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Prima della serie ‘le città e gli occhi’, Valdrada tematizza uno degli aspetti più pervasivi dell’opera di Calvino, il procedere per binarismi oppositivi per meglio riflettere sulle modalità e sulla fallacia delle nostre percezioni del reale. È solo una delle molte città speculari presenti nelle pagine delle Città invisibili (e i lavori successivi: basti pensare alla Foresta Radice-Labirinto, elaborata cinque anni più tardi, che evoca al contempo l’incatturabile Bauci e Sofronia, smontabile per metà). Ma se Eusapia è strutturata in forma apertamente binaria – con la necropoli che fa da ideale contraltare alla città dei vivi –, l’architettura e l’ethos di Valdrada non rispondono ai principi della simmetria, piuttosto a quelli della specularità: in questo più simile a Betsabea, città al contempo angelica e fecale. Come nei riflessi speculari delle stampe di Escher, tra le principali fonti visive dello scrittore, Valdrada è costituita dalla somma tra la città sopra il lago e quella «sulle rive d’un lago con case tutte verande una sopra all’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra» (CI, p. 399).

In molti, oltre a tentare di identificare i riferimenti teorici che hanno orientato l’immaginario di questa città doppia, si sono chiesti a quale specifica città Calvino si fosse ispirato, senza però ottenere risposte pienamente soddisfacenti. Certo è che, come per molti aspetti della sua opera, anche le scelte onomastiche sono state accuratamente vagliate tra una serie di alternative presenti negli abbozzi preparatori (Terrusi 2012). In questo caso il nome richiama una delle tante località di villeggiatura dei laghi lombardi (Valdrada è, inoltre, una principessa longobarda citata da Paolo Diacono), ma la duplicità stessa dell’architettura strizza l’occhio a Venezia – evocata a più riprese da Marco Polo – e alla natura della città più amata da Calvino, New York, continuamente riflessa nelle superfici specchianti dei grattacieli. Per paradosso, pur appartenendo alla serie più apertamente legata alla visualità, Valdrada appare tra le città meno chiaramente rappresentate all’interno di questo «inimitabile libro di figure senza illustrazioni» (Ravazzoli 1991, p. 147). Del resto, la struttura stessa dell’evocazione pare essere basata sul dispositivo retorico della correctio: se all’inizio viene accentuata l’idea della ripetizione dei gesti riflessi, la seconda buona metà dello scritto tende a sottolineare la radicale differenza che separa in modo irrimediabile le due metà, che pur «vivendo l’una per l’altra non si amano» (CI, p. 400).

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Nel suo «poema d’amore per le città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città» (Calvino 1993, p. IX), Italo Calvino guarda agli spazi urbani nei loro elementi fondanti, che scorpora e isola dal tutto facendone – volta per volta – delle metonimie per riflettere sulla vita sociale di uomini e donne. In questo contesto, la categoria della ‘città e gli scambi’ si pone come una considerazione ‘discontinua’ (sulla discontinuità come caratteristica principale dell’opera cfr. Belpoliti 2005, pp. 57-58) sull’interazione umana nelle e con le città, un elemento che evidentemente – secondo Calvino – veniva progressivamente a mancare negli spazi sempre più invivibili dei tardi anni Sessanta. È lo stesso autore a dichiarare che «le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi» (CI, p. 1362). In questa sezione, dunque, si esplicita una declinazione particolare della natura politica delle Città invisibili: la rivendicazione di una dimensione sociale che non può essere solo economica, ma che deve avere al suo centro l’elemento umano e – se si può dire così – sentimentale.

Nelle ‘città e gli scambi’, allora, Calvino rimette al centro le parole grazie alle storie che si raccontano a Eufemia, il desiderio erotico e la «vibrazione lussuriosa» (CI, p. 398) che serpeggia tra gli abitanti di Cloe, la volontà di trasformazione delle dinamiche umane dell’eternamente mutevole Eutropia, i legami incorporati dai fili a Ersilia, le vite clandestine che si nascondono nelle vie secondarie di Smeraldina. Non si può non ricordare, a questo proposito, che, tra gli «usi politici giusti» della letteratura, Calvino aveva inserito l’«imporre modelli di linguaggio, di visione, d’immaginazione, di lavoro mentale necessari a ogni progetto d’azione politica» (si tratta del testo di una conferenza tenuta in un’università americana, poi raccolto in Una pietra sopra: Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Calvino 1995, pp. 351-360): le ‘città e gli scambi’ sono proposte politiche su come immaginare varie dimensioni della socialità.

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Più espressamente che per altre Città invisibili, a Ottavia, la «città-ragnatela», Marco Polo premette la condizione del patto di fiducia, una netta sospensione dell’incredulità: «se volete credermi, bene» (CI, p. 421). Calvino la colloca tra Lalage ed Ersilia: da una parte, la città sognata dal Kan a cui la luna ha concesso il privilegio di «crescere in leggerezza» (ivi, p. 420); dall’altra, la città in cui gli abitanti tessono «ragnatele di rapporti intricati» (ivi, p. 422) con fili tesi tra gli spigoli delle case. Appesa nel baratro tra due montagne scoscese, la città sottile Ottavia è sospesa sul vuoto, a centinaia e centinaia di metri d’altezza, «legata alle due creste con funi e catene e passerelle» (ivi, p. 421). Il fondo s’intravvede appena, spiraglio lontano tra le nuvole. Gli abitanti camminano con cautela tra trasparenze, traversine di legno e maglie di canapa, incessantemente consapevoli del burrone sottostante.

Il piano su cui si forma il tessuto urbano di un insediamento è sempre il livello del passaggio: da lì, elevandosi in verticale, si forma la città. A Ottavia, lo sviluppo è antitetico, e il nucleo abitativo è appeso sotto:


 

È il luogo della sospensione, della fragilità, della relazione fra il tutto, e soprattutto della precarietà esplicita: «sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge» (ibidem).

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A differenza di altre città invisibili più impalpabili o rarefatte, Zenobia è facilmente immaginabile. Seconda delle cinque città sottili, è descritta innanzitutto per le sue caratteristiche strutturali:

Chi legge, si figura subito alti pali a sorreggere casette, l’intrico dei terrazzini a diverse altezze che si mescolano a scale e belvederi, meccanismi di argani e pulegge. Non si sa perché Zenobia sia stata costruita così, ma sicuramente le palafitte, all’apparenza fragili e inutili su terra, proteggono da predatori e inondazioni. Riflettendo sull’origine della città, Calvino nomina i due centri nevralgici di questo luogo: la memoria e il desiderio:

Se nella città di Isidora «i desideri sono già ricordi», qui avviene forse l’opposto: è il ricordo a lasciar spazio al desiderio. Sebbene Zenobia non sia inserita fra Le città e la memoria e né Le città e il desiderio, in lei la relazione tra memoria e desiderio è così potente da creare una felicità non esibita:

E così fanno le trasposizioni visive di questa città, combinando, in modi diversi, elementi di uno stesso modello: altissimi pali, case di bambù, ballatoi, balconi, scale a pioli, marciapiedi pensili, tettoie a cono, girandole, serbatoi d’acqua, carrucole, gru.

La maggior parte di queste raffigurazioni privilegia l’idea delle palafitte: l’architetta e illustratrice peruviana Karina Puente, che dal 2015 ha intrapreso il progetto [In]visible cities, lo fa in maniera piuttosto geometrica e regolare, con pali equidistanti, la scelta di una pulita tricromia (nero, bianco e ocra) e una simmetria del caos tipicamente calviniana [fig. 1].

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La città gomitolo

 

Per una città che inaugura la sezione dedicata ai ‘segni’, e in cui le parole stanno al posto di immagini che stanno a loro volta al posto di qualcos’altro, si potrebbe cominciare a partire da una visual representation realizzata da una delle più importanti information designer contemporanee prima ancora di diventarlo. L’interpretazione visiva di Federica Fragapane [fig. 1] non si avvale, come accade nelle data visualizations per le quali è poi diventata un punto di riferimento mondiale, di alcun sistema infografico. Tamara è un globo composto da numerosi nastri che recano iscritti gli oggetti e i messaggi ad essi sottesi in mostra sulle insegne o per le strade della città. La forma sferica della matassa rimanda immediatamente a un senso di interezza, di unità: la città è un organismo pulsante, dotato di una propria estensione (prima e dopo la città di Tamara c’è il vuoto: mentre ci si avvicina «l’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre [che] sono soltanto ciò che sono»; quando ci si allontana «fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte», CI, p. 367), e dunque apparentato all’idea di microcosmo, di pianeta a sé stante.

Eppure, al lettore e alla lettrice – e probabilmente anche all’artista – non può non sopraggiungere alla memoria il ricordo proprio del gomitolo che apre, attraverso una citazione gaddiana, la lezione calviniana dedicata alla Molteplicità. Il «mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo» (Calvino 1995, p. 717), atto a dar conto dell’inestricabile complessità del reale, è un’immagine che non saremmo immediatamente propense ad associare allo stile di Italo Calvino, celebrato per la sua lingua acuta, tagliente e precisa, che del nitore, lessicale e sintattico, ha fatto la propria cifra (Belpoliti 2006). Ma forse, come lo stesso scrittore ci dimostra, lo «gnommero» altro non è che l’altro volto della precisione classificatoria, con cui partecipa di quella tensione, irriducibile e irrinunciabile, a rappresentare la realtà come un «“sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato» (Calvino 1995, p. 717). D’altronde, è lo stesso Calvino in un’altra delle Lezioni americane, quella dedicata alla Esattezza (ivi, pp. 677-696), a lasciarci intuire che tra le due forme del «cristallo» (immagine di regolarità delle strutture interne) e della «fiamma» (immagine di regolarità delle strutture esterne) ci possano essere più tangenze di quelle che si possano inizialmente intuire. Dunque, non ci stupisce che la precisione della lingua calviniana, così come la propensione analitica della visual representation, possano abbracciare anche il caos apparente del labirinto dei segni.

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Quarta tra ‘le città e il desiderio’, Fedora non è che una «metropoli di pietra grigia» con al centro un palazzo di metallo (CI, p. 382): nessun altro dettaglio viene offerto direttamente, al Kan e al lettore, nel racconto di Polo. Pure, di essa si inferisce un’immagine in controluce, una descrizione in negativo. Il palazzo contiene, infatti, in innumerevoli sfere di vetro, i modelli in miniatura di un’altra Fedora, progettati invano da qualcuno, in ogni epoca, nel tentativo di renderla la città ideale. L’edificio ha così finito per trasformarsi in un museo di possibilità remote della città immaginata; ipotesi cadute, poiché, mentre venivano concepite, «già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro» (ibidem).

Fedora è forse l’esempio più icastico dello sforzo calviniano, affidato in particolare a ‘le città e il desiderio’, di affrancare la scrittura dalle proprie limitate combinatorie, indirizzandola quanto possibile verso «lo spazio di molteplicità dei sogni e dei segni rappresentativi» (Ciccuto 2002, p. 80). Il suo carattere proteiforme, dai contorni malfermi, non si limita a materializzare il desiderio, che pure in questo gruppo – e in specie in Fedora – in sé «è l’illimitato divenire e, in quanto tale, non può essere fissato in una forma» (Zancan 1996, p. 903): paradossalmente informata dalla nostalgia delle sue stesse alternative, la città permette all’autore di suggerire a un tempo l’utilità e la storicità delle utopie. Proprio in questa contraddizione risiede il valore civile, proiettivo, ma allo stesso tempo inevitabilmente velleitario del progetto di ogni Fedora nuova e diversa, dato che «nel momento della sua nascita tale sogno è già superato e può servire alle generazioni future solo come reperto utopico, se non addirittura anti-utopico» (Kuon 2001, p. 32).

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In una intervista del 1984 Italo Calvino, interrogato sulle ragioni del proprio successo, individua due elementi che mi sembrano particolarmente significativi: il fatto che in Francia la sua fortuna «nasce più dai lettori anonimi che dalla critica» (Calvino 1996, p. 237); e l’importanza de Le città invisibili: «Ancora oggi negli Stati Uniti io sono soprattutto l’autore di Invisible Cities, un libro che pare sia molto amato dai poeti, dagli architetti e in genere dai giovani universitari» (ibidem). Calvino inizia a essere tradotto molto presto, sin dagli anni Cinquanta, e la sua diffusione internazionale diventa esponenziale. Il Fondo Calvino Tradotto (cfr. Gambaro 2002), conservato all’Istituto di Cultura Italiano di Parigi, conta circa cinquecento traduzioni e una trentina delle Città invisibili (che a oggi sono tradotte in 43 lingue e pubblicate in 49 paesi; cfr. Palermitano 2020; Baldi e Schwartz 2023). Non a caso, a partire dagli anni Novanta, ha scritto Francesca Serra, proprio questo libro è stato fatto «oggetto di largo consumo aforistico, da formula epigrafica buona per molti usi, talvolta anche troppo facili o impropri; a partire dal grande successo americano che Le città invisibili ebbero quando furono tradotte nel 1974» (Serra 2006, p. 329). Ma non è solamente l’uso ‘verbale’ a caratterizzare la ricezione di questo libro, negli ultimi due decenni, infatti, si sono moltiplicate in particolare le transcodificazioni: semplici lettori o lettrici e artisti di professione si sono cimentati con il tentativo di dare una forma visibile di quanto, per la sua stessa definizione, si sottrae allo sguardo. E non è un caso che proprio le Città si siano prestate a questo tipo di operazione: da tempo, infatti, la critica ne ha sottolineato il carattere ‘aperto’, che richiede a chi legge (incarnato nella figura di Kublai Kan nel testo; cfr. Piazza 2009, p. 181) di confrontarsi con «una matrice aperta di meta-ambientazioni, spazio-temporali, ma soprattutto psicologiche, che il lettore è indotto/sedotto a riempire a seconda del proprio paesaggio interiore, cioè degli stati d’animo, dei vissuti, dei desideri, dei ricordi e delle angosce, dei progetti e dei rimossi che lo abitano» (Lanzetti 2017, p. 16). Sono città-rebus (o città-allegorie) che nascondono una «“figura” da leggere» (Belpoliti 2006; di «allegoria» ha invece parlato Mengaldo 1980, p. 410). Sono testi-città, come ha sottolineato Gianni Canova nella presentazione alla mostra Città In/visibili (Milano, Triennale, 5 novembre 2002 - 9 marzo 2003), che hanno la capacità di creare forme e morfologie, e in questo modo Calvino si è fatto anche «precursore e cartografo delle trasformazioni urbanistiche in atto nella seconda metà del secolo scorso, anticipando con la sua visionarietà alcuni dei tratti peculiari e salienti delle città e delle metropoli contemporanee» (Barenghi, Canova, Falcetto 2002; la fortuna delle Città invisibili nei discorsi di urbanistica e architettura è confermata da un volume dello stesso anno della mostra dedicato proprio a Invisible Cities and the Urban Imagination, curato da Linder 2002).

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«Un’immagine dialettica»: si apre così, nell’evocazione della stillstand benjaminiana, il volume Vedere, Pasolini (Ronzani, 2022) curato da Andrea Cortellessa e Silvia De Laude, trasposizione cartacea del numero 181 di Engramma del maggio 2021. Un volume che si aggiunge al coro dei «fescennini centenari» (p. 13) nel segno della visività o, meglio, della «fulgurazione figurativa»:[1]Vedere, Pasolini, dove Pasolini è oggetto del vedere, un vedere che si fa verbo, critica, ma anche soggetto, colui che vede, che si fa vista, immagine, luce. Una luce che squarcia le tenebre della «nuova preistoria»[2] nel tentativo costante di mostrare la realtà, il «cinema in natura»,[3] le diapositive luminose della vita al di là dell’oscurità del conformismo borghese e neocapitalista. È in questo senso che l’intera opera pasoliniana può essere considerata come un’‘immagine dialettica’, come un «montaggio»[4] continuo di materiali della realtà che si concretizza in ipostasi mobili, in immagini appunto, nelle quali convergono e si riattivano traiettorie culturali vicine e lontane, dal mito alla contemporaneità politica, dalla cultura figurativa seicentesca alla critica letteraria del Novecento. Ed è sempre in questo senso che Vedere, Pasolini può essere interpretato come la fotografia di un soggetto in movimento, come una rappresentazione attiva in cui le direzioni della poiesis pasoliniana convergono da tempi multipli, da prospettive plurime (e talvolta antinomiche), legate dal fil rouge della visività.

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Nelle note raccolte sul foglio di sala lo spettacolo Questo è il tempo in cui attendo la grazia è presentato come una biografia onirica e poetica di Pier Paolo Pasolini attraverso le sue sceneggiature. Progetto originale 2019 del Teatro Comunale Giuseppe Verdi-Pordenone in collaborazione con Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Teatro del Lido di Ostia e Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, il lavoro è stato concepito dal regista teatrale Fabio Condemi insieme all’attore Gabriele Portoghese e a Fabio Cherstich, che ne ha curato la drammaturgia dell’immagine.

In scena troviamo un’unica figura, Portoghese-Pasolini, che si lascia attraversare da un materiale letterario incandescente, portando avanti un’indagine non tanto sul cinema dell’autore quanto sul suo sguardo. Alcuni frammenti tratti dalle sceneggiature di film editi e inediti – quali Edipo Re, Medea, Il fiore delle mille e una notte, La ricotta, Appunti per un film su San Paolo – scandiscono l’intera durata dello spettacolo fino a inabissarsi nel finale. Le parole e i titoli delle sceneggiature, insieme a videoriprese realizzate da Condemi e da Igor Renzetti, scorrono su uno schermo alle spalle dell’interprete, stimolando gli spettatori a sognare in un gioco continuo di sottrazioni e sospensioni rispetto al procedere della ‘narrazione’, un vero e proprio cinema a occhi aperti.

Abbiamo incontrato il regista di Questo è il tempo in cui attendo la grazia – che di recente si è confrontato nuovamente con Pasolini, affrontando questa volta l’opera teatrale Calderón – per porgli alcune domande sul lavoro di costruzione drammaturgica svolto a partire dalle sceneggiature pasoliniane, sul rapporto che in scena si instaura tra la parola, pronunciata da Portoghese, e l’immagine in movimento, proiettata su uno schermo bianco, e infine sulla relazione aperta e molteplice che si può generare tra questi corpi luminosi e i corpi degli spettatori immersi nel buio della sala.

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