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Il contributo prende in esame l’attività poliedrica di Giovanna Brogna/Sonnino proponendo un confronto tra le differenti aree di ricerca (fotografia, cinema, arti visive) esplorate dall’artista che ama sconfinare tra tecniche e linguaggi spesso incrociati tra loro. L’analisi del libro d’artista Lettere al Dott. B. 1979-1987 (2019), raccolta di lettere battute a macchina indirizzate allo psicanalista di Brogna Sonnino e accompagnate da materiale eterogeneo (cartoline, fotografie, collage, fotocopie), offre l’occasione per ripercorrerne gli esordi da cineasta e l’approdo alle arti visive e di individuare alcune consonanze importanti fra i suoi diversi campi di ricerca: l’archivio come pratica artistica, la contaminazione tra verbale e visuale e il connubio tra arte e terapia. Dal suo linguaggio originale, apprezzato in occasione di mostre e rassegne promosse in Italia e all’estero, scaturiscono opere di grande interesse in cui si riscontra il ricorso a un’efficace strategia fototestuale che guarda alla forma atlante e all’autobiografia come forme espressive privilegiate.

The essay analyzes several areas (Photography, Cinema, Visual Arts) of Giovanna Brogna Sonnino’s research with a focus on the hybrid nature of Lettere al Dott. B. 1979-1987 (2019). This artbook is an unconventional way of narration that combines a collection of letters to her psychoanalyst with an heterogeneous variety of visual content ranging from postcards to collages. Lettere al Dott. B. 1979-1987 represents the ultimate essence of Brogna/Sonnino’s work: the archive as an artistic message, the contamination between verbal and visual, and the merge between art and therapy. Relying on different media, techniques and strategies including also fototexts and atlas, the artist composes a very personal and original autobiography.

 

 

 

1. Autobiografia e (auto)terapia

 

Giovanna Brogna/Sonnino è un’autrice versatile e dall’ampio orizzonte culturale che ama sconfinare tra tecniche e linguaggi spesso incrociati tra loro.[1] Alla fine degli anni Settanta, dopo la formazione storico-artistica tra Firenze e Catania, Brogna/Sonnino si trasferisce a Roma, dove si interessa al mondo del cinema e della televisione grazie alla specializzazione come cineoperatrice.[2] Negli stessi anni si dedica alla fotografia ma la sua prima mostra è del 1986. All’attività lavorativa per la RAI si affianca quella altrettanto prolifica di autrice e produttrice indipendente che mai abbandona l’imprinting del cinema dato dall’insieme di narrazione e ritmo. Con Mathelika e Drifting Pictures Brogna/Sonnino realizza film, docufilm e documentari e parallelamente si cimenta nella sceneggiatura, attività emblematica di un immaginario conteso tra gli ambiti della visualità e della scrittura.[3] Bruno Di Marino coglie precocemente l’importanza di questo nesso nel video Parliamone (1998):

 

 

Con questi linguaggi espressivi Brogna/Sonnino sperimenta un originale intreccio iconotestuale che si basa sul rapporto simbiotico tra arte, vita e terapia ed è riconducibile alla pratica dell’accumulazione terapeutica di oggetti d’affezione attraverso l’archivio. Lo sguardo sull’archivio è infatti presente nei suoi diversi (e forse complementari) progetti, accomunati dalla logica dell’atlante e dal prelievo di immagini preesistenti, che consentono all’artista di pervenire alla definizione della propria identità.[5]

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Nella ricerca di Tomaso Binga la centralità del corpo, declinata sia nella dimensione performativa sia in quella fotografica, si coniuga sin dagli esordi con una operazione di desemantizzazione della scrittura che rimanda, essa stessa, ad una espressività primaria, incarnata proprio nel linguaggio del corpo. Gli esiti della sua operazione sull’espressività si traducono in una radicale messa in discussione della cultura, che va letta anche in chiave femminista.   

In Tomaso Binga's research the centrality of the body, declined both in the performative and in the photographic dimension, is conjugated from the beginning with an operation of desemantization of writing that refers, itself, to a primary expressiveness, embodied precisely in the language of the body. The results of her operation on expressiveness translate into a radical questioning of culture, which must also be read in a feminist key.

 

 

La centralità del corpo è certamente uno degli elementi cardine nella ricerca di Tomaso Binga, un aspetto attorno al quale si dipana il pensiero che sorregge molta parte della produzione dell’artista e che quindi resta fondante anche nelle espressioni più recenti del suo fare. La testimonianza più evidente della propensione di Binga ad intendere il corpo in guisa di strumento espressivo, è sicuramente il fatto che l’artista sia ricorsa, costantemente nell’arco della sua ormai lunga carriera artistica, alla performance[1] o comunque a operazioni che restano di marca accentuatamente performativa anche quando ricondotte all’interno di diverse dimensioni linguistiche, dal video alla fotografia, a forme composite di espressione visiva, capaci di ‘mantenere’[2] viva tutta la tensione dell’accadimento. Come nel caso di Vista Zero uno dei primi interventi performativi di Binga, proposto ad Acireale il 24 settembre 1972, in occasione della VI Rassegna d’Arte Contemporanea – Circuito Chiuso/Aperto, il cui ‘esito’ fotografico, una sequenza di fotogrammi dell’azione, ha assunto la forza dell’opera in sé autonoma.

La riflessione sul corpo, e il suo uso secondo varie declinazioni come segno espressivo, certamente ha a che fare con il coinvolgimento di Binga con le tematiche che il femminismo della differenza andava proponendo proprio in quei primi anni Settanta, delle quali è interprete sottile e raffinata: senza toni rivendicativi o aggressivi, l’artista si pone in modo comunque chiaro e diretto rispetto alle questioni legate alla condizione femminile, in senso sociale e personale. Iconica, in questo senso, è Bianca Menna e Tomaso Binga oggi spose, installazione e performance tenutesi alla Galleria Campo D. a Roma, il 15 giugno 1977, per le quali è interessante leggere quanto scrive l’anno successivo Alberta De Flora:

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Il tono sarcastico di Bianca Pucciarelli Menna si rivela pregnante e femminista già a partire dagli anni Sessanta quando decide, in maniera critica e creativa, di prendersi gioco del sistema dell’arte e sceglie di ribattezzarsi al maschile usando il nome di Tomaso Binga. L’artista salernitana, classe 1931, confessa che nella scelta del nome ha rubato una emme a Tommaso Marinetti, un gesto radicale di radice futurista che denuncia anni di discriminazione sessuale e di privilegi accordati al genere maschile.

Dentro questa ambiguità di genere, giocosa ma seria, l’ironia di Binga mostra fin dai suoi esordi un doppio registro linguistico, un lessico che chiama in causa la parola scritta che diventa immagine, e l’immagine che ha la forza dialogica della parola. A ricordare questo tratto distintivo sono già i suoi primi lavori sulla scrittura verbo-visiva e sulla poesia visiva, in forma anche di performance; pratiche dell’arte come scrittura, che frequenta a partire dagli anni Settanta e che accompagneranno tutto il suo percorso artistico.

Dentro le norme che decodificano scrittura e immagine l’artista ha sempre incluso la sua stessa corporalità, una dimensione presente come ‘lingua-corpo’, che le ha consentito di riscrivere la sua vita attraverso uno sguardo femminile protagonista e critico.

Uno dei recenti innesti tra immagine, scrittura e corpo, a sostegno di una sorellanza sempre più necessaria, sempre più ritrovata, è stata la collaborazione con Maria Grazia Chiuri, fashion designer della maison Dior, che ha scelto per la sfilata prêt-à-porter della stagione autunno-inverno 2019-2020 di affiancare alle modelle le ‘donne lettere’ di Tomaso Binga, prelevate direttamente dalla serie Scritture Viventi del 1976 e dall’Alfabetiere Murale del 1977. Esibite all’interno degli spazi della sfilata, le sagome del corpo femminile nudo che mimano le lettere dell’alfabeto, s’incarnano per dar corpo alle parole, nell’intento di rigenerare ancora quel diritto, sempre meno sopito, dell’apparire e dell’essere donna, che la moda concede come gesto di rivolta e liberazione.

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Due fotografie, due donne, due campi di visione e di azione in cui mettere in gioco processi analogici a partire da un segno indicale, la traccia di un ‘è stato’ che ancora interroga e scuote il presente. Ma anche: due fossili-guida – il leitfossil warburghiano – che assumono la forma senza peso di fossili di luce – lightfossil, nel gioco omofonico proposto dall’autrice – all’interno dei quali rintracciare la forza vitale di connessioni tra presente e passato, tempi vicini e tempi remoti, in un movimento incessante che è quello del pensiero e delle emozioni ripercorse nel ‘filo e le tracce’ di una genealogia in gran parte femminile.

Come tutti i saggi densi, anche Lightfossil: sentimento del tempo in fotografia e letteratura (Postmedia Books, 2020), districa i nodi di visioni latenti che affiorano alla mente dei lettori e delle lettrici cercando intrecci con le immagini attraversate nel testo. Beatrice Seligardi sceglie di partire da due fotografie, rispettivamente di Francesca Woodman e Marianne Breslauer: la prima è Untitled, autoritratto realizzato dalla fotografa americana a Roma tra il 1977 e il 1978, nel quale il corpo dell’artista si distende lungo la parete di una stanza abbandonata accanto al disegno di una porta e alle tracce rimaste di un «mobile fantasma» (p. 7); la seconda è invece Défense d’afficher, che la fotografa tedesca, tra le pioniere della street photography, realizza a Parigi nel 1936, e dove il corpo esile di una donna intenta ad accendersi una sigaretta dialoga con l’ombra di un lampione allungata su un muro di una strada di città. Nonostante la lontananza – geografica e cronologica – tra le fotografe, le due immagini costruiscono una trama nella quale corpi femminili si stagliano e allo stesso tempo si intarsiano in superfici attraversate dal tempo, che «sembrano virare quasi all’organico, come a suggerirci che dietro l’apparente fissità delle architetture si celi una vita soggetta al medesimo fato di quella umana» (p. 120); entrambe le immagini suggeriscono così uno sguardo che esca dalla dittatura del presente per immergersi in quella che l’autrice definisce «una temporalità polifonica» (p. 121).

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Il titolo del recente volume di Margareth Amatulli costituisce uno di quegli esempi di felice sintesi che consente, a chi si accosta alla lettura, di prefigurarsi esattamente cosa andrà incontrando nel testo. Scatti di memoria. Dispositivi fototestuali e scritture del sé (Metauro 2020) esibisce, infatti, i tre elementi attorno cui l’autrice costruisce una fitta rete di snodi –aperture verso un ventaglio di significati possibili – e nodi – punti di congiunzione, di contatto – a partire da quattro opere di autrici e autori francesi apparse negli ultimi trent’anni. Fotografia, memoria e letteratura del sé – quest’ultima interpretata volutamente in una costante oscillazione tra autobiografia e autofiction – costituiscono le chiavi interpretative per accedere a quattro testi che non esauriscono certo le modalità di interazione tra photolittérature – così come l’ha definita Jean-Pierre Montier, convocato da Amatulli nel primo capitolo del saggio – e memorialità, intesa in senso sia individuale che collettivo. D’altronde non è questo l’obiettivo del volume, che non mira tanto, o solo, a inserirsi all’interno del dibattito teorico sulla fototestualità, dibattito i cui esiti vengono comunque ben sintetizzati nel primo capitolo, che ripercorre le proposte classificatorie, fornite da numerosi teorici della semiotica e della letteratura, di un genere che per sua stessa natura elude ogni definizione eccessivamente restrittiva; scopo del saggio è piuttosto quello di prendere le mosse dagli apparenti confini caratteristici dei generi – non solo quello fototestuale, ma anche le forme molteplici riassumibili nelle ‘scritture del sé’ – per mostrarne la porosità nel momento in cui tali dispositivi devono fare i conti con una costante culturale, all’incrocio tra bíos e mimesis, come la memoria, tema che appartiene statutariamente tanto all’atto fotografico quanto alla scrittura dell’io.

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Per il pubblico più cinefilo e per gli habitué dei festival cinematografici, Torino è da sempre la città senza red carpet. Per porre fine a questi e ad altri stereotipi era forse necessario attendere la mostra Photocall. Attrici e attori del cinema italiano, curata da Domenico De Gaetano e Giulia Carluccio, con la collaborazione di Roberta Basano, Gianna Chiapello, Claudia Gianetto e Maria Paola Pierini. Fino al 7 marzo 2022, infatti, la Mole Antonelliana ospiterà al suo interno un lungo tappeto rosso sul quale sfileranno idealmente attrici e attori della storia del cinema nostrano, immortalati nel corso di più di un secolo dallo sguardo dei fotografi e delle fotografe di cinema. Come ricordano gli stessi curatori della mostra, è proprio lo sguardo ad essere al centro dell’intero percorso espositivo, in «un gioco di rimandi […] che questa volta non muove dalla relazione tra attore e regista, ma si attiva a partire da quella più segreta e peculiare che coinvolge l’attore e il fotografo».[1] Ripercorrendo l’evoluzione di una figura professionale centrale per l’industria cinematografica si esplorano dunque, parallelamente, la nostra storia sociale e culturale, ma anche la storia del cinema e del divismo italiani. Si tocca con mano, in sostanza, l’idea teorizzata da Roland Barthes di una lunga «esposizione ben organizzata» di «visi archetipi», di miti creati e diffusi dal cinema a uso e consumo dello spettatore.[2]

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Strutturato come dispositivo fototestuale stratificato, che è al contempo reportage di viaggio, narrazione odeporica, racconto fotografico, guida turistica, Tutta la solitudine che meritate, formato dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, è un libro atipico ed eterogeneo in cui scrittura e immagine si combinano e si scombinano reciprocamente, dando vita a un palinsesto intermediale in cui il reale non è solo una dimensione da testimoniare, interpretare e documentare, ma diviene anche oggetto di una puntuale rifigurazione verbale e visiva. Alternando prospettive, sguardi, medium differenti, il libro interroga le possibilità di conoscenza, visione e rappresentazione di uno spazio altro, estremo – l’Islanda – problematizzando le risorse percettive insite nella letteratura e nella fotografia. Il saggio si propone di indagare le diverse modalità espressive, le strategie compositive opposte ma complementari con cui scrittura e immagine, in costante equilibrio tra raffigurazione e risemantizzazione, tra produzione e riproduzione dell’esistente, si approssimano, interagendo internamente, alla realtà circostante tentando di fornire prospettive rinnovate,  significativamente feconde, e nuovi indirizzi di senso e ricerca.

Structured as a layered phototextual device, that is at the same time travel reportage, odeporic narration, photographic narration, tour guide, Tutta la solitudine che meritate, formed by the texts of Claudio Giunta and the photographs of Giovanna Silva, is an atypical and heterogeneous book in which writing and image combine and break down each other, giving life to an intermedial schedule in which the real is not only a dimension to witness, interpret and document, but also becomes the subject of verbal and visual refiguration. Alternating perspectives, looks, different mediums, the book questions the possibilities of knowledge, vision and representation of another, extreme space – Iceland – problematizing the perceptual resources inherent in literature and photography. The essay aims to investigate the different modes of expression, the opposing but complementary compositional strategies with which writing and image, in constant balance between depiction and resemantization, between production and reproduction of the existing, approximate, interacting internally, to the surrounding reality trying to provide renewed perspectives, significantly fruitful, and new directions of meaning and research.

1. Spazi da scrivere

Questo lungo periodo, posizionato a metà di pagina 35, rappresenta una pregnante mise en abyme concettuale di Tutta la solitudine che meritate, volume composto dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, pubblicato nel 2014 nella collana ‘Travel Books’, gestita in cooperazione dalle case editrici Humboldt e Quodlibet. Il periodo summenzionato contiene, infatti, tra le righe il nucleo fondante dell’interrogativo che abita in maniera carsica le pagine e le immagini contenute in questo libro stratificato e composito, che è al contempo reportage di viaggio eterodosso, arguto baedeker, atipico diario iconografico, in cui le diverse sezioni – il racconto odeporico, la sezione fotografica, il dossier letterario, le informazioni pratiche per il viaggio (consigli utili per i voli, gli spostamenti, i pernottamenti, gli approvvigionamenti) – si integrano e si completano traendo sostegno dalla struttura globale dell’opera, in definitiva armonizzante e unitaria. Come indagare narrativamente e visualmente il tempo attraverso lo spazio e lo spazio attraverso il tempo personale del viaggio?

Minaccia, esortazione o – come suggerisce Sabrina Ragucci – «oggettiva condizione della nazione»,[2] il titolo di questo elaborato dispositivo fototestuale non solo esibisce immediatamente le ragioni e le condizioni che popolano le fondamenta dell’esperienza raccontata, ma soprattutto illumina l’aspetto focale che viene messo in gioco quando si parla di Islanda, una nazione con densità abitativa media tra le più basse al mondo: la solitudine e le sue più manifeste declinazioni. Fondato sull’intreccio strutturale, coagulato e coeso, di elementi disparati – non fiction, memorialistica, fotografia, resoconto storico, trattato sul costume, dossier letterario, intervista, mappe –, Tutta la solitudine che meritate è un’opera fortemente intermediale e intertestuale, che fonda la propria ragion d’essere sulla riuscita dialettica interna che ne anima la progressione e ne consente una fruizione ad elastico. Nell’economia del libro testo e immagine si fanno correlativi di un racconto similare ma non sovrapponibile, attuando inevitabilmente strategie compositive differenti e mutevoli. L’alternarsi dualistico di diversi sguardi e punti di vista, in cui s’inserisce nel finale la presenza di ulteriori angolazioni e focalizzazioni – il Dossier Islanda, l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer – mette in gioco e problematizza reiteratamente le tre polarità proprie di ciascun regime scopico – immagine, dispositivo, sguardo –, collaborando a creare un palinsesto eterogeneo in cui ogni acquisizione interna ed esterna al libro è temporanea, relativa, suscettibile d’essere ampliata, contraddetta, obbligata ad essere rimessa in discussione nel prosieguo delle varie parti che si susseguono. La prima sezione, che ha lo stesso nome del libro, è dedicata interamente al resoconto esperienziale del viaggio intrapreso, inframmezzato rapsodicamente da immagini fotografiche (sedici su un totale di settantatré pagine) di piccolo formato, 5cm x 8cm, compendio visivo che puntella il testo e fornisce dimostrazioni iconograficamente fedeli e rispondenti alle constatazioni che il testo effettua nel suo farsi. In questa prima parte del volume le immagini, anche a causa della monocromia imposta dal bianco e nero, emergono di poco rispetto al corpo e alla trama segnica del testo che le circonda, svolgendo perciò un compito prettamente informativo. La storia di Giunta e Silva, la storia del loro viaggio, è un percorso nel macrospazio d’Islanda in cui «la potenza geodetica»[3] del tragitto funge da finestra aperta sul quotidiano dell’estremo Nord, alle propaggini terminali dell’abitabile, un tramite per comprendere i moti che serpeggiano al fondo di una terra che impone innanzitutto di resistere al bisogno intrinseco di socialità che si palesa con intensità e frequenza variabile in ogni essere umano, all’interno di un perimetro geografico che per naturale fisiologia topografica propone una costante verifica della possibilità di fare a meno dell’altro e degli altri. D’altronde, in Islanda il comportamento dell’uomo, ciclico, reiterato in forme pressoché identiche da centinaia di anni e ancora legato a primarie esigenze di sopravvivenza, è frutto di una meccanica ma salvifica coazione a ripetere, capace di autogenerarsi e autosostenersi a prescindere dai segnali spesso impalpabili del divenire esteriore. Qui il tempo, così come il fluire delle stagioni, è sfilacciato, alineare, indistinto e produce effetti meno evidenti sul circostante e sul contingente, tanto che alcuni anfratti così remoti da essere irraggiungibili sopravvivono in una dimensione di apparente astoricità, o per meglio dire, entro una dimensione della temporalità che trascende la storicità umanamente intesa, così come la temporaneità caratteristica degli spazi industrializzati, votati alla produzione e al consumo. La geografia umana e quella territoriale-ambientale sono direttamente proporzionali, ma è la seconda a decidere effettivamente le propaggini caratterizzanti della prima. Se il tempo della lunga durata rimane indifferente, altèro, è destinato a perdere valore ermeneutico e dev’essere perciò esplorato attraverso lo spazio, elemento dalle sottovalutate qualità euristiche che ne veicola le manifestazioni pregnanti nell’avvicendarsi degli ambienti e dei paesaggi. Lo spazio è allora destinato ad assurgere a «ecosistema esistenziale, in cui il soggetto percepisce sé stesso e le relazioni con gli altri che vi abitano».[4] A differenza di quello che accade in gran parte del macrocosmo occidentale, in particolare negli ambienti urbani e metropolitani, dove si progredisce a rapide falcate verso un futuro di luoghi-non-luoghi, sedi «del tempo rettilineo della finitezza autofondata e autofinalizzata»,[5] in Islanda «lo spazio ha un significato esatto»[6] e i paesaggi vuoti – almeno per l’occhio di una persona abituata a ben altre percentuali di consumo di suolo –, omogenei e ripetitivi che lo caratterizzano sono una regola assoluta, un pegno imprescindibile, uno schiaffo inconsapevole alla brama antropomorfica di chi vorrebbe essere sempre posizionato in un luogo potenzialmente razionalizzabile, recettivo, servibile, collegabile opportunamente ad altre forme di vita, riconducibile in fondo a una percezione umanizzante del reale. In un contesto così strutturato, l’umano appare conseguentemente come un’eccezione e la solitudine che l’avvolge e lo accompagna è talmente palpabile, talmente presente da configurarsi non come uno stato emozionale – uno tra i tanti –, bensì come una condizione vincolante e irriducibile. Anche la natura, o almeno le declinazioni naturali a noi più vicine e assimilabili – boschi, foreste, fiori – sono sparute e refrattarie, quasi inesistenti. Ciò che continua a sorprendere Giunta, nonostante il numero dei suoi viaggi sull’isola stia per raggiungere la doppia cifra, è il fatto che «l’oggetto Islanda […] s’impone sui soggetti»,[7] di modo che la superficie elementare, essenziale, che ne riveste l’aspetto esteriore si presta poco a ermeneutiche forzose o coercitive, è poco suscettibile a sovradeterminazioni polisemiche atte a trasformare l’oggetto d’osservazione in simbolo o in allegoria. Non è una natura da idolatrare o alfabetizzare, rifugge gli astrattismi e le appropriazioni indebite. La materia pervadente che riveste spazi dilatati e sempre identici a sé stessi, distese aride e brune in cui nulla è a portata di mano, oppone una strenua resistenza a ogni facile tentativo di trascendenza, a ogni impulso di elevazione spirituale che per una collaudata quanto mistificante osmosi dovrebbe verificarsi senza eccezione in luoghi impervi e desolati. Giunta opera, assecondando un movimento antinomico a quello che percorre solitamente la letteratura di viaggio, una consapevole e puntuale operazione di demitologizzazione e defeticizzazione dei luoghi raccontati, li emancipa dalla «topografia dell’immaginario»,[8] per restituire loro, a costo di apparire prosastico, una verità altra, fattuale, decongestionata. Sembra che la prosa di Giunta, mai concettosa e sempre divertita, a tratti caustica, sostenuta da un registro piano e colloquiale che non lesina apostrofi dirette al lettore, tenda proprio a voler smorzare l’idealizzazione romantica e artificiosa che storicamente connette – almeno dal periodo del ‘sublime’ romantico in poi – in maniera stringente luoghi brulli, solitari, estremi, a pensieri profondi, sofferti e a intensi e proficui momenti di riflessività. L’afflato antilirico, anti-idillico e disincantato che sorregge e sostanzia il racconto-conversazione di Giunta è utile poi ad allargare l’indirizzo precipuo del narrato ad altre componenti argomentative che si accostano al flusso principale a mo’ di reticolo alveolare, come ad esempio i passaggi dal sapore trattatistico-documentario incentrati sulle manifestazioni più tipiche del turismo in salsa islandese e sulle costanti sociali e folkloristiche che scandiscono il rapporto tra stranieri e autoctoni, i brani analettici che rievocano viaggi precedenti e istituiscono un altalenante dialogo intratestuale e comparativo tra presente e passato, anacronie minime utili a rimarcare le divergenze sviluppatesi e ad estendere la prospettiva dello scrivente e del lettore, o le considerazioni personali che incrementano la presenza e la voce autoriale. Inoltre, le intersezioni di carattere ricognitivo storico-politico – indice primario e maggiormente riscontrabile di una tendenza diffusa alle digressioni e all’aneddotica –, non solo rispondono alla funzione di contestualizzare e tratteggiare un approssimativo quadro informativo, ma altresì arricchiscono il sostrato narrativo, ampliandone il portato e intensificandone l’interesse. I brevi intermezzi lirici – Rilke, Sereni, Borges – fungono invece da contraltare denotativo, dunque rivelatorio di una sensibilità acuitasi di fronte a certe persone, luoghi, eventi, alla scrittura piana e orizzontale di Giunta, attento, come già accennato, a evitare patetismi e a non scadere nel sentimentalismo retorico in cui rischia di rimanere irretito nel descrivere le toccanti vicende che si celano dietro le vite sorprendenti degli interlocutori con cui entra in contatto. Del resto, uno dei fenomeni più frequenti che pare innescarsi durante la visita o il soggiorno in Islanda è uno sfasamento profondo della percezione e dello sguardo, una sproporzione tra ciò che ci si immagina e la realtà tangibile. Entro le spire di un’atmosfera sospesa e rarefatta, quello che appare allo sguardo interpretante dello straniero, abituato a determinati sistemi di pensiero e valutazione, non è ciò che realmente è; il processo attivo nel soggetto percipiente, dal momento che percepire è «sempre percepire da un qualche programma d’azione all’interno di un mondo che è già fortemente intriso di valore per chi lo abita»,[9] tende a confondere, a corrompere e a trasfigurare il noumeno, lo scheletro fondante del percepito, assegnandogli significati impropri e imprecisi. È l’uomo ad applicare alla fenomenologia del reale un consolidato canone di bellezza, a decriptare i segni dell’altro da sé attraverso un pregresso bagaglio di conoscenze e mediante il filtro del proprio immaginario. La cognizione di tutto ciò che si pone al di fuori deriva dal filtraggio continuativo introdotto dalle nostre categorie di interpretazione e riflessione, dalle nostre articolate tassonomie e ingegnose casistiche, eppure, da secoli l’Islanda pare soprassedere agli assalti, alle catalogazioni, alle mode passeggere. In Islanda l’uomo acquisisce chiara consapevolezza del proprio fallimento, il fallimento di non poter essere altro che sé stesso e di non poter possedere nient’altro rispetto a quello che possiede già. L’isola decentralizza l’uomo, lo marginalizza, lo allontana dalla cabina di comando a cui è ancorato e lo restituisce alla sua esiguità, alla sua caducità. La natura in Islanda è un sostitutivo ‘logico’ delle forme artistiche, storicamente latenti in un paese che non ha mai avuto un ceto aristocratico o alto borghese che potesse permettersi un’esistenza dedita all’arte e al mecenatismo. Essa appare magnificente e intimorente, ma ciò che davvero la declina e la trasfigura, mutandone l’aspetto e la fisionomia, è la luce, una luce che scolpisce e influenza l’osservazione esterna, ne orienta il sentimento e ne estende il momento dell’appercezione. Il paesaggio in Islanda, luogo in cui la morte e la privazione sono elementi storicamente ordinari, parla un linguaggio muto, capace però di determinare l’umore di chi lo guarda e lo attraversa, decretandone gli apici e le svolte improvvise. Per questo motivo, per non dipendere eccessivamente da un clima né amico né nemico, che conduce l’essere umano a riconsiderare le virtù insite nel limite e nella stasi, a raggiungere l’apogeo della frugalità, è necessario coltivare l’interiorità, ispessire il proprio baricentro intimo, le proprie risorse caratteriali. Giunta si sofferma a più riprese sulla paradossale seduzione esercitata dal monotono, dal ripetitivo, una seduzione espressiva che trasla dal piano tematico a quello formale mediante i vuoti, le espunzioni del discorso intrapreso e non attraverso i pieni, le forzature illustrative e conative. In un mondo socializzato e aperto, globalizzato e interconnesso, in cui ogni fenomeno pretende d’essere significativo e di destare attenzione, le parole di Giunta, sovraesponendo fedelmente la dignità dell’ordinario, costituiscono un sincero e sentito elogio del marginale, del contro-egemonico, dell’antiestetico, del normale. Il Dossier Islanda che segue la sezione iconografica è un innesto ibrido, di carattere letterario, costituito da tre microaree: un commento critico a Gente indipendente (1935) di Halldór Laxness (premio Nobel per la letteratura nel 1955), un commento critico a Letters from Iceland (1937) di W. H. Auden e al libro eponimo di Jean Young, e infine l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer, artista svizzero particolarmente legato all’Islanda. Questa sezione aggiuntiva permette non solo di gettare nuova luce, con la relativa dose di paragoni e differenziazioni, sul passato della terra islandese, ma anche di estendere e impreziosire il ventaglio di lettura, conoscenze e discernimento. Rappresenta, inoltre, una modalità comparativa di attraversamento del reale che si avvale della sonda letteraria e artistica, spesso capace di rivelare ciò che la realtà medesima tende a nascondere.

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Nonostante l’abbandono della pratica fotografica agli inizi degli anni Ottanta, è indubbio che Lisetta Carmi abbia assunto una certa centralità nella storia della fotografia italiana. Negli anni Duemila, dopo una lunga dimenticanza, le sue opere sono diventate oggetto di grande attenzione e sono state esposte in mostre personali e collettive. Nel 2010 il regista Daniele Segre ha dedicato alla sua figura di artista il film documentario Lisetta Carmi, un’anima in cammino, presentato con grande successo alla Mostra del Cinema di Venezia dello stesso anno. Poi hanno assunto sempre maggior rilievo le esposizioni come quella a Palazzo Ducale di Genova (città in cui è nata nel 1924) del 2015, al Museo di Roma in Trastevere nel 2017, al MAN di Nuoro nel 2017, fino all’ultima mostra intitolata Gli altri, sviluppata attraverso due tappe al Castello Carlo V di Lecce e al Museo Osvaldo Licini di Ascoli nel 2021.

Alla luce di questo grande successo, con sguardo retrospettivo, oggi possiamo provare a leggere la funzione assunta dal lavoro della fotografa nel più ampio sistema dell’industria culturale italiana di ieri e di oggi, distinguendo la necessaria azione destabilizzante che le sue fotografie provocarono allora dal valore storiografico di cui si caricano attraverso le mostre e gli studi a loro dedicati in questi ultimi anni.

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Premessa

Questo secondo Focus di Punctum in motion: fotografia e scritture dell’io presuppone il quadro teorico tracciato nell’introduzione al primo, pubblicato su Arabeschi n. 16. In quell’orizzonte ideale vanno infatti collocati i contributi qui raccolti, che riannodano il filo tra narrazione e immagini attraverso l’analisi di alcune opere di scrittori, cineasti e videoartisti prodotte dagli anni Settanta fino ad oggi. In particolare, nei casi analizzati l’interazione tra immagine, filmico e parola autobiografica tende ad effetti stranianti, ottenuti valorizzando gli ‘scarti’; è qui sovvertito il senso di luoghi di memoria assai banali come l’album familiare e le riproduzioni di monumenti e quadri famosi. I nove saggi interdisciplinari sono dedicati agli incroci intermediali più sperimentali e alle implicazioni culturali e formali – tra analogico e digitale – tanto dell’uso dell’immagine fotografica, quanto della sua relazione con l’immagine filmica o la videoarte, nel quadro di fenomeni narrativi che si sono fatti sempre più multimodali. Rispetto alla macchina da presa, la videocamera diviene una protesi, una lente d’ingrandimento sempre più efficace, in grado di rappresentare la relazione tra fotografia e racconto di sé: un occhio straniante capace di indagare e mostrarci cosa succede poco prima e poco dopo un’immagine pittorica o un’istantanea fotografica, di rivelare le sfasature tra film e autoritratto evocando sperimentalmente la soggettività presente nel secondo. La fotografia associata al racconto diviene inoltre un oggetto artistico a sé nelle forme della Narrative Art che riprende, anche in questo caso distorcendoli, aspetti effimeri e marginali del nostro quotidiano. Alla maniera delle minuziose osservazioni fenomenologiche già realizzate dai prosatori del Nouveau Roman, l’immagine, come in un album di famiglia, è trattata innanzitutto come traccia memoriale. Anche gli autofotobiotesti e le autovideobiografie, il cui modello implicito è sempre l’album familiare, incrociano originalmente ritrattistica e racconto di sé, offrendosi come nuovi prodotti estetici che rinnovano il rapporto tra arte, introspezione e intimità. Tre case studies, ad esempio, approfondiscono alcune scelte estetiche innovative: la scrittrice Marie Ndiaye, la videoartista Valérie Mréjen e la regista Fiorenza Florentine Menini condividono l’analisi di sé attraverso il proprio e l’altrui sguardo in un caleidoscopio di prospettive in cui vengono proposte nuove riflessioni sull’identità del singolo nella sua relazione, mai pacifica, con l’altro.

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