce non appartengono a una sola coscienza, ma a una polifonica molteplicità di punti di vista resa attraverso una struttura narrativa a episodi (ne abbiamo individuati sei), brevi trucioli di vita inframmezzati dall’intensificarsi del martellante tappeto musicale e dall’alternarsi delle immagini sullo sfondo (musica e immagini sono a firma di Mirto Baliani).

L’attore-narratore si muove entro un ristretto spazio scenico e gli oggetti con cui interagisce sono un fucile-baionetta (simile a un Carcano mod. 91), una vanga, e il suo interlocutore, un cadavere di soldato ormai mummificato incarnato da un manichino, al quale confida le proprie angosce, evidente allusione a Veglia di Giuseppe Ungaretti. Plurimi sono i riferimenti a capolavori letterari di ambientazione bellica: non solo il soldato attaccato alla vita nel primo Ungaretti di Allegra di naufragi (1916), ma anche il clima nauseabondo della trincea testimoniato in Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (1929), il pacifismo di cui si fa portatore Soldato Schlump (1928) di Hans Herbert Grimm, l’ingenua euforia a favore della guerra de La paura di Chevallier, il variegato affresco militare tracciato da Federico De Roberto in La paura e altri racconti della Grande Guerra (1921) e da Carlo Salsa in Trincee – confidenze di un fante (1924). Non solo. Come ha sostenuto Baliani nel post-spettacolo, questo progetto segue sette anni di intenso lavoro su documentari e fonti d’archivio raccolti prevalentemente nel Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto. Inoltre, alla base di Trincea è impossibile non percepire le teorizzazioni sulla Grande Guerra magistralmente condotte da George Lachmann Mosse nella Nazionalizzazione delle masse (1975), ma Baliani e Maglietta preferiscono un approccio pratico: nessuna astrazione, niente teorie, assenza di nozioni storiche. Si porta in scena solamente la concretezza del corpo a contatto con una guerra di logoramento.

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La sfida è fare nuova luce su una forma Ê»acquisitaʼ di spettacolarità, molto discussa ma solo in parte storicizzata, ancora non riconosciuta adeguatamente nella sua reale portata pionieristica. Muovendo da tale sfida, il testo di Jennifer Malvezzi Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano (Milano, Posmedia Books, 2015) va nella direzione di un’utile riscoperta di quelle esperienze sceniche liminali che, mescolando efficacemente linguaggi diversi, diedero vita al singolare fenomeno del videoteatro italiano all’altezza degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.

L’intento è insieme arduo e ambizioso, giacché riportare in superficie e analizzare criticamente un Ê»oggettoʼ ondivago, multiforme e rizomatico quale fu il videoteatro italiano apre una serie di interrogativi non indifferenti riguardo la sua origine, la sua (dis)articolata evoluzione, le diverse ragioni del suo prematuro declino.

Malvezzi allora fa un passo indietro nella storia, guarda all’oggetto della sua indagine con gli occhi del Ê»cronistaʼ in praesentia, recupera recensioni e dichiarazioni dell’epoca per restituirci il più possibile quello che fu lo spirito del tempo, lo stato d’animo corrente, l’euforica sensazione d’apertura sperimentale che permeò il nostro teatro trent’anni fa, sull’onda di un’intensa ibridazione tra la scena e i dispositivi testuali e linguistici introdotti dai media audiovisivi.

Per inquadrare i fermenti della stagione videoteatrale italiana nella giusta prospettiva storico-critica, evidenziandone il ruolo di primo piano nello sviluppo di una spettacolarità intertestuale, strettamente connessa alla cultura mediatica e precorritrice dell’ampia produzione tecnologica odierna, Malvezzi dà alla sua indagine un taglio cronologico ben preciso, circoscrivendola al decennio 1978-1988, quando «il fenomeno non si era ancora sclerotizzato in forme manieristiche, bensì si poneva come momento di rottura sia rispetto alla tradizione che alle ricerche di marca poverista».

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Progetto Kthack

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Sono andati in scena presso il Centro Zo di Catania nei giorni 1-2-3-4 settembre i quattro spettacoli, Tifeo, De Cinere, Soggiornando vicino e Non si vive nemmeno una volta, che compongono il progetto Kthack, curato dall’associazione culturale Retablo per quel grande contenitore di eventi multidisciplinari che è il Festival I-ART.

Kthack, titolo del progetto, è il risultato della crasi tra Katane, l’antico nome di Catania, e Hack, termine che rinvia all’attività degli hacker volta a forzare un programma o un dispositivo informatico. La mescolanza tra Katane e Hack indica il filo conduttore tematico del progetto: l’intreccio tra miti e memorie letterarie proprie della storia di Catania e il linguaggio sempre più pervasivo delle tecnologie digitali, qui adoperate per attivare nuovi modi, non standardizzati, di fruire dell’esperienza scenica.

Originalità e sperimentazione sono, infatti, le direttrici portanti che innervano l’architettura visiva dei quattro spettacoli, basata sull’impiego di un grande telo-schermo che, posto davanti allo spazio di azione performativa, ospita proiezioni video live e tridimensionali.

La scena italiana contemporanea ci ha ormai abituato al trattamento della materia teatrale sotto le insegne deformanti del multimedia digitale, ma nel vasto quadro degli esperimenti video-performativi non sempre si ha la giusta razionalizzazione nell’uso dell’elemento tecnologico, o un’efficace integrazione di quest’ultimo nel concept della narrazione scenica.

Per questa ragione, merita un sicuro plauso il progetto di Retablo, il quale sviluppa una fruttuosa linea d’intervento tecnologico sulla drammaturgia teatrale, facendo leva sulla semantica elettronica per restituire/rendere/trasporre scenicamente il linguaggio crepuscolare dell’inconscio, del mito, della decostruzione/ricostruzione della realtà.

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Eneide. Un nuovo canto può essere considerata un’operazione di ‘auto re-enactment’ con cui la Compagnia Krypton riporta in scena, ma in una nuova versione, l’Eneide (liberamente tratto da Eneide di Virgilio) del 1983.

Dell’Eneide, opera simbolo della nuova spettacolarità e della scena elettronica degli anni Ottanta, questo nuovo canto riprende la dimensione epica e spettacolare garantita dalla colonna sonora dei Litfiba / Beau Geste, questa volta però eseguita dal vivo da Antonio Aiazzi, Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli con l’aggiunta di due canzoni (eseguite fuori campo da Ginevra Di Marco) e dalla presenza di Giancarlo Cauteruccio che cura il progetto, la regia e che dà voce all’Enea-narratore in scena.

Senza voler essere un’operazione nostalgica, quanto piuttosto la ripresa responsabile di uno spettacolo calato nell’immaginario tecnologico – sensoriale, immersivo e tattile – di trent’anni fa, Eneide. Un nuovo canto propone allo spettatore di oggi qualcosa che non ha mai visto, se è giovane, o che non ha più visto se è meno giovane, ossia la resa spettacolare e immaginifica della macchineria teatrale.

Il dispositivo drammaturgico è basato su una composizione per quadri musicali e narrati, funzionale alla rottura della linearità del testo originario e adatta a ribadire la vocazione anti-rappresentazionista del teatro contemporaneo.

Qui la tecnologia in scena esprime la rivendicazione di una provenienza culturale che trova nella semantica dell’elettronica non solo il senso della sperimentazione dei linguaggi, cioè la ricerca delle affordance (le potenzialità espressive della tecnologia), ma rimanda a qualcosa su cui Krypton ha indagato nel tempo e che riguarda la deriva post-umana.

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La quinta edizione del laboratorio di Drammaturgia sonora, promosso da Valentina Valentini, si è articolata (dal 30 aprile al 16 maggio 2014) in alcune lezioni-spettacolo condotte da Hubert Westekemper – Creare spazi sonori, Alvin Curran – The World is My Mother Tongue, e Luigi Ceccarelli – Appunti per un teatro musicale.

I musicisti-compositori e sound-designer hanno attraversato le drammaturgie sonore di spettacoli, performance, installazioni realizzate all’interno della propria produzione grazie alle sollecitazioni e alle domande di Mauro Petruzziello, Ida Vinella, Romina Marciante, Cristina Reggio del gruppo acusma (www.gruppoacusma.com). La paziente e feconda rielaborazione degli interventi live degli ospiti trova qui una forma mista, da leggere e ascoltare nello stesso tempo.

in collaborazione con RAI RADIO3 e con Laura Palmieri

 

#1 Creare spazi sonori

Conversazione tra Hubert Westkemper e Mauro Petruzziello

 

Quando il 20 maggio 2014 Hubert Westkemper dialogò con l’architetto, collezionista, curatore Corrado Levi, nel corso dell’incontro La ricerca improbabile – Si può ascoltare l’architettura?, organizzato per i centocinquant’anni del Politecnico di Milano, definì il proprio lavoro di sound designer in questi termini: «Tu progetti spazi, io progetto spazi sonori». La figura del sound designer, una sorta di scultore di suoni o un ponte fra il musicista e il tecnico del suono, riveste un importante ruolo nell’affermazione, tutta secondo-novecentesca, di una nuova sensibilità rispetto al suono, non più considerato esclusivamente come arte del tempo, ma anche come arte dello spazio. Un cambiamento di prospettiva sancito dall’introduzione del concetto di corpo sonoro: come ogni corpo, anche il suono necessita di spazio, il suo movimento è definito da traiettorie, e così i parametri di timbro, altezza e tempo diventano empirici e dominabili. Sebbene sempre più richiesta nel campo delle arti (ma anche in quello della comunicazione), la figura del sound designer è relativamente giovane e legata all’evoluzione della tecnologia. Dispositivi quali mixer sempre più sofisticati – che dagli anni Sessanta hanno reso gli ingegneri del suono essenziali nel processo creativo al pari dei musicisti –, campionatori, tecniche di postproduzione hanno evidenziato quanto sia profondo il legame fra gli scultori di suono e la tecnologia, che diventa vero e proprio strumento di lavoro. Se si volesse tentare un’embrionale storicizzazione della figura del sound designer, si potrebbe riscontrare come il suo definitivo atto di nascita si situi all’altezza degli anni Settanta, quando si afferma il cinema americano della New Hollywood che libera l’acustica cinematografica dalla sua tendenza a privilegiare la voce, affermatasi dagli anni Trenta, per conferire pari dignità a tutti i suoni che concorrono alla costruzione dei soundscape in film quali la saga di Star Wars di George Lucas e Apocalypse Now (1979) di Francis Ford Coppola. Non solo il cinema, ma anche il teatro, in particolare quello che ha evidenziato una vocazione alla ricerca e alla sperimentazione, dall’epoca delle seconde avanguardie in poi, ha mostrato una profonda attenzione nei confronti del suono. La riflessione sul suono, sulla voce, gli esperimenti di microfonazione (forse il più emblematico è ancora quello legato alla figura di Carmelo Bene), le tecniche innovative dell’aurofonia, le possibilità di spazializzazione del suono, hanno conferito ad esso la possibilità di sganciarsi dal semplice status di commento, spesso didascalico, e di acquisire un ruolo sempre più significativo nella costruzione di drammaturgie. In questa direzione il lavoro di Hubert Westkemper è particolarmente significativo. Nato a Francoforte, si è laureato nel 1981 in ingegneria del suono presso l’Università delle Arti di Berlino e si è subito trasferito in Italia, dove ha dato il via a una serie di ricerche e sperimentazioni nel campo del suono applicato soprattutto al teatro. Il suo primo lavoro italiano, nel 1982, è Sogno di una notte d’estate, per la compagnia del Teatro dell'Elfo, con la regia di Gabriele Salvatores. Tra le collaborazioni più importanti occorre segnalare quella con Robert Wilson (Come In Under The Shadow Of This Red Rock, 1994; Persephone, 1995); con Mario Martone (Operette morali, 2011; La serata a Colono, 2013, ma anche Noi credevamo, 2010); con Irene Papas (Antigone, 2005); con Valerio Binasco (E la notte canta, 2008) e con Elio De Capitani (Visi noti, sentimenti confusi, 1984; I Turcs Tal Friul, 1995). Va anche sottolineato l’apporto di Westkemper nei territori del teatro d’opera in Blimunda (1990) e Divaria (1993), entrambi a partire da testi di José Saramago e su musiche di Azio Corghi, musicista col quale il sound designer tedesco collabora anche su Tat’jana (2000), con la regia di Peter Stein. Fra gli altri, vorrei menzionare anche il lavoro per Cronaca del luogo (1999), che il suo compositore, Luciano Berio, definisce più azione musicale che opera, e Il letto della storia (2003) di Fabio Vacchi che, insieme a Gesualdo (2004) di Luca Francesconi, nascono con la regia di Giorgio Barberio Corsetti. Per orientarsi all’interno di una carriera così ricca di esperienze fra loro eterogenee, che comprendono anche il lavoro per l’associazione Agon e l’attività pedagogica presso l’Accademia di Brera di Milano, abbiamo scelto come campione quattro spettacoli esemplificativi della suddetta ricerca di un suono che si fa dispositivo drammaturgico.

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