Ζεῦ πάτερ á¼λλá½° σὺ ῥῦσαι á½πá¾½ á¼ Îρος υá¼·ας á¼χαιá¿¶ν,
ποίησον δá¾½ αá¼´θρην, δὸς δá¾½ á½φθαλμοá¿σιν á¼°δÎσθαι:
á¼ν δá½² φάει καá½¶ á½λεσσον, á¼πεί νÏ τοι εá½αδεν οá½τως.
Zeus padre libera tu dalla nebbia i figli degli Achei;
fai il sereno, permetti agli occhi di vedere:
portaci pure la morte, ma alla luce, se è la tua volontà
Omero, Iliade, libro XVII, vv. 645-647
Nel canto XVII dell’Iliade, la battaglia infuria attorno al corpo di Patroclo, caduto per mano di Ettore. Gli Achei, privati del loro eroe e incalzati dalla ferocia dello scontro, combattono per impedire lo scempio, mentre i Troiani premono con violenza crescente. È in questo contesto che Aiace, di fronte alla caligine divina scesa sul campo – una nebbia fitta, inviata da Zeus stesso per confondere i combattenti – rivolge la sua preghiera al dio.
Aiace non invoca la salvezza, ma la luce: chiede a Zeus non di risparmiare la vita agli Achei, ma di disperdere la nebbia, di restituire la chiarezza del cielo, la visibilità del campo, l’accesso allo sguardo. In questo passaggio potentemente simbolico dell’Iliade, l’eroe esprime un principio fondamentale dell’immaginario antico: combattere al buio è disonorevole, morire nella luce è invece accettabile, persino desiderabile.
La supplica di Aiace, nella sua apparente semplicità, racchiude una potente metafora della visione, fulcro della cultura greca arcaica e classica. La luce non è qui solo condizione materiale della visione, ma valore etico: è ciò che consente all’azione di essere visibile, conoscibile, giudicabile. In altre parole, è la luce a garantire la narrabilità dell’evento umano, a renderlo parte della memoria collettiva. Il buio, al contrario, è il luogo del disordine, dell’ignoto, dell’informe. Morire nella luce è ancora morire da eroe; perire nell’oscurità significa invece essere esclusi dallo sguardo e dunque dalla narrazione.