Categorie



Questa pagina fa parte di:

 

Disobedience, l’ultimo film di Sebastián Lelio, nelle sale italiane da alcuni giorni, racconta la storia di Ronit, fotografa londinese che vive a New York e torna a Hendon, nel sobborgo della capitale dove è cresciuta, subito dopo la morte del padre, il Rav Krucka, rabbino della comunità ebraica ortodossa che lei ha ormai abbandonato da sei anni. Al suo ritorno Ronit ritrova il cugino Dovid, erede degli insegnamenti del Rav, e scopre che ha sposato Esti, amica d’infanzia con cui lei aveva vissuto una appassionata relazione. I due sono gli unici che, seppur dopo un’iniziale ritrosia, non solo l’accolgono nella loro casa ma mostrano di voler condividere il suo dolore, mentre nel complesso gli abitanti di Hendon la condannano senza appello per avere detto addio alla famiglia, alla casa, alle regole della comunità.

Da molti acclamato come una storia d’amore proibito, Disobedience in realtà mette a fuoco le esistenze di tre persone colte in un momento di grande tensione, nel quale i loro destini tornano a intrecciarsi, a distanza di anni, prima di riavviarsi verso strade divergenti grazie a una ritrovata indipendenza. È insomma un inno alla sofferta e gioiosa facoltà del libero arbitrio, che dei rapporti umani (e di tutte le loro possibili sfumature – amorose, amicali, familiari) è radice ed essenza. Tale radice risulta tanto più indicativa quanto più i rapporti vengono osservati nella loro differenziante particolarità, attraverso l’obiettivo di un regista che ha sempre scelto (almeno fino a questo momento) di puntare lo sguardo sui destini individuali. La nuova ‘donna fantastica’ che Lelio sceglie di raccontare nel suo primo film in lingua inglese è infatti lesbica, ebrea ed esiliata da una comunità ortodossa.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Quando un’opera sembra in anticipo sulla sua epoca, semplicemente la sua epoca è in ritardo su di lei.

J. Cocteau

 

Nell’apparente instabilità epistemologica degli ultimi tre decenni dalla teoria alle ‘teorie del cinema’, la pubblicazione del volume Jean Cocteau. Teorico del cinema da parte della casa editrice Mimesis nel 2018 poteva sembrare solo un’operazione storico-retrospettiva. Il lavoro di Stefania Schibeci, docente di Pittura e Arti del XX, è la prima monografia italiana sul tema dedicata all’artista ma getta le basi per un ponte verso il quadro teorico del secondo Novecento e in parte verso quello contemporaneo.

L’attualità della pubblicazione è legata senz’altro alla scelta della figura di Cocteau: poeta, pittore, drammaturgo, romanziere, disegnatore, pittore, regista, attore, ecc. Una personalità che ha incarnato l’apertura interartistica del secolo scorso e anticipato ‒ come sembra emergere da questo contributo ‒ alcune riflessioni teoriche successive di tipo filosofico, fenomenologico e mediale intorno alle immagini in movimento. Anche se si avverte, forse, la mancanza di alcune connessioni suggerite al lettore proprio da alcuni temi affrontati nel testo. Riprendendo, per esempio, gli elementi centrali della sua teoria sul cinema come veicolo insieme alle altre arti della «poésie» (p. 11), conoscenza del mondo attraverso la soggettività del poeta, e la sua specificità come scrittura per immagini capace di «rendere visibile l’invisibile» (p. 13), sarebbe stato interessante accogliere tra le pur ricche relazioni del testo somiglianze e differenze con le idee di Pasolini da un lato e con la filosofia di Merleau-Ponty dall’altro.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Nel 2003 Agnès Varda riceve l’invito a partecipare alla 50° Biennale di Venezia, all’interno della sezione Utopia Station: un’area di transito e in transito, progettata come lo spazio di una stazione, dove poter sostare e osservare contributi artistici di varia natura, provenienti da tutto il mondo. Aderiscono al progetto oltre 150 tra artisti, architetti e interlocutori che non fanno necessariamente parte del panorama artistico contemporaneo. Agnès Varda, tra questi ultimi, nell’accogliere l’invito propone per l’occasione un’installazione videosonora. Da questo momento per la cineasta belga si aprono nuove opportunità, sia sul piano dei territori artistici, fino a quel momento videofilmici e fotografici, sia su quello della scrittura. Pur mantenendo i principi compositivi che ne caratterizzano da sempre il lavoro, a partire da Patatutopia – questo il titolo della videoinstallazione – i tratti della multimedialità interverranno nella scrittura di Agnès Varda consentendole di ampliare, strutturalmente, le declinazioni dei dispositivi di ripresa e i modi della rappresentazione del racconto. O, della ex-peau-sizione, per dirla con il neologismo di Jean-Luc Nancy, subentrato proprio al termine Ê»rappresentazioneʼ, peraltro con un rinvigorimento di senso dato dalla sostituzione, al suo interno, della sillaba Ê»poʼ con la parola omofona peau, pelle.

A fondamento dell’intero lavoro di Varda c’è, infatti, un Ê»discorsoʼ aperto allo sguardo, alla presentazione del racconto più che alla sua rappresentazione, attraverso uno s-velamento progressivo operato dai mezzi di ripresa prima e poi di montaggio, che va di pari passo, autoalimentandosi, con la creazione-rivelazione di immagini e suoni da condividere. Un togliere i veli alla realtà, andando oltre la pura documentazione della stessa, per far affiorare un mondo-corpo fatto di Ê»piccole coseʼ; e forse, proprio per questo, maggiormente incisivo.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Pelle, pellicola, messa in scena del corpo, autorappresentazione. Performatività. Materialità di schermi, superfici. Tempo che consuma e si consuma, tempo da ricostruire. Bellezza della consunzione e dell’imperfezione. Abitare il tempo e abitare il cinema, indossare il tempo, indossare il cinema.

Il percorso di Agnès Varda, oggi novantenne, è un percorso nelle immagini: fortemente ispirata dalla pittura, dalla fotografia (lei stessa è fotografa), protagonista di un cinema noncurante di etichette e steccati, documentitore (Documenteur, 1981) e con una impronta – uso questo termine quasi in senso letterale – fortemente e consapevolmente autobiografica.

«La vecchia cineasta si è trasformata in giovane artista plastica», ha affermato commentando questa fase del suo lavoro. E in effetti non solo Varda ha concepito per le proprie opere percorsi installativi (come del resto hanno fatto altri cineasti della sua generazione, da Godard a Marker), ma si è dedicata a vere e proprie installazioni in cui le immagini in movimento non sono l’unico elemento, perché ne fanno parte oggetti, materiali diversi, fotografie. Inoltre, ha costruito film, in particolare il mirabile Les Plages d’Agnès, 2008, come percorsi installativi. Non solo: Varda ha trasformato se stessa in opera d’arte, con un’attitudine performativa basata in gran parte su costumi e travestimenti, sia nei film (ancora e soprattutto Les Plages d’Agnès) sia in esposizioni d’arte, come quando si è presentata alla 50° Biennale d’arte di Venezia nel 2003 (padiglione Ê»Utopia Stationʼ) trasformata in patata gigante, in occasione della sua prima installazione video Patatutopia. Un trittico (forma che ricorre spesso nelle sue installazioni) in cui si mostrano le patate scartate perché non conformi alle leggi di mercato. Patate difformi, in modo anche poetiche – come quella a forma di cuore – o commoventi (rugose, germoglianti). Imperfette. Patate (e qui si arriva all’elemento tattile, così presente nel cinema di Varda) da accarezzare, ripulire dalle tracce di terra, disporre e preparare per la messa in scena della loro bellezza.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →
  • Arabeschi n. 12→

Studiare il corpo (e i corpi) al cinema significa anzitutto considerare due distinte, sebbene interrelate, dimensioni. Da una parte, i film (e in generale i prodotti audiovisivi) rappresentano i corpi: li traducono, cioè, in immagini visive e sonore costruite attraverso molteplici forme di sguardo, caricandoli di significati di volta in volta differenti, e proiettandoli fuori dal mondo fisico e carnale e dentro un universo di fantasie, modelli e repertori immaginari. Dall’altra, i corpi sono anche (e soprattutto) una delle materie principali attraverso cui il cinema, la televisione e le arti elettroniche formano e sviluppano il loro discorso, la loro “parola audiovisiva”: pensiamo, ad esempio, a come i gesti e le voci degli attori e delle attrici partecipino alla produzione e alla messa in forma del racconto nel cinema narrativo, a come la performance corporea stia spesso alla base delle sperimentazioni videoartistiche; o ancora alla centralità assoluta del corpo (parlante, danzante, cantante, in ogni caso “presente”) che ha caratterizzato la comunicazione televisiva fin dalle sue origini.

Pensare il corpo negli scenari mediali obbliga a misurarsi con un oggetto visibilissimo ma intimamente sfuggente. Allo stesso tempo portatore e produttore di senso, il corpo cinematografico si impone come rappresentazione (e, dunque, come incarnazione di una pluralità di significati sociali, culturali, autoriali, e così via) e insieme come entità performativa, capace di creare significati attraverso la propria fisicità.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

C’è una costante che calcola il peso specifico dell’atto creativo per Carla Cerati ed è come un bisogno di dire e di dirsi, un impulso alla narrazione, che ha molto spesso a che fare con il corpo delle donne: il suo, raccontato quasi solo a parole, e quello delle altre, impressionato in immagine.

Il corpo femminile designa da subito un orizzonte di ricerca per la vocazione artistica di Cerati: bergamasca d’origine, milanese d’adozione, ha circa vent’anni quando progetta di iscriversi alla facoltà di scultura di Brera. Si esercita praticando ritratti in bassorilievo e forme di nudo, usando spesso sé stessa come modella. Passa con successo l’esame di ammissione all’Accademia, ma la famiglia, contrariata, la costringe ad abbandonare la velleità artistica e a sposarsi, ancora giovanissima.

La sua è una vita matrimoniale sofferta, infelice e opprimente, che la costringe a un silenzio espressivo, lungo un decennio. Ma il destino dell’arte non rimane a lungo latente e, prima con la fotografia, dopo con la scrittura, Cerati risarcisce la sua necessità creativa.

La macchina fotografica sostituisce la creta. Sono gli anni Sessanta, quando Carla Cerati fotografa lo spettacolo Niente per amore messo in scena da Franco Enriquez a Milano e intraprende la carriera da professionista. Esordisce come fotografa di scena e parallelamente si afferma come fotoreporter indipendente. Teatro e cronaca, pur nella loro specificità, localizzano uno spazio di lavoro comune per la fotografia di Cerati, che si configura come uno strumento non di documentazione ma di elaborazione del presente: grazie all’obiettivo, Cerati guarda ai materiali senza lasciarli semplicemente accadere, senza accontentarsi della prima visione, ma cercando nelle immagini significati non immediati, da sovrascrivere, elaborare.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 

Con questa videointervista vogliamo inaugurare un nuovo spazio di confronto dedicato al tema della comunicazione della ricerca, divenuto ormai cruciale per rilanciare l’efficacia degli studi umanistici rispetto alle sfide della contemporaneità. L’obiettivo è individuare prassi e strategie di disseminazione del sapere capaci di costruire un archivio mobile delle istanze ermeneutiche del presente.

 

Roberto De Gaetano, già direttore e responsabile di Fata Morgana – punto di riferimento indiscutibile nell’ambito degli studi cinematografici ed estetici –, presenta il progetto culturale di quello che può dirsi una sorta di spin off della rivista cartacea, cioè appunto la piattaforma Fata Morgana Web. Forte di un consolidato gruppo redazionale, e aperta a collaborazioni esterne, la nuova review si muove in una direzione precisa, ovvero la riconfigurazione di un pensiero critico che sappia individuare la «verità dell’opera» (Benjamin) senza escludere il rapporto con la tradizione. Accanto al cinema, che resta il campo d’azione privilegiato, l’asse culturale della rivista prevede una feconda apertura ad altri linguaggi della visione (la fotografia, il teatro, la serialità televisiva), nonché mirate incursioni nell’alveo della letteratura e della riflessione filosofica, a testimonianza di una vocazione plurale ma sempre rigorosa nei metodi e nella selezione dei casi di studio. La pubblicazione di un annuario, che raccoglie – accanto ai materiali già apparsi sul sito – contributi inediti di taglio teorico e interviste a registi e attori, conferma l’ambizione cartografica propria dei fascicoli di Fata Morgana e dei volumi del Lessico del cinema italiano.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

La storiografia letteraria suole registrare Luigi Capuana come scrittore, teorico e figura di prua del verismo, e accessoriamente come fotografo: un «giocoliere della camera oscura» per dirla con Sciascia. Tuttavia, l’esame delle sue contraddizioni e l’osservazione delle sue immagini fotografiche conservate nel Fondo fotografico della Casa-Museo Luigi Capuana di Mineo portano a rivisitare tale vulgata. Da un lato, egli era influenzato dal giudizio dominante dell’epoca e concepiva la fotografia come uno strumento di registrazione esatta della realtà, «serva delle scienze e delle arti» come asseriva autorevolmente Baudelaire; ma dall’altro lato, egli praticava l’attività fotografica come un’arte vera e propria, fors’anche come un’arte superiore alla letteratura e alla pittura. 

Luigi Capuana is usually labelled as a writer, a theorist and a leading figure of Verismo, and a simple dilettantephotographer, a «giocoliere della camera oscura» as Sciascia put it. Yet the observation of his contradictions and of his photographs shows that the canon needs to be reevaluated. On one hand, he was influenced by the prevailing opinion about photography as a «servant of sciences and arts», as defined by Baudelaire, but on the other hand he used to experiment it as an authentic art, maybe even superior to literature and painting.

 

 

1. Introduzione

Con l’invenzione del dagherrotipo nel 1839 e i consecutivi progressi tecnici realizzati fino alla fine del secolo in fotografia, l’Ottocento sperimenta un «pictorial turn»[1] e crea una nuova iconografia o «imagerie».[2] In Italia i fratelli Alinari fondano a Firenze la prima ditta fotografica negli anni Cinquanta e nel biennio 1863-1864 appaiono i primi giornali illustrati con fotografie, L'illustrazione italianaL'illustrazione universale. Proprio in quegli anni Luigi Capuana inizia la sua attività di fotografo: il suo interesse per la fotografia è testimoniato sin dal 1862.[3] La fotografia fu una vera e propria «passione sviscerata»[4] alla quale dedicò molto tempo e molto denaro, dandosi anche «alla rudimentale e ingegnosa fabbricazione di macchine fotografiche»[5] e spingendosi fino a metter su nel 1880 un laboratorio fotografico, il «Grande Atelier Fotografico in Mineo diretto dal Professor Luigi Capuana». Egli si autodefiniva un «maniaco della camera oscura» e delle «lastre» (di vetro, sulle quali erano impressi i negativi): sicché non era certo un semplice «dilettante evoluto»[6] né un «giocoliere della camera oscura».[7]

Il fondo fotografico della «Casa-Museo Luigi Capuana di Mineo e Biblioteca Comunale L. Capuana del Comune di Mineo» è composto di 184 fotografie positive e 3 lastre impressionate, di cui circa la metà si possono assegnare a Capuana (molte, però, prive di iscrizioni autografe apposte in calce o sul tergo, sono di incerta attribuzione). Numerose sono ancora le fotografie autografe disperse in collezioni private,[8] considerando l’elenco stilato da Capuana stesso, il «Catalogo delle negative fotografiche di L.C.»,[9] riferito ad oltre 300 immagini.[10]Alcune delle fotografie capuaniane sono state pubblicate, altre sono tuttora inedite, così come lo sono le lastre non sviluppate. Pochissimi sono gli studi e i cataloghi delle fotografie di Capuana. Nel 1982, Andrea Nemiz pubblicò parte del catalogo di una mostra in cui erano state presentate 68 fotografie del Nostro, allora quasi tutte inedite, e più recentemente, si deve ad Aldo Fichera l’elaborazione di una preziosa disamina del Fondo fotografico. In campo saggistico, dopo l’articolo pioneristico di De Roberto apparso nel 1916 sul supplemento illustrato de La Tribuna, Noi e il mondo e il libro di Corrado Di Blasi Luigi Capuana originale e segreto, senza data ma ascrivibile agli anni Sessanta del Novecento, Capuana fotografo ha suscitato una rinnovata attenzione solo all’inizio del XXI secolo.[11] Manca però tuttora uno studio complessivo della sua attività fotografica e un catalogo completo. In questo breve contributo si è tralasciata la produzione paesistica e folcloristica del Fondo per concentrarci esclusivamente sui ritratti del Fondo di Mineo, nei quali, secondo Morello, «Capuana raggiunse i suoi risultati migliori».[12]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Un passato impenetrabile, un’indole eccentrica, l’inclusione postuma tra i grandi della street photography americana: tra testimonianze indirette e migliaia di scatti superstiti, quella di Vivian Maier sembra una storia forgiata alla stregua di un’affascinante finzione letteraria. La vicenda del ritrovamento casuale dei negativi e dei rullini è ormai diffusa. John Maloof, occupato nella ricerca di fotografie di Chicago, nel 2009 scopre di aver conservato, negli scatoloni acquistati due anni prima presso una casa d’aste, un patrimonio di impressionante qualità artistica. Vivian Maier è appena scomparsa, ma di lì a poco l’impegno di Maloof alla divulgazione di fotografie che mai l’autrice vide stampate, se non in minima parte, e il conseguente riconoscimento da parte del pubblico e delle istituzioni fanno da cassa di risonanza a una passione che Maier ha coltivato e praticato con metodica dedizione, seppur con estrema riservatezza, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta.

In meno di un decennio la pervasività della fotografia di Vivian Maier ne ha consacrato il valore. Musei americani ed europei hanno ospitato selezioni di stampe dei suoi scatti, lo stesso Maloof ha ripercorso i momenti salienti della sua scoperta e la ricostruzione della biografia della ‘bambinaia fotografa’ nel docufilm Finding Vivian Maier (2013).[1] Anche l’Italia non è rimasta insensibile di fronte a questo talento e alla fine del 2012, con Vivian Maier. Lo sguardo nascosto, ha inaugurato alla Galleria dell’Incisione di Brescia un ciclo di mostre destinato a subire una rapida espansione. La più recente di queste, Vivian Maier. Una fotografa ritrovata, dopo aver attraversato Roma e Genova, ha appena concluso una delle sue tappe a Catania e proseguirà l’itinerario a Bologna.[2] L’esposizione presenta una serie di fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta, e una selezione – meno corposa ma indicativa di una poetica dello sguardo coerente e protesa alla documentazione diretta di istanti madidi di contemporaneità – di foto a colori e di filmati risalenti agli anni Settanta.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15