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Il 2 aprile 2025 Sonia Bergamasco ha tenuto una masterclass per il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, nell’ambito dei corsi di Storia del teatro e dello spettacolo e di Storia del cinema italiano. Al centro dell’incontro il film Duse – The Greatest, diretto da Bergamasco nel 2024, a cento anni dalla scomparsa della diva, inserito nel cartellone del cineclub Arsenale. 

On 2 April 2025, Sonia Bergamasco held a masterclass for the Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere at the Università di Pisa, as part of the courses in Storia del Teatro e dello spettacolo and Storia del cinema italiano. The focus of the meeting was the film Duse – The Greatest, directed by Bergamasco in 2024, one hundred years after the death of the diva, included in the programme of the Arsenale film club.

 

Il 2 aprile 2025 Sonia Bergamasco ha tenuto una masterclass per il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, nell’ambito dei corsi di Storia del teatro e dello spettacolo e di Storia del cinema italiano. Al centro dell’incontro il film Duse – The Greatest, diretto da Bergamasco nel 2024, a cento anni dalla scomparsa della diva, inserito nel cartellone del cineclub Arsenale.

Sonia Bergamasco, attrice e regista, ha una formazione artistica poliedrica: diplomata in pianoforte al Conservatorio di Milano e in recitazione alla Scuola del Piccolo Teatro, ha esordito in Arlecchino servitore di due padroni diretto da Giorgio Strehler nel 1990, per poi collaborare con Carmelo Bene, Theodoros Terzopoulos, Massimo Castri, Antonio Latella, Thomas Ostermeier e Jan Fabre. Ha diretto spettacoli in cui musica e recitazione si fondono, tra i quali Il Ballo (dal romanzo breve di Irène Némirovsky) e L’uomo seme (riscrittura da Violette Ailhaud), realizzati in collaborazione con il Teatro Franco Parenti. Nel 2017, al Piccolo di Milano, ha diretto Louise e Renée, ispirato a Balzac e con drammaturgia di Stefano Massini. Nel 2022 ha interpretato Martha in Chi ha paura di Virginia Woolf? di Antonio Latella, ruolo che le è valso numerosi premi (Ubu, Le Maschere del Teatro Italiano e Hystrio).

Sul grande schermo ha esordito nel 1994 con il cortometraggio Miracoli di Mario Martone. Alcuni dei film che hanno reso nota l’interprete al pubblico sono L’amore probabilmente (2001) e La meglio gioventù (2003), che le è valso il Nastro d’Argento come Miglior Attrice. Ha lavorato poi con Liliana Cavani, Gennaro Nunziante, Marco Tullio Giordana, Bernardo Bertolucci, Roberta Torre, Riccardo Milani, solo per citare alcuni dei registi e delle registe più frequentate.

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Presentazione dello speciale dedicato al centenario della scomparsa di Eleonora Duse esito della Giornata di studi DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (a cura di Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) svoltasi il 4 dicembre 2024 all’Università di Pisa. Entrambi gli studi, qui proposti, presentano un’indagine su aspetti meno indagati dalla critica in merito al gesto recitativo di Duse o al gesto ‘immaginato’ per Duse. Sempre nel contesto di tali celebrazioni quale occasione di approfondimento e ripensamento del magistero dusiano, il 2 aprile 2025, all’Università di Pisa, le docenti Chiara Tognolotti ed Eva Marinai hanno incontrato l’attrice e regista Sonia Bergamasco alla presenza delle/gli studenti triennali e magistrali dei corsi di storia del cinema e storia del teatro per parlare del film Duse The Greatest.

Presentation of the special issue dedicated to the centenary of Eleonora Duse's death, the result of the study day DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (curated by Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) held on 4 December 2024 at the University of Pisa. Both studies presented here investigate aspects of Duse's acting style or the 'imagined' style attributed to her that have been less explored by critics. Again in the context of these celebrations as an opportunity to explore and rethink Duse's heritage, on 2 April 2025, at the University of Pisa, Chiara Tognolotti and Eva Marinai met with actress and director Sonia Bergamasco in the presence of undergraduate and postgraduate students of film history and theatre history to discuss the film Duse The Greatest.

I contributi che qui presentiamo rientrano nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della scomparsa di Eleonora Duse. Numerosi sono stati gli eventi nazionali e internazionali dedicati alla grande attrice nell’anno appena trascorso. Tra questi anche la Giornata di studi DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (a cura di Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) svoltasi il 4 dicembre 2024 all’Università di Pisa, cui hanno partecipato docenti, ricercatrici e studiose impegnate nelle attività didattiche del Dottorato di Ricerca interuniversitario Pegaso in Storia delle Arti e dello Spettacolo delle Università di Firenze-Pisa-Siena.1

I saggi di Eva Marinai (La danza mancata di Eros e Thanatos. Hofmannsthal, Duse e Craig per Elektra) e Aline Nari (Corporeità danzanti e coreografie d’attrice: Eleonora Duse e la danza) rielaborano, ampliandole, le comunicazioni presentate nella Giornata di studi suddetta. Aline Nari, in particolare, sta per pubblicare un saggio dal titolo Un “cantone” tutto per sé: libri e femminismo spirituale di Eleonora Duse, che riflette in modo più approfondito sulla partecipazione della divina al fermento della danza di inizio Novecento e alle istanze emancipazioniste che esso traduce, già argomento dell’articolo di cui sopra. Entrambi gli studi, qui proposti, presentano un’indagine su aspetti meno indagati dalla critica in merito al gesto recitativo di Duse o al gesto ‘immaginato’ per Duse (in riferimento alla mancata realizzazione dell’Elektra pensata per lei).

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Eleonora Duse acquista i diritti per l’allestimento di Elektra di Hugo von Hofmannsthal nel novembre del 1904, ma lo spettacolo non si realizzerà mai. Il ritrovamento della prosa francese dell’Elektra, che Hofmannsthal ha scritto appositamente per l’attrice (a partire dalla prima versione in tedesco messa in scena da Reinhardt nel 1903), è opera di Taglioni nel 1977. Del fallimento di questa produzione, imputabile alla difficoltosa collaborazione tra Craig e la divina, si sono già occupati Cotticelli, Caretti, Mango, Simoncini. Non interessa perciò qui ricostruire «la cronaca di una morte annunciata», bensì capire quali informazioni sulle potenzialità attoriche di Duse possiamo ricavare da questa riscrittura, individuandone le varianti dal testo originario. L’autore tedesco aveva previsto alcune norme sceniche (Szenische Vorschriften), che sono state pubblicate per la prima volta nel 1903 dalla rivista «Das Theater». Vi sono poi le immagini di Craig per l’allestimento, compresi due bozzetti sui costumi e sulla danza finale, snodo chiave dell’intera opera. Facendo dialogare queste fonti con la corrispondenza tra il regista/scenografo e il conte Kessler, direttore dell’intero progetto, pare di poter intuire quale partitura mimico-gestuale, coreografica, luministica fosse stata pensata per Duse, la quale avrebbe dovuto, interpretando questa Elektra amletica e bacchica, compiere il primo passo di quel rinnovamento teatrale tanto auspicato da Kessler quando decise di mettere insieme i tre grandi artisti.  

Eleonora Duse bought the rights for a production of Elektra by Hugo von Hofmannsthal in November 1904, but the play never came to fruition. The rediscovery of the French prose of Elektra, which Hofmannsthal wrote especially for the actress (from the first German version staged by Reinhardt in 1903), was the work of Taglioni in 1977. Cotticelli, Caretti, Mango and Simoncini have already dealt with the failure of this production, attributable to the difficult collaboration between Craig and the divine. It is therefore of no interest here to reconstruct ‘the chronicle of a death foretold’, but rather to understand what information on Duse's acting potential we can derive from this rewriting, identifying the variants from the original text. The German author had provided some stage rules (Szenische Vorschriften), which were first published in 1903 by the magazine ‘Das Theater’. Then there are Craig's pictures for the staging, including two sketches of the costumes and the final dance, a key junction of the entire work. If we compare these sources with the correspondence between the director/scenographer and Count Kessler, director of the entire project, we can guess what mimic-gestural, choreographic and luministic score was intended for Duse, who, by interpreting this Hamletic and Bacchic Elektra, was to take the first step in the theatrical renewal so much desired by Kessler when he decided to bring the three great artists together.  

Eleonora Duse ottiene i diritti per la messinscena di Elektra di Hugo von Hofmannsthal nel novembre del 1904, a seguito del ritiro di Mario Fumagalli, capocomico dell’omonima compagnia. Il ritrovamento della prosa francese di Elektra, che Hofmannsthal ha realizzato appositamente per l’attrice (a partire dalla prima versione in tedesco messa in scena da Max Reinhardt nel 1903)[1], è opera dello studioso e regista Antonio Taglioni, il quale scopre il testo nel 1977 tra le carte dell’Archivio Biblioteca Burcardo di Roma.

L’autografo recita così:

Finalmente Taglioni, settant’anni dopo, porterà a compimento il lavoro che spettava a Giovanni Pozza, critico del «Corriere della Sera», il quale, su consiglio di Marco Praga, avrebbe dovuto tradurre l’opera per la Divina.

Nel 1905 la traduzione di Pozza non è ancora pronta. Il termine massimo che Eleonora Duse aveva concordato con il critico è il maggio del 1906 e sussistono dubbi sulla quantità di tempo concessa per una traduzione che poteva essere consegnata più velocemente. Altrettanto incomprensibile è la questione che impedisce a Hofmannsthal di comunicare direttamente con Pozza senza ricorrere a intermediari, come invece avvenne.

Non occorre soffermarsi troppo sulla «storia di [questo] fallimento, tra il 1904 e il 1905»,[3] imputabile alla difficoltosa collaborazione tra Edward Gordon Craig e l’attrice, che è già stata oggetto di studio, con declinazioni diverse, per Francesco Cotticelli, Laura Caretti, Lorenzo Mango, Francesca Simoncini. Mango, nel capitolo dedicato a Elektra nel volume L’officina teorica di Edward Gordon Craig (2015)[4], spiega diffusamente il progetto di rinnovamento del teatro tedesco voluto dal conte Harry Kessler, che sta alla base di tutta questa vicenda, illustrando grazie ad un’attenta lettura della corrispondenza tra Craig e Kessler[5] come tutta la trattativa fosse nelle mani del conte («sotto la mia personale responsabilità», scrive il conte[6]), intenzionato a dar vita a un esperimento «modernista e simbolico»[7].

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Oggetto di ammirazione da parte degli spettatori coevi, obiettivo di studio e imitazione per le giovani attrici del suo tempo, tensione inesausta per i fotografi che hanno cercato di immortalare, il gesto della Duse, al pari della sua voce, ha certamente attirato l’attenzione della critica che a questo riguardo ha sottolineato la consapevolezza dell’attrice riguardo all’aspetto comunicativo della postura e dell’azione corporea.  Per quanto riguarda i rapporti tra Duse e la nuova danza, che si afferma in Europa tra XIX e XX secolo, essi sono rintracciabili nei personaggi che d’Annunzio immagina per lei, nell’amicizia con Isadora Duncan, ma anche in occasioni mancate che riguardano il suo lavoro di attrice: il ballo di Nora in Casa di bambola o la danza immaginata per lei da Hofmannsthal nell’Elektra.  Oltre a questi aspetti, l’analisi di alcune sequenze del film Cenere, suggerisce l’ipotesi di poter valutare quale influenza abbia avuto la nuova danza nella capacità di Duse di affidare al corpo la propria grafia emotiva. Dovendo consegnare la propria arte a una pellicola priva di sonoro, Duse affronterà infatti una preparazione fisica inedita il cui risultato è non solo straordinariamente espressivo dal punto di vista attoriale, ma in alcune sequenze il controllo della dinamica, la cura della postura e dell’intensità dell’azione ci inducono a leggere il suo movimento come danza, una danza presaga che contiene le anticipazioni del futuro.

Object of admiration for contemporary spectators, target of study and imitation for younger actresses of her time, inexhaustible tension for photographers who tried to immortalize it, Duse's gesture has certainly attracted the attention of critics who have underlined the actress's awareness of the communicative aspect of posture and bodily action. As regards the relationship between Duse and the new dance, which was established in Europe between the 19th and 20th centuries, they can be traced inside d'Annunzio’s dramaturgy, in her friendship with Isadora Duncan, but also in missed opportunities regarding her work as an actress: Nora's dance in Doll's House or the dance imagined for her by Hofmannsthal in Elektra. In addition to these aspects, the analysis of some sequences of the film Cenere (Ashes), suggests the hypothesis of evaluating the influence of new dance on Duse's physical writing. In delivering her art to a silent film, Duse will in fact face an unprecedented physical preparation whose result is not only extraordinarily expressive from the acting point of view, but in some sequences the control of dynamics, the care of posture and the intensity of the action lead us to read that movement as a dance, a presaging dance that contains the anticipations of the future.

I testimoni e la letteratura critica hanno provato a indagare il mistero della seduzione che Eleonora Duse esercitava sul pubblico anche grazie al movimento espressivo di tutta la sua persona: un movimento che, come quello di una danzatrice, irradiava da un centro – coincidente con il motore psichico del personaggio – per propagarsi con intensità fino alla periferia delle mani, coinvolgendo la perdita di equilibrio, l’inciampo, il cambiamento repentino di direzione.[1] Nelle varie fasi della propria evoluzione artistica, Duse esprime sulla scena un movimento corporeo molto diversificato, in cui la sensualità del felino si alternava all’agitazione nervile dell’isterica, il gesto automatico si declinava nella posa ieratica della vestale. La consapevolezza di Duse riguardo il linguaggio corporeo ci suggerisce quindi di riconoscere come danza alcuni suoi ‘stati’ di presenza o sequenze gestuali e di immaginarla danzare quando i personaggi interpretati lo richiedevano. Tuttavia, sebbene l’integrazione tra materiali fotografici, recensioni e testimonianze, riveli come il corpo scenico di Duse sia attraversato dai fermenti della danza del suo tempo,[2] le danze di Eleonora Duse sono danze mancanti, mancate o addirittura presunte e presaghe, sottotraccia al lavoro d’attrice e anticipazioni del futuro, come avrò modo di chiarire. Dunque, per quanto indiziario, il discorso su Eleonora Duse e la danza ci sembra contribuire da un lato alla trasversalità degli studi che la riguardano, dall’altro sottolineare l’attualità del suo ruolo di intellettuale, attenta anche all’evoluzione delle corporeità danzanti del suo tempo.

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La messinscena dell’Edipo a Colono diretta da Robert Carsen per il Teatro Greco di Siracusa, rappresentata dal 10 maggio al 28 giugno 2025, propone una riflessione intensa e visivamente potente sulla finitudine e fallibilità dell’essere umano. Attraverso una regia sobria e simbolica, Carsen mette in scena un Edipo segnato dalla cecità fisica ma capace di una nuova forma di conoscenza interiore, in un paesaggio rituale sospeso tra natura, morte e rinascita. Il presente contributo analizza la costruzione visuale dello spettacolo, con particolare attenzione al rapporto tra luce e ombra, visibile e invisibile, sguardo e sapere, restituendo il valore politico, poetico e antropologico della tragedia sofoclea nella sua rimediazione contemporanea.

The staging of Oedipus at Colonus directed by Robert Carsen for the Teatro Greco in Syracuse, performed from May 10 to June 28, 2025, offers a profound and visually compelling reflection on the finitude and fallibility of the human condition. Through a restrained and symbolic direction, Carsen presents an Oedipus marked by physical blindness yet endowed with a new form of inner knowledge, set within a ritual landscape suspended between nature, death, and rebirth. This contribution analyzes the visual construction of the production, with particular emphasis on the relationship between light and shadow, the visible and the invisible, gaze and knowledge, thereby highlighting the political, poetic, and anthropological significance of Sophocles’ tragedy in its contemporary remediation.

 

Ζεῦ πάτερ á¼€λλá½° σὺ ῥῦσαι ὑπá¾½ ἠέρος υá¼·ας Ἀχαιá¿¶ν,

ποίησον δá¾½ αá¼´θρην, δὸς δá¾½ á½€φθαλμοá¿–σιν á¼°δέσθαι:

ἐν δá½² φάει καá½¶ ὄλεσσον, ἐπεί νύ τοι εá½”αδεν οὕτως.

Zeus padre libera tu dalla nebbia i figli degli Achei;

fai il sereno, permetti agli occhi di vedere:

portaci pure la morte, ma alla luce, se è la tua volontà

Omero, Iliade, libro XVII, vv. 645-647


 

Nel canto XVII dell’Iliade, la battaglia infuria attorno al corpo di Patroclo, caduto per mano di Ettore. Gli Achei, privati del loro eroe e incalzati dalla ferocia dello scontro, combattono per impedire lo scempio, mentre i Troiani premono con violenza crescente. È in questo contesto che Aiace, di fronte alla caligine divina scesa sul campo – una nebbia fitta, inviata da Zeus stesso per confondere i combattenti – rivolge la sua preghiera al dio.

Aiace non invoca la salvezza, ma la luce: chiede a Zeus non di risparmiare la vita agli Achei, ma di disperdere la nebbia, di restituire la chiarezza del cielo, la visibilità del campo, l’accesso allo sguardo. In questo passaggio potentemente simbolico dell’Iliade, l’eroe esprime un principio fondamentale dell’immaginario antico: combattere al buio è disonorevole, morire nella luce è invece accettabile, persino desiderabile.

La supplica di Aiace, nella sua apparente semplicità, racchiude una potente metafora della visione, fulcro della cultura greca arcaica e classica. La luce non è qui solo condizione materiale della visione, ma valore etico: è ciò che consente all’azione di essere visibile, conoscibile, giudicabile. In altre parole, è la luce a garantire la narrabilità dell’evento umano, a renderlo parte della memoria collettiva. Il buio, al contrario, è il luogo del disordine, dell’ignoto, dell’informe. Morire nella luce è ancora morire da eroe; perire nell’oscurità significa invece essere esclusi dallo sguardo e dunque dalla narrazione.

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Il Prometeo incatenato di Eschilo è una delle tragedie più amate e indagate della tradizione ma è anche, dal punto di vista strettamente teatrale, una sfida di notevole difficoltà. Il protagonista, incatenato a una montagna, resta infatti immobile per tutta la durata della rappresentazione. Il contributo indaga alcune soluzioni adottate (tra il 1954 e il 2023) nell’ambito delle rappresentazioni classiche al Teatro Greco di Siracusa, con una particolare attenzione al Prometeo di Luca Ronconi (2002) e di Claudio Longhi (2012). Lo studio e l’indagine delle due rappresentazioni citate permette di illuminare le dinamiche legate allo spazio presenti nell’opera, e la forte interrelazione tra l’architettura di scena e l’esposizione del corpo del protagonista.

One of the most loved and most researched tragedies Aeschylus’ Prometheus Unbound, from a strictly theatrical point of view, is also a very challenging play. Its protagonist, chained to a mountain, remains motionless for the entire duration of the play. This article investigates some of the solutions adopted (between 1954 and 2023) in the context of classical performances at the Greek Theatre in Syracuse, with particular attention to Luca Ronconi’s Prometheus (2002) and Claudio Longhi’s Prometheus (2012). The study and investigation of the two above-mentioned performances allows us to illuminate the space-related dynamics present in the work, and the strong interrelationship between the stage architecture and the display of the protagonist’s body.

«Spesso mi succede di mettere in scena cose che non conosco con il solo scopo di conoscerle»[1], appunta Luca Ronconi a proposito della sua pluriennale esperienza nel dirigere opere di teatro antico. L’affermazione può essere interpretata in un duplice senso: da un lato il regista denuncia l’impossibilità di comprendere fino in fondo le istanze di un testo così lontano nel tempo e nello spazio; dall’altro mette in luce come la regia sia di per sé uno strumento conoscitivo, che costringe chi la pratica a confrontarsi con i nodi e le questioni irrisolte della drammaturgia originaria. Tanto più l’accesso all’opera risulta impervio, dunque, quanto più il regista è chiamato a prendere importanti decisioni interpretative.

Il Prometeo Incatenato pone al lettore problemi ermeneutici di differente natura, alcuni dei quali sono menzionati o affrontati nelle pagine di questo numero. Ma se si legge la tragedia in una prospettiva squisitamente teatrale, appare chiaro che il testo costituisce una sfida non trascurabile anche per la regia: l’ingresso del protagonista, l’atto di forza con cui viene legato a una roccia, la sua conseguente immobilità sono solo alcune delle concrete difficoltà poste dalla drammaturgia.

Gli studi sulla rappresentazione antica hanno avanzato, in mancanza di dati certi, diverse ipotesi sulla realizzazione e la natura della rupe in scena (forse un pannello ligneo dipinto; forse l’utilizzo di un declivio naturale; forse la piattaforma innalzata del theologeion)[2]; «tutto può essere, o quasi tutto», chiosa con ironia Federico Condello, «e il dibattito minaccia di non cessare mai».[3]

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Una scultura monumentale, quasi totemica, composta da cavi elettrici e fili di rame che, intrecciati come fasci muscolari protesi verso l’alto, terminano in un’enigmatica protome animale. L’autore dell’installazione, l’artista praghese Krištof Kintera, utilizza scarti di produzione industriale per costruire organismi sintetici in cui ogni tipo di materiale, rizomaticamente, diventa elemento ri-plasmabile in funzione di una nuova creazione.

È questa la copertina del libro CHANGES. Riscritture, sconfinamenti, talenti plurimi, che Angela Albanese ha recentemente curato per i tipi di Mimesis.[1] Il carattere evocativo dell’immagine scelta, che rinvia alla mutazione, alla riconfigurazione e all’interpretazione in atto, ben introduce alla lettura di uno studio prismatico, in cui si moltiplicano gli sguardi analitici su un fenomeno cruciale della cultura contemporanea: le dinamiche di ibridazione e intreccio tra linguaggi eterogenei – visivo, verbale, musicale – che si attivano negli autori dal talento plurimo.

Ponendosi all’interno di un dibattito vasto e composito, che supera i confini disciplinari e che evidenzia la necessità di un approccio comparatistico, il volume curato da Albanese ha senz’altro il merito di porre l’accento su alcuni specimina esemplari relativi alla categoria ermeneutica del Doppelbegabung (letteralmente ‘doppio talento’), tutti sostanziati dall’idea-chiave di sconfinamento tra codici diversi da parte di un medesimo artista.

Per orientare i lettori nel canone di exempla presi in esame, l’introduzione redatta dalla curatrice riassume in modo puntuale gli ultimi approdi teorico-critici intorno al tema del polimorfismo autoriale, a partire dalla basilare distinzione introdotta da Michele Cometa tra doppio talento inteso in senso stretto (quando l’autore fa esperienza di due media considerandoli però come sfere di azione distinte), concrescenza genetica (quando i due media concorrono entrambi alla genesi dell’opera) e intreccio dialogico (quando uno dei due linguaggi integra, amplifica, interpreta e completa l’altro).[2]

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Il contributo ha come oggetto di indagine il FIC Festival (Focolaio di Infezione creativa) realizzato sotto la direzione artistica di Scenario Pubblico Compagnia Zappalà Danza, centro di rilevante interesse nazionale dal 2022. L’evento preso in esame – giunto alla sua V edizione – ha visto il susseguirsi di dieci giornate di spettacoli (dal 3 al 12 maggio 2024), incentrate sul repertorio di danza contemporanea. Dopo una breve panoramica sulla storia della danza, delle svariate forme e significati che ha assunto nel corso del tempo e, in secondo luogo, del linguaggio MoDem, fondato dal danzatore e coreografo Roberto Zappalà, si è scelto di focalizzare l’attenzione su cinque delle proposte artistiche in programma: La Nona (dal caos, il corpo); Gisellə(studio),  rispettivamente in formula workshop e prova aperta, Until the Lions; Variazioni Golberg; Bastard Sunday, dei coreografi Akhram Khan, Virgilio Sieni e Enzo Cosimi.  Il fulcro del lavoro è l’analisi dei diversi linguaggi adottati in queste opere allo scopo di comprendere la genesi del pensiero artistico e le relazioni che si innescano tra performance, pubblico e territorio. 

The object of the article is the FIC Festival (Creative Infection Outbreak), created under the artistic direction of Scenario Pubblico Compagnia Zappalà Danza, a center of significant national interest since 2022. The event examined – at its fifth edition – has given the succession of ten days of shows (from 3 to 12 May 2024), focused on the contemporary dance repertoire. After a brief overview of the history of dance, of the various forms and meanings that it has assumed over time and, secondly, of the MoDem language, founded by the dancer and choreographer Roberto Zappalà, we have chosen to focus attention on five of the scheduled artistic proposals: La Nona (dal caos, il corpo); Gisellə(studio), respectively in workshop and open test format, Until the Lions; Golberg Variations; Bastard Sunday, by the choreographers Akhram Khan, Virgilio Sieni and Enzo Cosimi. The spotlight is on the analysis of the languages ​​adopted in those works aiming to understand the genesis of artistic thought and the relation within performance, audience and territory. 

1. Catania contemporanea tra canone e innovazione

Holding back the years è il tema attorno a cui ruota la V edizione del FIC Festival sotto la direzione artistica di Scenario Pubblico Compagnia Zappalà Danza, centro di rilevante interesse nazionale dal 2022. Lo scopo è quello di divulgare tra la cittadinanza alcuni dei principali pilastri del repertorio coreografico contemporaneo, trasmettendo il valore della conoscenza del passato in un’ottica di valorizzazione del presente.

La spilla da balia scelta come immagine del concept grafico è il segno dell’unione tra il vecchio e il nuovo e del dialogo tra canoni e sperimentazione. Nei centri culturali catanesi coinvolti da Scenario Pubblico nella realizzazione del Festival (Teatro Massimo Bellini, Isola Cultural Hub, Associazione musicale etnea, Fondazione Brodbeck, Palazzo Biscari, Associazione Città Teatro, Fondazione Oelle e Cinema King) ‘esplode’ un focolaio artistico che contamina la danza con musica, teatro, cinema e arti visive.

Ad aprire il Festival è una parata danzante per le strade del centro storico della città ispirata al pezzo di repertorio classico La morte del cigno,[1] nella versione di Anna Pavlova[2] del 1907. L’iniziativa, condotta dal Collettivo SicilyMade (composto da Simona Miraglia, Marta Greco, Amalia Francesca Borsellino e Silvia Oteri) invita artisti e pubblico a guardare al celebre assolo come a un campo di esplorazione di stili.

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Gira, il mondo gira

nello spazio senza fine

con gli amori appena nati

con gli amori già finiti

con la gioia e col dolore

della gente come me.

J. Fontana

 

In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino, l’attore, regista e drammaturgo leccese Mario Perrotta ha portato in scena il frutto di un allucinato itinerarium mentis intitolato Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà. Presentato in prima nazionale a marzo 2023 al Teatro Carcano di Milano, lo spettacolo presentava inizialmente il titolo s/Calvino – o della libertà; è stato poi l’autore a volerlo cambiare, dopo le prime repliche, per fugare ogni aspettativa di spettacolo-omaggio allo scrittore sanremese. L’intento di Perrotta, infatti, è piuttosto quello di ragionare in libertà di libertà e per farlo pensa bene di affondare le mani negli scritti di Calvino «scalvinandoli, scompigliandoli e ricomponendoli»; esigenza già emersa con lo spettacolo del 2022 Libertà rampanti, un dialogo a tre voci con Sara Chiappori e Vito Mancuso, in cui Perrotta ragionava di libertà attraversando vari autori come Sofocle, Sant’Agostino, Shakespeare, Dostoevskij, Morante per approdare, infine, all’immancabile Calvino.

Come una specie di vertigine. Il Nano, Calvino, la libertà – scritto, diretto e interpretato interamente ed esclusivamente da Perrotta si apre sulle note del Mondo (1965) di Jimmy Fontana, che scandiscono, per quattro volte di seguito, il ritmo di accensione e spegnimento dei quattro fari presenti sul palco e puntati sul pubblico. Questi reiterati, iniziali abbagli costringono lo spettatore ad aggiustare rapidamente lo sguardo per dare il benvenuto al protagonista della pièce: Perrotta, emerso dal buio lentamente e progressivamente, appare seduto su una sedia girevole di metallo che sovrasta un’intelaiatura di ferro fissa al pavimento con un microfono ad asta montato su di essa.

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