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Due fotografie, due donne, due campi di visione e di azione in cui mettere in gioco processi analogici a partire da un segno indicale, la traccia di un ‘è stato’ che ancora interroga e scuote il presente. Ma anche: due fossili-guida – il leitfossil warburghiano – che assumono la forma senza peso di fossili di luce – lightfossil, nel gioco omofonico proposto dall’autrice – all’interno dei quali rintracciare la forza vitale di connessioni tra presente e passato, tempi vicini e tempi remoti, in un movimento incessante che è quello del pensiero e delle emozioni ripercorse nel ‘filo e le tracce’ di una genealogia in gran parte femminile.

Come tutti i saggi densi, anche Lightfossil: sentimento del tempo in fotografia e letteratura (Postmedia Books, 2020), districa i nodi di visioni latenti che affiorano alla mente dei lettori e delle lettrici cercando intrecci con le immagini attraversate nel testo. Beatrice Seligardi sceglie di partire da due fotografie, rispettivamente di Francesca Woodman e Marianne Breslauer: la prima è Untitled, autoritratto realizzato dalla fotografa americana a Roma tra il 1977 e il 1978, nel quale il corpo dell’artista si distende lungo la parete di una stanza abbandonata accanto al disegno di una porta e alle tracce rimaste di un «mobile fantasma» (p. 7); la seconda è invece Défense d’afficher, che la fotografa tedesca, tra le pioniere della street photography, realizza a Parigi nel 1936, e dove il corpo esile di una donna intenta ad accendersi una sigaretta dialoga con l’ombra di un lampione allungata su un muro di una strada di città. Nonostante la lontananza – geografica e cronologica – tra le fotografe, le due immagini costruiscono una trama nella quale corpi femminili si stagliano e allo stesso tempo si intarsiano in superfici attraversate dal tempo, che «sembrano virare quasi all’organico, come a suggerirci che dietro l’apparente fissità delle architetture si celi una vita soggetta al medesimo fato di quella umana» (p. 120); entrambe le immagini suggeriscono così uno sguardo che esca dalla dittatura del presente per immergersi in quella che l’autrice definisce «una temporalità polifonica» (p. 121).

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Il titolo del recente volume di Margareth Amatulli costituisce uno di quegli esempi di felice sintesi che consente, a chi si accosta alla lettura, di prefigurarsi esattamente cosa andrà incontrando nel testo. Scatti di memoria. Dispositivi fototestuali e scritture del sé (Metauro 2020) esibisce, infatti, i tre elementi attorno cui l’autrice costruisce una fitta rete di snodi –aperture verso un ventaglio di significati possibili – e nodi – punti di congiunzione, di contatto – a partire da quattro opere di autrici e autori francesi apparse negli ultimi trent’anni. Fotografia, memoria e letteratura del sé – quest’ultima interpretata volutamente in una costante oscillazione tra autobiografia e autofiction – costituiscono le chiavi interpretative per accedere a quattro testi che non esauriscono certo le modalità di interazione tra photolittérature – così come l’ha definita Jean-Pierre Montier, convocato da Amatulli nel primo capitolo del saggio – e memorialità, intesa in senso sia individuale che collettivo. D’altronde non è questo l’obiettivo del volume, che non mira tanto, o solo, a inserirsi all’interno del dibattito teorico sulla fototestualità, dibattito i cui esiti vengono comunque ben sintetizzati nel primo capitolo, che ripercorre le proposte classificatorie, fornite da numerosi teorici della semiotica e della letteratura, di un genere che per sua stessa natura elude ogni definizione eccessivamente restrittiva; scopo del saggio è piuttosto quello di prendere le mosse dagli apparenti confini caratteristici dei generi – non solo quello fototestuale, ma anche le forme molteplici riassumibili nelle ‘scritture del sé’ – per mostrarne la porosità nel momento in cui tali dispositivi devono fare i conti con una costante culturale, all’incrocio tra bíos e mimesis, come la memoria, tema che appartiene statutariamente tanto all’atto fotografico quanto alla scrittura dell’io.

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Per il pubblico più cinefilo e per gli habitué dei festival cinematografici, Torino è da sempre la città senza red carpet. Per porre fine a questi e ad altri stereotipi era forse necessario attendere la mostra Photocall. Attrici e attori del cinema italiano, curata da Domenico De Gaetano e Giulia Carluccio, con la collaborazione di Roberta Basano, Gianna Chiapello, Claudia Gianetto e Maria Paola Pierini. Fino al 7 marzo 2022, infatti, la Mole Antonelliana ospiterà al suo interno un lungo tappeto rosso sul quale sfileranno idealmente attrici e attori della storia del cinema nostrano, immortalati nel corso di più di un secolo dallo sguardo dei fotografi e delle fotografe di cinema. Come ricordano gli stessi curatori della mostra, è proprio lo sguardo ad essere al centro dell’intero percorso espositivo, in «un gioco di rimandi […] che questa volta non muove dalla relazione tra attore e regista, ma si attiva a partire da quella più segreta e peculiare che coinvolge l’attore e il fotografo».[1] Ripercorrendo l’evoluzione di una figura professionale centrale per l’industria cinematografica si esplorano dunque, parallelamente, la nostra storia sociale e culturale, ma anche la storia del cinema e del divismo italiani. Si tocca con mano, in sostanza, l’idea teorizzata da Roland Barthes di una lunga «esposizione ben organizzata» di «visi archetipi», di miti creati e diffusi dal cinema a uso e consumo dello spettatore.[2]

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Abstract: ITA | ENG

Strutturato come dispositivo fototestuale stratificato, che è al contempo reportage di viaggio, narrazione odeporica, racconto fotografico, guida turistica, Tutta la solitudine che meritate, formato dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, è un libro atipico ed eterogeneo in cui scrittura e immagine si combinano e si scombinano reciprocamente, dando vita a un palinsesto intermediale in cui il reale non è solo una dimensione da testimoniare, interpretare e documentare, ma diviene anche oggetto di una puntuale rifigurazione verbale e visiva. Alternando prospettive, sguardi, medium differenti, il libro interroga le possibilità di conoscenza, visione e rappresentazione di uno spazio altro, estremo – l’Islanda – problematizzando le risorse percettive insite nella letteratura e nella fotografia. Il saggio si propone di indagare le diverse modalità espressive, le strategie compositive opposte ma complementari con cui scrittura e immagine, in costante equilibrio tra raffigurazione e risemantizzazione, tra produzione e riproduzione dell’esistente, si approssimano, interagendo internamente, alla realtà circostante tentando di fornire prospettive rinnovate,  significativamente feconde, e nuovi indirizzi di senso e ricerca.

Structured as a layered phototextual device, that is at the same time travel reportage, odeporic narration, photographic narration, tour guide, Tutta la solitudine che meritate, formed by the texts of Claudio Giunta and the photographs of Giovanna Silva, is an atypical and heterogeneous book in which writing and image combine and break down each other, giving life to an intermedial schedule in which the real is not only a dimension to witness, interpret and document, but also becomes the subject of verbal and visual refiguration. Alternating perspectives, looks, different mediums, the book questions the possibilities of knowledge, vision and representation of another, extreme space – Iceland – problematizing the perceptual resources inherent in literature and photography. The essay aims to investigate the different modes of expression, the opposing but complementary compositional strategies with which writing and image, in constant balance between depiction and resemantization, between production and reproduction of the existing, approximate, interacting internally, to the surrounding reality trying to provide renewed perspectives, significantly fruitful, and new directions of meaning and research.

1. Spazi da scrivere

Questo lungo periodo, posizionato a metà di pagina 35, rappresenta una pregnante mise en abyme concettuale di Tutta la solitudine che meritate, volume composto dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, pubblicato nel 2014 nella collana ‘Travel Books’, gestita in cooperazione dalle case editrici Humboldt e Quodlibet. Il periodo summenzionato contiene, infatti, tra le righe il nucleo fondante dell’interrogativo che abita in maniera carsica le pagine e le immagini contenute in questo libro stratificato e composito, che è al contempo reportage di viaggio eterodosso, arguto baedeker, atipico diario iconografico, in cui le diverse sezioni – il racconto odeporico, la sezione fotografica, il dossier letterario, le informazioni pratiche per il viaggio (consigli utili per i voli, gli spostamenti, i pernottamenti, gli approvvigionamenti) – si integrano e si completano traendo sostegno dalla struttura globale dell’opera, in definitiva armonizzante e unitaria. Come indagare narrativamente e visualmente il tempo attraverso lo spazio e lo spazio attraverso il tempo personale del viaggio?

Minaccia, esortazione o – come suggerisce Sabrina Ragucci – «oggettiva condizione della nazione»,[2] il titolo di questo elaborato dispositivo fototestuale non solo esibisce immediatamente le ragioni e le condizioni che popolano le fondamenta dell’esperienza raccontata, ma soprattutto illumina l’aspetto focale che viene messo in gioco quando si parla di Islanda, una nazione con densità abitativa media tra le più basse al mondo: la solitudine e le sue più manifeste declinazioni. Fondato sull’intreccio strutturale, coagulato e coeso, di elementi disparati – non fiction, memorialistica, fotografia, resoconto storico, trattato sul costume, dossier letterario, intervista, mappe –, Tutta la solitudine che meritate è un’opera fortemente intermediale e intertestuale, che fonda la propria ragion d’essere sulla riuscita dialettica interna che ne anima la progressione e ne consente una fruizione ad elastico. Nell’economia del libro testo e immagine si fanno correlativi di un racconto similare ma non sovrapponibile, attuando inevitabilmente strategie compositive differenti e mutevoli. L’alternarsi dualistico di diversi sguardi e punti di vista, in cui s’inserisce nel finale la presenza di ulteriori angolazioni e focalizzazioni – il Dossier Islanda, l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer – mette in gioco e problematizza reiteratamente le tre polarità proprie di ciascun regime scopico – immagine, dispositivo, sguardo –, collaborando a creare un palinsesto eterogeneo in cui ogni acquisizione interna ed esterna al libro è temporanea, relativa, suscettibile d’essere ampliata, contraddetta, obbligata ad essere rimessa in discussione nel prosieguo delle varie parti che si susseguono. La prima sezione, che ha lo stesso nome del libro, è dedicata interamente al resoconto esperienziale del viaggio intrapreso, inframmezzato rapsodicamente da immagini fotografiche (sedici su un totale di settantatré pagine) di piccolo formato, 5cm x 8cm, compendio visivo che puntella il testo e fornisce dimostrazioni iconograficamente fedeli e rispondenti alle constatazioni che il testo effettua nel suo farsi. In questa prima parte del volume le immagini, anche a causa della monocromia imposta dal bianco e nero, emergono di poco rispetto al corpo e alla trama segnica del testo che le circonda, svolgendo perciò un compito prettamente informativo. La storia di Giunta e Silva, la storia del loro viaggio, è un percorso nel macrospazio d’Islanda in cui «la potenza geodetica»[3] del tragitto funge da finestra aperta sul quotidiano dell’estremo Nord, alle propaggini terminali dell’abitabile, un tramite per comprendere i moti che serpeggiano al fondo di una terra che impone innanzitutto di resistere al bisogno intrinseco di socialità che si palesa con intensità e frequenza variabile in ogni essere umano, all’interno di un perimetro geografico che per naturale fisiologia topografica propone una costante verifica della possibilità di fare a meno dell’altro e degli altri. D’altronde, in Islanda il comportamento dell’uomo, ciclico, reiterato in forme pressoché identiche da centinaia di anni e ancora legato a primarie esigenze di sopravvivenza, è frutto di una meccanica ma salvifica coazione a ripetere, capace di autogenerarsi e autosostenersi a prescindere dai segnali spesso impalpabili del divenire esteriore. Qui il tempo, così come il fluire delle stagioni, è sfilacciato, alineare, indistinto e produce effetti meno evidenti sul circostante e sul contingente, tanto che alcuni anfratti così remoti da essere irraggiungibili sopravvivono in una dimensione di apparente astoricità, o per meglio dire, entro una dimensione della temporalità che trascende la storicità umanamente intesa, così come la temporaneità caratteristica degli spazi industrializzati, votati alla produzione e al consumo. La geografia umana e quella territoriale-ambientale sono direttamente proporzionali, ma è la seconda a decidere effettivamente le propaggini caratterizzanti della prima. Se il tempo della lunga durata rimane indifferente, altèro, è destinato a perdere valore ermeneutico e dev’essere perciò esplorato attraverso lo spazio, elemento dalle sottovalutate qualità euristiche che ne veicola le manifestazioni pregnanti nell’avvicendarsi degli ambienti e dei paesaggi. Lo spazio è allora destinato ad assurgere a «ecosistema esistenziale, in cui il soggetto percepisce sé stesso e le relazioni con gli altri che vi abitano».[4] A differenza di quello che accade in gran parte del macrocosmo occidentale, in particolare negli ambienti urbani e metropolitani, dove si progredisce a rapide falcate verso un futuro di luoghi-non-luoghi, sedi «del tempo rettilineo della finitezza autofondata e autofinalizzata»,[5] in Islanda «lo spazio ha un significato esatto»[6] e i paesaggi vuoti – almeno per l’occhio di una persona abituata a ben altre percentuali di consumo di suolo –, omogenei e ripetitivi che lo caratterizzano sono una regola assoluta, un pegno imprescindibile, uno schiaffo inconsapevole alla brama antropomorfica di chi vorrebbe essere sempre posizionato in un luogo potenzialmente razionalizzabile, recettivo, servibile, collegabile opportunamente ad altre forme di vita, riconducibile in fondo a una percezione umanizzante del reale. In un contesto così strutturato, l’umano appare conseguentemente come un’eccezione e la solitudine che l’avvolge e lo accompagna è talmente palpabile, talmente presente da configurarsi non come uno stato emozionale – uno tra i tanti –, bensì come una condizione vincolante e irriducibile. Anche la natura, o almeno le declinazioni naturali a noi più vicine e assimilabili – boschi, foreste, fiori – sono sparute e refrattarie, quasi inesistenti. Ciò che continua a sorprendere Giunta, nonostante il numero dei suoi viaggi sull’isola stia per raggiungere la doppia cifra, è il fatto che «l’oggetto Islanda […] s’impone sui soggetti»,[7] di modo che la superficie elementare, essenziale, che ne riveste l’aspetto esteriore si presta poco a ermeneutiche forzose o coercitive, è poco suscettibile a sovradeterminazioni polisemiche atte a trasformare l’oggetto d’osservazione in simbolo o in allegoria. Non è una natura da idolatrare o alfabetizzare, rifugge gli astrattismi e le appropriazioni indebite. La materia pervadente che riveste spazi dilatati e sempre identici a sé stessi, distese aride e brune in cui nulla è a portata di mano, oppone una strenua resistenza a ogni facile tentativo di trascendenza, a ogni impulso di elevazione spirituale che per una collaudata quanto mistificante osmosi dovrebbe verificarsi senza eccezione in luoghi impervi e desolati. Giunta opera, assecondando un movimento antinomico a quello che percorre solitamente la letteratura di viaggio, una consapevole e puntuale operazione di demitologizzazione e defeticizzazione dei luoghi raccontati, li emancipa dalla «topografia dell’immaginario»,[8] per restituire loro, a costo di apparire prosastico, una verità altra, fattuale, decongestionata. Sembra che la prosa di Giunta, mai concettosa e sempre divertita, a tratti caustica, sostenuta da un registro piano e colloquiale che non lesina apostrofi dirette al lettore, tenda proprio a voler smorzare l’idealizzazione romantica e artificiosa che storicamente connette – almeno dal periodo del ‘sublime’ romantico in poi – in maniera stringente luoghi brulli, solitari, estremi, a pensieri profondi, sofferti e a intensi e proficui momenti di riflessività. L’afflato antilirico, anti-idillico e disincantato che sorregge e sostanzia il racconto-conversazione di Giunta è utile poi ad allargare l’indirizzo precipuo del narrato ad altre componenti argomentative che si accostano al flusso principale a mo’ di reticolo alveolare, come ad esempio i passaggi dal sapore trattatistico-documentario incentrati sulle manifestazioni più tipiche del turismo in salsa islandese e sulle costanti sociali e folkloristiche che scandiscono il rapporto tra stranieri e autoctoni, i brani analettici che rievocano viaggi precedenti e istituiscono un altalenante dialogo intratestuale e comparativo tra presente e passato, anacronie minime utili a rimarcare le divergenze sviluppatesi e ad estendere la prospettiva dello scrivente e del lettore, o le considerazioni personali che incrementano la presenza e la voce autoriale. Inoltre, le intersezioni di carattere ricognitivo storico-politico – indice primario e maggiormente riscontrabile di una tendenza diffusa alle digressioni e all’aneddotica –, non solo rispondono alla funzione di contestualizzare e tratteggiare un approssimativo quadro informativo, ma altresì arricchiscono il sostrato narrativo, ampliandone il portato e intensificandone l’interesse. I brevi intermezzi lirici – Rilke, Sereni, Borges – fungono invece da contraltare denotativo, dunque rivelatorio di una sensibilità acuitasi di fronte a certe persone, luoghi, eventi, alla scrittura piana e orizzontale di Giunta, attento, come già accennato, a evitare patetismi e a non scadere nel sentimentalismo retorico in cui rischia di rimanere irretito nel descrivere le toccanti vicende che si celano dietro le vite sorprendenti degli interlocutori con cui entra in contatto. Del resto, uno dei fenomeni più frequenti che pare innescarsi durante la visita o il soggiorno in Islanda è uno sfasamento profondo della percezione e dello sguardo, una sproporzione tra ciò che ci si immagina e la realtà tangibile. Entro le spire di un’atmosfera sospesa e rarefatta, quello che appare allo sguardo interpretante dello straniero, abituato a determinati sistemi di pensiero e valutazione, non è ciò che realmente è; il processo attivo nel soggetto percipiente, dal momento che percepire è «sempre percepire da un qualche programma d’azione all’interno di un mondo che è già fortemente intriso di valore per chi lo abita»,[9] tende a confondere, a corrompere e a trasfigurare il noumeno, lo scheletro fondante del percepito, assegnandogli significati impropri e imprecisi. È l’uomo ad applicare alla fenomenologia del reale un consolidato canone di bellezza, a decriptare i segni dell’altro da sé attraverso un pregresso bagaglio di conoscenze e mediante il filtro del proprio immaginario. La cognizione di tutto ciò che si pone al di fuori deriva dal filtraggio continuativo introdotto dalle nostre categorie di interpretazione e riflessione, dalle nostre articolate tassonomie e ingegnose casistiche, eppure, da secoli l’Islanda pare soprassedere agli assalti, alle catalogazioni, alle mode passeggere. In Islanda l’uomo acquisisce chiara consapevolezza del proprio fallimento, il fallimento di non poter essere altro che sé stesso e di non poter possedere nient’altro rispetto a quello che possiede già. L’isola decentralizza l’uomo, lo marginalizza, lo allontana dalla cabina di comando a cui è ancorato e lo restituisce alla sua esiguità, alla sua caducità. La natura in Islanda è un sostitutivo ‘logico’ delle forme artistiche, storicamente latenti in un paese che non ha mai avuto un ceto aristocratico o alto borghese che potesse permettersi un’esistenza dedita all’arte e al mecenatismo. Essa appare magnificente e intimorente, ma ciò che davvero la declina e la trasfigura, mutandone l’aspetto e la fisionomia, è la luce, una luce che scolpisce e influenza l’osservazione esterna, ne orienta il sentimento e ne estende il momento dell’appercezione. Il paesaggio in Islanda, luogo in cui la morte e la privazione sono elementi storicamente ordinari, parla un linguaggio muto, capace però di determinare l’umore di chi lo guarda e lo attraversa, decretandone gli apici e le svolte improvvise. Per questo motivo, per non dipendere eccessivamente da un clima né amico né nemico, che conduce l’essere umano a riconsiderare le virtù insite nel limite e nella stasi, a raggiungere l’apogeo della frugalità, è necessario coltivare l’interiorità, ispessire il proprio baricentro intimo, le proprie risorse caratteriali. Giunta si sofferma a più riprese sulla paradossale seduzione esercitata dal monotono, dal ripetitivo, una seduzione espressiva che trasla dal piano tematico a quello formale mediante i vuoti, le espunzioni del discorso intrapreso e non attraverso i pieni, le forzature illustrative e conative. In un mondo socializzato e aperto, globalizzato e interconnesso, in cui ogni fenomeno pretende d’essere significativo e di destare attenzione, le parole di Giunta, sovraesponendo fedelmente la dignità dell’ordinario, costituiscono un sincero e sentito elogio del marginale, del contro-egemonico, dell’antiestetico, del normale. Il Dossier Islanda che segue la sezione iconografica è un innesto ibrido, di carattere letterario, costituito da tre microaree: un commento critico a Gente indipendente (1935) di Halldór Laxness (premio Nobel per la letteratura nel 1955), un commento critico a Letters from Iceland (1937) di W. H. Auden e al libro eponimo di Jean Young, e infine l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer, artista svizzero particolarmente legato all’Islanda. Questa sezione aggiuntiva permette non solo di gettare nuova luce, con la relativa dose di paragoni e differenziazioni, sul passato della terra islandese, ma anche di estendere e impreziosire il ventaglio di lettura, conoscenze e discernimento. Rappresenta, inoltre, una modalità comparativa di attraversamento del reale che si avvale della sonda letteraria e artistica, spesso capace di rivelare ciò che la realtà medesima tende a nascondere.

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Nonostante l’abbandono della pratica fotografica agli inizi degli anni Ottanta, è indubbio che Lisetta Carmi abbia assunto una certa centralità nella storia della fotografia italiana. Negli anni Duemila, dopo una lunga dimenticanza, le sue opere sono diventate oggetto di grande attenzione e sono state esposte in mostre personali e collettive. Nel 2010 il regista Daniele Segre ha dedicato alla sua figura di artista il film documentario Lisetta Carmi, un’anima in cammino, presentato con grande successo alla Mostra del Cinema di Venezia dello stesso anno. Poi hanno assunto sempre maggior rilievo le esposizioni come quella a Palazzo Ducale di Genova (città in cui è nata nel 1924) del 2015, al Museo di Roma in Trastevere nel 2017, al MAN di Nuoro nel 2017, fino all’ultima mostra intitolata Gli altri, sviluppata attraverso due tappe al Castello Carlo V di Lecce e al Museo Osvaldo Licini di Ascoli nel 2021.

Alla luce di questo grande successo, con sguardo retrospettivo, oggi possiamo provare a leggere la funzione assunta dal lavoro della fotografa nel più ampio sistema dell’industria culturale italiana di ieri e di oggi, distinguendo la necessaria azione destabilizzante che le sue fotografie provocarono allora dal valore storiografico di cui si caricano attraverso le mostre e gli studi a loro dedicati in questi ultimi anni.

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Premessa

Questo secondo Focus di Punctum in motion: fotografia e scritture dell’io presuppone il quadro teorico tracciato nell’introduzione al primo, pubblicato su Arabeschi n. 16. In quell’orizzonte ideale vanno infatti collocati i contributi qui raccolti, che riannodano il filo tra narrazione e immagini attraverso l’analisi di alcune opere di scrittori, cineasti e videoartisti prodotte dagli anni Settanta fino ad oggi. In particolare, nei casi analizzati l’interazione tra immagine, filmico e parola autobiografica tende ad effetti stranianti, ottenuti valorizzando gli ‘scarti’; è qui sovvertito il senso di luoghi di memoria assai banali come l’album familiare e le riproduzioni di monumenti e quadri famosi. I nove saggi interdisciplinari sono dedicati agli incroci intermediali più sperimentali e alle implicazioni culturali e formali – tra analogico e digitale – tanto dell’uso dell’immagine fotografica, quanto della sua relazione con l’immagine filmica o la videoarte, nel quadro di fenomeni narrativi che si sono fatti sempre più multimodali. Rispetto alla macchina da presa, la videocamera diviene una protesi, una lente d’ingrandimento sempre più efficace, in grado di rappresentare la relazione tra fotografia e racconto di sé: un occhio straniante capace di indagare e mostrarci cosa succede poco prima e poco dopo un’immagine pittorica o un’istantanea fotografica, di rivelare le sfasature tra film e autoritratto evocando sperimentalmente la soggettività presente nel secondo. La fotografia associata al racconto diviene inoltre un oggetto artistico a sé nelle forme della Narrative Art che riprende, anche in questo caso distorcendoli, aspetti effimeri e marginali del nostro quotidiano. Alla maniera delle minuziose osservazioni fenomenologiche già realizzate dai prosatori del Nouveau Roman, l’immagine, come in un album di famiglia, è trattata innanzitutto come traccia memoriale. Anche gli autofotobiotesti e le autovideobiografie, il cui modello implicito è sempre l’album familiare, incrociano originalmente ritrattistica e racconto di sé, offrendosi come nuovi prodotti estetici che rinnovano il rapporto tra arte, introspezione e intimità. Tre case studies, ad esempio, approfondiscono alcune scelte estetiche innovative: la scrittrice Marie Ndiaye, la videoartista Valérie Mréjen e la regista Fiorenza Florentine Menini condividono l’analisi di sé attraverso il proprio e l’altrui sguardo in un caleidoscopio di prospettive in cui vengono proposte nuove riflessioni sull’identità del singolo nella sua relazione, mai pacifica, con l’altro.

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I film The Woodmans (Scott Willis, 2010) e il documentario sperimentale della regista statunitense Elisabeth Subrin, The Fancy (2000) ripercorrono in modi diversi e complementari la vicenda biografica della fotografa Francesca Woodman, scomparsa per suo volere nel 1981, a ventidue anni, e da allora figura centrale nell’arte visiva contemporanea. I due lavori appaiono costruire una distanza, come una sfasatura tra colei che dice io nelle sue opere, e che però può essere colta solo nel suo essere assente, o meglio, nella metamorfosi del sé nella pratica artistica, e coloro che prendono parola per lei per raccontarla, definirla e forse rinchiuderla in una forma alla quale, però, gli scatti di Francesca sembrano voler sfuggire; ed è su questa discrasia, sorta di corrispondenza perduta tra il racconto del film e le figure delle fotografie, che questo mio intervento lavora.

The film The Woodmans (Scott Willis, 2010) and the experimental documentary of the American director Elisabeth Subrin, The Fancy (2000), explore in different yet complementary ways the biographical journey of the photographer Francesca Woodman, disappeared by her own will in 1981, at twenty-two, and since then a major protagonist of contemporary visual art. The two films appear to build a distance of sorts, a shift between the woman that says ‘I’ in her works, that can be grabbed in her absenceonly – or, better, in the metamorphosis of the self offered by her artistic practice –, and those who speak for her to recount her story, define her and maybe imprison her in a form to which her pictures seem to be willing to escape from. It is precisely on this dyscrasia, a lost correspondence between the pictures and the images of the films, that my contribution deals with.

 

 

 

1. Pellicole. Fotografie e film

Scomparsa per suo volere nel 1981, a ventidue anni, Francesca Woodman si delinea ormai come figura centrale dell’arte visiva contemporanea, in un caso notevole di celebrità sorta e come esplosa poco tempo dopo – e forse a causa – di quella morte precoce e drammatica. In effetti, a partire dalla prima esposizione postuma nel 1986, negli anni a seguire sono state proposte numerose retrospettive delle sue opere, tra le quali una monografica di più di centoventi scatti al Guggenheim di New York nel 2012; e sono apparsi poi svariati saggi e monografie,[1] fino a fare di Woodman un nome molto noto e ricorrente anche negli ambienti meno specializzati, in una dinamica non lontana da quella che ha dato forma alla leggenda di Vivian Maier in anni ancora più recenti.[2]

Il documentario sperimentale della regista statunitense Elisabeth Subrin, The Fancy (2000), ripercorre la vicenda biografica di Woodman in una dimensione per molti aspetti inusuale, giacché gli scatti dell’artista non sono mostrati ma rievocati in descrizioni affidate a una voce over e performati da modelle che ne replicano le pose, così da costruire una sorta di ritratto in absentia dai toni suggestivi e talvolta inquietanti.[3]

Dal canto suo, il film di Scott Willis The Woodmans, presentato al Festival di Roma nel 2010 e dalla struttura più convenzionale, è dedicato al ricordo della fotografa in una sorta di album di memorie raccolte dai familiari e da chi le è stato vicino, come indica il titolo, in una polifonia di voci e immagini che accosta interviste, fotografie di famiglia, pagine di diario a filmati e immagini prodotti dalla stessa Francesca.[4]

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Abstract: ITA | ENG

Nombreux sont les artistes visuels qui – ponctuellement ou de manière récurrente –, choisissent de se filmer eux-mêmes et d’en faire œuvre. Françoise Parfait, dans l’ouvrage paru en 2001 Vidéo : un art contemporain, emploie au sujet de ces œuvres l’expression d’«auto-bio-vidéo-graphies», regroupant sous ce terme les pratiques vidéographiques fondées sur le récit de soi-même et l’autoreprésentation. Les autoportraits filmés par des artistes s’inscrivent à la rencontre de deux héritages : autobiographique et portraitique. Si l’autoportrait relève d’une tradition picturale ancienne, celle-ci est profondément renouvelée et transformée grâce à l’apparition de la vidéo dans les années 1970, la technique ajoutant à l’image son et mouvement, apportant au portrait un récit, et au visage une voix. À partir d’exemples puisés dans l’art contemporain, nous nous attacherons à déterminer la singularité du regard des plasticiennes en termes de processus et de représentations. Si la critique à l’encontre de l’art de l’intime a pu être virulente, des autrices s’accordent sur le fait que certaines œuvres échappent à cet écueil, à la condition qu’elles parviennent à dialectiser l’expérience subjective avec le monde extérieur ; dire « je », mais convoquer la présence de l’autre. Nous retiendrons ici dans cette perspective deux stratégies artistiques : la dissimulation (Élodie Pong) et la mise à nue (Justine Pluvinage). De la réticence au dévoilement à l’affirmation de la révélation, nous interrogerons ainsi la manière dont ces pratiques artistiques proposent des espaces de réflexion sur le moi et sa construction.

Many visual artists – occasionally or recurrently – choose to film themselves and to create their own work. Françoise Parfait, in the book published in 2001 Vidéo: un art contemporain, uses the expression «auto-bio-video-graphs» about these works, grouping under this term the videographic practices based on the narrative of oneself and the self-representation. The self-portraits filmed by the artists are part of a meeting of two legacies: autobiographical and portraiture. If the self-portrait is part of an ancient pictorial tradition, it is deeply renewed and transformed thanks to the appearance of video in the 1970s, the technique that adding sound and movement to the image, giving to the portrait a narrative, and to the face a voice. Using examples drawn from contemporary art, we will attempt to determine the singularity of the visual artist’s gaze in terms of processes and representations. While criticism of the art of the intimate have been virulent, some authors agree that certain works escape this pitfall, on the condition that they manage to dialectise the subjective experience with the outside world; saying ‘I’, but evoking the presence of the other. In this perspective, we will consider two artistic strategies: the concealment (Élodie Pong) and the laid bare (Justine Pluvinage). From reticence to unveiling to the affirmation of revelation, we will thus question the way in which these artistic practices offer spaces for reflection on the self and its construction

 

Nombreux sont les artistes visuels qui – ponctuellement ou de manière récurrente –, choisissent de se filmer eux-mêmes et d’en faire œuvre. Françoise Parfait, dans l’ouvrage paru en 2001 Vidéo : un art contemporain, emploie au sujet de ces œuvres l’expression d’« auto-bio-vidéo-graphies »,[1] regroupant sous ce terme les pratiques vidéographiques fondées sur le récit de soi-meÌ‚me et l’autoreprésentation. Les autoportraits filmés par des artistes s’inscrivent ainsi à la rencontre de deux héritages : portraitique et autobiographique.

 

1. Autoportraits filmés : une tradition portraitique

Ces autoportraits se situent dans la droite lignée d’une tradition du genre du portrait en réinvestissant certains codes picturaux. Ces œuvres se caractérisent par leur focalisation sur une personne, convoquant d’emblée le genre portraitique, définit par Jean-Marie Pontévia comme « un tableau qui s’organise autour d’une figure ».[2]

Cette figure est ici la seule fin de la représentation, les autres enjeux en étant exclus. Ce qui l’entoure est relégué au second plan – sinon éliminé – et subordonné à son élément principal : l’artiste se trouvant seul à l’écran et occupant le cadre de manière centrale. Par conséquent, le décor de ces vidéos est souvent réduit à un fond neutre en arrière-plan, la mise en scène est dépouillée, sinon abstraite. La figure du sujet filmé se découpe sur une forme de non-lieu visuel, un arrière-plan qui le décontextualise et focalise l’attention sur ses attitudes, son corps et son visage. La mise en cadre du portrait est en outre traditionnellement réglée par des conventions qui apparaissent dès l’entrée du genre à l’académie et perdurent dans les images des plasticiens contemporains. Le point de vue choisi est établi dans un rapport de frontalité avec le spectateur à venir ; les sujets filmés sont présentés de face, assis ou debout, le visage tendu vers l’objectif. Le visage est le plus souvent le point nodal des autoportraits filmés. Les sujets sont filmés en plans serrés, parfois cadrés en gros plans qui mettent en valeur leur physionomie.

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Abstract: ITA | ENG

Avec les photographies de Denis Cointe et la traduction allemande de Claudia Kalscheuer, Y penser sans cesse de Marie NDiaye est une forme autobiographique intermédiale et plurilingue qui interroge profondément l’espace dans l’écriture de soi. Dans leurs interactions, texte et photographies proposent une errance spatiale à travers Berlin dans laquelle s’articulent mémoire intime et histoire collective. Le texte fait entendre la voix d’une mère et de son jeune fils qui viennent de s’installer à Berlin dans un appartement où vivaient des enfants juifs déportés en 1943. Qui suis-je ? Où sommes-nous ? Quelle est notre « Haus » (maison) ? Telles sont les questions que pose l’enfant à sa mère, qui est peu à peu hanté par la voix des enfants tragiquement disparus. Ces phénomènes de hantise sont redoublés par le dispositif texte-photographie qui fait revenir des visages sans noms et sans paroles traversant l’espace berlinois photographié et écrit. La langue française est elle aussi peu à peu hantée et entée par la langue allemande. Le texte a été publié de manière bilingue et Marie NDiaye intègre de l’allemand au français au fur et à mesure que le récit progresse, soulignant ainsi la mobilité foncière de l’écriture de soi qui se définit comme un déplacement entre les langues et entre les médias. Il s’agit de montrer qu’Y penser sans cesse repose sur des phénomènes de hantises historiques, figurales et linguistiques qui mettent en évidence qu’au lieu de soi, se trouvent des autres.

Marie Ndiaye’s text Y penser sans cesse, published with photographs by the artist Denis Cointe and accompanied by Claudia Kalscheuer’s German translation, is an intermedial and multilingual autobiographical form that questions the space within the writing of the self. In their interrelation, writing and photographs draw a sort of wandering in the city of Berlin and an unprecedented articulation between personal memory and collective history. The text, in fact, gives voice to the dialogue between a mother and her son who have recently been living in a flat once inhabited by a deported Jewish family. «Who are we? Where are we? What is our “Haus”?» the son repeatedly asks his mother, obsessed whit the voices of the Jewish child who had inhabited that space. Through the redundant images of anonymous and mute faces crossing the German capital by train, the photographs included in the text help intensify the repetitive nature of the writing and the obsessive presence that inhabits the young Frenchman. At the same time, the German language is progressively grafted into the French language, in a linguistic hybridisation that underlines the mobility of self-writing, a real shift between languages and media. The aim of this contribution is to highlight the phenomena of historical, metaphorical and linguistic hantise on which this work is built and through which the presence of the others replaces that of the self.

 

 

L’œuvre contemporaine qui nous intéresse ici est au départ un exemple de « littérature exposée » telle qu’Olivia Rosenthal et Lionel Ruffel l’ont théorisée : une littérature en scène, qui prend la forme de la performance et qui s’insère dans un dispositif de publication multimodal.[1] En 2010, le photographe et vidéaste Denis Cointe demande à Marie NDiaye d’écrire un texte destiné à être lu à voix haute et accompagné de musique et de photographies projetées sur le fond d’une scène. Il pensait enregistrer la voix de l’auteure ; finalement, elle sera présente sur scène. La performance s’intitule Die Dichte, expression allemande qu’on a pu traduire par ‘ la densité ’, ‘ l’épaisseur ’, ‘ la profondeur ’ et ‘ l’intensité ’, et qui nomme peut-être les différentes couches qui constituent ce projet intermédial et les interactions entre le visuel, le musical et le textuel. La performance est présentée ainsi : « un texte et une voix qui se déploient dans un espace visuel et sonore. Le lieu de cette rencontre : Berlin et les souvenirs ».[2] L’œuvre est composée à plusieurs : Marie NDiaye pour l’écriture et la lecture du texte, Denis Cointe pour les photographies et les musiciens Sébastien Capazza (pour la guitare et la basse) et Frédérick Cazau (pour les claviers et les ordinateurs). La performance est présentée à Bordeaux en 2011 puis en France et en Allemagne (avec des sous-titres allemands) en 2012. Mais ce n’est pas la seule forme de publication – d’exposition – que prend Die Dichte. A côté du spectacle, Denis Cointe réalise en 2012 un court-métrage avec le texte de Marie NDiaye[3] et la musique de Sébastien Capazza et Frédérik Cazau qui déploie plus d’images fixes et mobiles que la performance n’en déployait sur scène. En 2012 encore, le texte conçu pour être lu à voix haute se traduit aussi en une pièce radiophonique bilingue diffusée en Allemagne.[4] Puis l’œuvre continue encore sa vie sous une autre forme, numérique, sur le site de la compagnie Translation fondée par Denis Cointe qui demande à Sébastien Gazeau de concevoir une « feuille numérique » en rapport avec Die Dichte sur laquelle on trouve les photographies de Cointe, un enregistrement de la voix de NDiaye et des citations d’historiens de l’art et de philosophes ; pour Denis Cointe, cette feuille « sans destination précise, […] converse et chemine avec les autres » formes de l’œuvre.[5]

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