Diva del cinema italiano degli anni Trenta, Elsa de’ Giorgi è stata anche scrittrice, attrice teatrale e regista. Superata la stagione che l’ha vista impegnata nella recitazione per il grande schermo – ma anche parallelamente ad essa – un fil rouge ha attraversato la sua carriera e ha riguardato l’espressione di una straordinaria intelligenza esperita tramite la frequentazione di vari linguaggi artistici. Entro un orizzonte interpretativo che, ad ogni passo avanti, si rivela via via più articolato, i contributi accolti in questa sezione indagano proprio alcuni aspetti meno noti dell’attività di de’ Giorgi, ma dai quali emergono rilevanti chiavi di lettura.1 Ci si riferisce in particolare all’indagine di Roberto Deidier relativa al nesso tra attorialità e autorialità nella figura della diva e ad alcuni nuclei tematici fondamentali del suo percorso letterario e autobiografico, come la libertà, la verità e la memoria; all’accurata ricostruzione dell’ampio itinerario teatrale dell’artista offerta da Simona Scattina, che ricompone in un insieme unitario l’esperienza di recitazione, gli scritti teorici e il lavoro di regia di de’ Giorgi; all’affondo di Tommaso Tovaglieri sul rapporto dell’autrice con l’universo delle arti figurative, condotto anche attraverso una serie di rimandi alla collezione d’arte della famiglia del marito, Sandro Contini Bonacossi, e il commento di un testo inedito, La ballata dei bravi 1963.

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Il contributo analizza la trasposizione filmica animata di Pino Zac del 1970 dell’omonimo romanzo di Italo Calvino, Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959). Il lungometraggio, caratterizzato dall’uso dell’animazione in tecnica mista (usando cioè disegni, immagini derivate e attori reali), riflette contenuti e approcci alla creatività fantastica di Calvino ampliandone soprattutto il portato visuale. Attraverso il lavoro sui passaggi dalla cornice alla materia del racconto in particolare, accentuando il ruolo critico della personaggia-narratrice suor Teodora (la cavaliera Bradamante), l’uso di differenti materie espressive, delle riprese e del montaggio contribuiscono a un’espansione della lettura di genere dell’opera, adattata al mutato contesto storico-culturale.

The contribution examines Pino Zac's 1970 animated film adaptation of Italo Calvino's novel of the same title, Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959). The feature film, characterised by the use of animation in mixed technique (i.e. using drawings, derived images and real actors), reflects the contents and approaches to Calvino's fantastic creativity, especially by expanding its visual scope. Through the work on the transitions from the narrative frame to the subject matter of the story in particular, emphasising the critical role of the character/narrator Sister Theodora (the knightess Bradamante), the use of different expressive materials, filming and editing contribute to an expansion of the genre reading of the work, adapted to the changed historical and cultural context.

Nel 1970 il regista e sceneggiatore Pino Zac (insieme a Tommaso Chiaretti) scelse di adattare il romanzo di Italo Calvino Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959) nella forma di un lungometraggio caratterizzato dall’animazione in tecnica mista, ossia dall’impiego di attori reali, disegni e un insieme di immagini derivate riutilizzate creativamente. La storia narrata da una ‘finta’ suor Teodora è ambientata al tempo di Carlo Magno e dei Paladini e ruota intorno al tentativo del disciplinatissimo Agilulfo, un’entità intangibile contenuta in un’armatura, di far riconoscere il proprio ruolo di cavaliere, essendo stato accusato di essere un usurpatore a causa del dubbio status di Sofronia, la donna da lui salvata. Per dimostrare il proprio onore Agilulfo parte alla ricerca di Sofronia, accompagnato da altri personaggi: l’accusatore Torrismondo, la guerriera Bradamante (innamorata di Agilulfo), Rambaldo (innamorato di Bradamante) e Gurdulù (uno scudiero un po’ pazzoide). Nel finale, la narratrice si rivelerà nelle vesti di Bradamante e accoglierà l’amore verso Rambaldo, inizialmente rifiutato.

L’opera di Pino Zac ricalca quasi pedissequamente l’intreccio e i dialoghi del romanzo calviniano, al punto da aver ricevuto delle critiche per l’eccessiva aderenza al testo sorgente.[1] Lo stesso Calvino, che vide il film soltanto quando fu terminato, dichiarò di essersi sentito spettatore più che «autore […] per la fedeltà totale e alla lettera degli episodi e dello spirito».[2] Lo scrittore, tuttavia, riconobbe che la tecnica mista adoperata da Zac, con riprese dal vero e l’animazione di disegni, dipinti e vari materiali figurativi, aveva contribuito a definire una rilettura personale. «Nello stesso tempo [aggiunse Calvino] è una sua interpretazione visuale. Non soltanto dei personaggi, delle situazioni e degli ambienti ma anche di tutte le associazioni che il testo comporta».[3]

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Palookaville (1995) è il lungometraggio d’esordio di Alan Taylor. Il film integra tre racconti di Italo Calvino in una trama più estesa, in cui l’asse geografico e tematico di attanti, luoghi e situazioni viene traslato dall’Italia del secondo dopoguerra alla periferia americana degli anni Novanta. Ne deriva un’operazione traduttiva non lineare, che da una parte mantiene lo spirito originale dei racconti, dall’altra lo contamina attingendo a un ampio bacino di riferimenti e citazioni tipici del cinema postmoderno, dando vita a una brillante e disillusa narrazione sulla fine del sogno americano.

Palookaville (1995) is Alan Taylor's debut feature film. It integrates three short stories by Italo Calvino into a larger plot, where the geographical and thematic axes of actors, places and situations shift from post World War II Italy to the American suburbs of the 1990s. The result is a non-linear translation operation, which on the one side keeps the original spirit of the short stories, and on the other mixes it with elements typical of post-modern cinema, resulting in a brilliant and disechanted portrayal of the end of the American Dream.

1. «With thanks, admiration and apologize to Italo Calvino»

Dall’opera di Italo Calvino emerge una non comune sensibilità per il rapporto tra parole e immagini. La sua indagine – iniziata in forma narrativa con La giornata di uno scrutatore (1953) e L’avventura di un fotografo (1955), proseguita negli scritti sul cinema[1] e culminata nella quarta delle Lezioni americane, sulla visibilità – anticipa questioni che saranno affrontate nei decenni successivi dagli studi sulla cultura visuale. La predisposizione di Calvino a interrogarsi sui problemi dello sguardo trova un sintomo precoce negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, con la scoperta del cinema hollywoodiano, unico nutrimento per il «bisogno di evasione, di proiezione, di fuga dal caos privo di senso del proprio universo quotidiano».[2] Il cinema è uno stimolo costante per un autore che vive d’immagini e d’immaginazione, tanto da diventare, come scrive Maria Rizzarelli, quel macchinario in grado di moltiplicare all’infinito i «dispositivi del racconto sui quali si arrovellerà la sua fantasia di scrittore maturo».[3]

Non è un mistero quanto Calvino abbia tratto ispirazione dal cinema; eppure, desta una certa sorpresa scoprire che solamente un esiguo numero delle sue opere abbia percorso la strada inversa, migrando sullo schermo. In sinergia con gli altri contributi raccolti in questo numero di «Arabeschi», si cercherà di delineare il panorama di tali adattamenti e di coglierne le peculiarità. In Italia, oltre a L’avventura di un soldato – capitolo diretto da Nino Manfredi all’interno del film a episodi L’amore difficile (1963) – si annoverano Il cavaliere inesistente (1970) di Pino Zac; il Marcovaldo (1970) a puntate di Giuseppe Bennati; e l’Avventura di un fotografo (1983) diretto da Citto Maselli. Se da una parte vi sono trasposizioni esplicite e dichiarate – che riprendono integralmente le opere di Calvino – dall’altra vi sono casi in cui il processo traduttivo va oltre schemi e formule consuete. Palookaville (1995) di Alan Taylor è uno di questi. Frutto della collaborazione con il produttore Uberto Pasolini, l’opera prima del regista statunitense prende le mosse da tre diversi racconti calviniani: Furto in una pasticceria, L’avventura di un bandito e Desiderio in novembre, inseriti all’interno di una trama più estesa e unitaria, che trasla l’asse geografico di attanti e situazioni dall’Italia del secondo dopoguerra alla periferia americana degli anni Novanta.

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il testo teatrale La voix humaine (1930) di Jean Cocteau è un atto unico con un solo personaggio femminile parlante al telefono rinchiusa tra le pareti domestiche. L’opera è un monologo disperato di una donna che parla con l’uomo che la sta abbandonando, ovvero un dialogo simulato in cui il pubblico partendo dalle parole di lei deve immaginare le parole e l’essenza di lui. Il testo è stato ed è ancora oggi uno degli spettacoli più rappresentati e più volte oggetto di riscrittura e adattamento. Nell’introduzione Cocteau definisce il progetto come risposta alle lamentele da parte delle attrici che le sue opere erano troppo dominate dallo scrittore/regista, non lasciando spazio per dimostrare la capacità artistica di chi recita. Col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione, la grande prova attoriale per tante grandi interpreti che volevano dimostrare la propria bravura tramite le tante sfumature offerte da un testo puntato sugli aspetti dolorosi dell’amore. In questo saggio prendo in considerazione tre adattamenti cinematografici di La voix humaine che mettono alla prova tre grandissime attrici, partendo dal film di Rossellini con Anna Magnani, passando dall’adattamento di Edoardo Ponti con la madre Sophia Loren, fino ad arrivare alla versione recentissima di Almodovar con Tilda Swinton. In modi diversi e sovversivi, le trasposizioni cinematografiche indagano e sfruttano l’originale, amplificano il tempo e lo spazio spoglio di Cocteau, focalizzando sulla complessità dell’autorappresentazione della protagonista e del suo rapporto con gli oggetti e con gli spazi domestici in cui vive: spazi di sofferenza e assenza ma anche di agency e dignità.

Jean Cocteau’s theatrical text La voix humaine (1930) is a one-act play featuring a sole female character speaking on the phone trapped within the confines of the domestic space. The work is a monologue or more precisely a simulated dialogue of a desperate woman speaking with her lover who is leaving her. From her words, the audience is meant to imagine the words and the essence of the man. Still today the text is a widely staged work, often rewritten and adapted for the stage and screen. In the introduction, Cocteau defines the project as a response to actresses’ complaints that his works were all too often dominated by the writer/director leaving little space for the display of the artistry of the actress. With the passage of time, the text has become practically a manual for acting, a great challenge for actresses who wanted to demonstrate their versatility thanks to the many nuances offered by a text focused on the painful aspects of love. In this essay, I look at three cinematic adaptations of La voix humaine that put three great actresses to the test: Rossellini’s early version featuring Anna Magnani, Edoardo Ponti’s version featuring his mother Sophia Loren, and most recently Pedro Almodovar’s version starring Tilda Swinton. In distinctive and subversive ways, the adaptations explore and exploit the original, expanding the time and space of Cocteau’s text and focusing on the complexity of the self-representation of the protagonist and of her relationship with the objects and the domestic space that she inhabits: spaces of sufferance and absence but also of agency and dignity.

Nell’introduzione al suo testo teatrale La voix humaine (1930), Jean Cocteau definisce il progetto come una risposta alle lamentele da parte di quelle attrici che lo avevano accusato di far risaltare, nelle sue opere, più la voce dello scrittore/regista che non la capacità artistica di chi recita. Il testo di Cocteau nasce quindi come un esperimento a partire da alcuni elementi basilari: è un atto unico, c’è un solo personaggio femminile in una camera da letto spoglia in cui spicca l’accessorio di ogni dramma moderno, il telefono, un’invenzione che ha cambiato definitivamente il modo di concepire e rappresentare le relazioni. Il monologo è un dialogo simulato in cui, tramite le parole della protagonista, dobbiamo immaginare le parole, le reazioni e il carattere di chi sta dall’altra parte della cornetta. Il dramma infatti consiste in una lunga telefonata, più volte interrotta, tra una donna che sta parlando al telefono – probabilmente per l’ultima volta – con l’uomo che la sta lasciando dopo un rapporto sentimentale durato cinque anni. Si tratta di uno spettacolo che è stato fatto più volte oggetto di riscrittura e adattamento, e col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione per tante grandi attrici che volevano dimostrare la propria bravura a partire da un testo basato sugli aspetti dolorosi della fine di un amore.

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Lo studio si concentra su Le fleuve qui voulait écrire, volume pubblicato nel 2021 a cura di Camille de Toledo, scrittore, giurista e attivista francese. Esso si fa portavoce di una rinnovata coscienza ecologica che, sulla scia delle scelte operate da altri paesi europei ed extra-europei, espressioni delle nuove frontiere varcate dal diritto ambientale, ha tentato di dare voce e scrittura al fiume Loira. De Toledo racconta le audizioni del Parlamento della Loira che si sono svolte tra il 2019 e il 2021 e realizza così un vero e proprio dispositivo inter e transmediale. Esso, infatti, sfruttando le potenzialità di altri media in una prospettiva anche ‘fuori dal libro’ (fotografia, disegno, video, registrazioni audio), diventa espressione della volontà di rinnovamento della giurisprudenza in un’ottica di decostruzione dell’approccio antropocentrico, in vista del riconoscimento del principio di interdipendenza dei viventi e della necessità di creare istituzioni interspecie che favoriscano il riconoscimento dei diritti di tutte le soggettività viventi.

The study focuses on Le fleuve qui voulait écrire, a volume published in 2021 by Camille de Toledo, a French writer, jurist and activist. The book is a spokesman for a renewed ecological conscience that, in the wake of the choices made by other European and non-European countries, expressions of the new frontiers crossed by environmental law, has attempted to give voice and writing to the Loire river. De Toledo recounts the hearings of the Parlement de Loire that took place between 2019 and 2021 and thus creates a true inter- and trans-media device. In fact, by exploiting the potential of other media in a perspective that is also ‘outside the book’ (photography, drawing, video, audio recordings), it becomes an expression of the will to renew jurisprudence with a view to deconstructing the anthropocentric approach, to recognising the principle of interdependence of living beings and the need to create inter-species institutions that favour the recognition of the rights of all living subjectivities.

 

Il volume sul quale si concentra questo studio in realtà non è solo un libro, ma un vero e proprio oggetto inter- e transmediale. Infatti, se con l’espressione Ê»narrazione transmedialeʼ si intende «una storia raccontata su diversi media, per la quale ogni singolo testo offre un contributo distinto e importante all’intero complesso narrativo»,[1] allora il volume Le fleuve qui voulait écrire[2] ne rappresenta un esempio. Il testo è il primo prodotto di un progetto di ampio respiro coordinato da Camille de Toledo, scrittore, giurista e attivista francese. Esso si muove attraverso diversi tipi di media: testo scritto, fotografie, disegni e stampe, ma anche, in una prospettiva hors du livre, attraverso le registrazioni audio e video delle Auditions du Parlement de Loire[3] fruibili liberamente[4] su alcuni siti istituzionali partner del progetto. Questa complessità narrativa contribuisce a perfezionare, integrare e arricchire l’esperienza del fruitore grazie all’intersecarsi di molteplici e distinte informazioni. In questo modo il pubblico è chiamato a ricostruire il significato complessivo e complesso dell’opera integrando i diversi media coinvolti. Ogni medium, infatti, veicolando nuove e distinte informazioni, contribuisce allo sviluppo e alla comprensione del mondo narrato.

Tuttavia, il verbo ‘narrare’ e il sostantivo ‘narrazione’ non sembrano i termini più corretti per descrivere questa esperienza artistica, per la quale, in verità, le espressioni fiction o récit fictionnel appaiono poco appropriate. La stessa casa editrice nel presentare il volume lo definisce Ê»un ouvrage historiqueʼ, un’opera storica pertanto che, sulla scia delle iniziative lanciate fin dal 1998 dall’International Secretariat for Water (ISW) e dal Solidarity Water Europe (SWE), testimonia la possibilità da parte di un corso d’acqua

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«Un’immagine dialettica»: si apre così, nell’evocazione della stillstand benjaminiana, il volume Vedere, Pasolini (Ronzani, 2022) curato da Andrea Cortellessa e Silvia De Laude, trasposizione cartacea del numero 181 di Engramma del maggio 2021. Un volume che si aggiunge al coro dei «fescennini centenari» (p. 13) nel segno della visività o, meglio, della «fulgurazione figurativa»:[1]Vedere, Pasolini, dove Pasolini è oggetto del vedere, un vedere che si fa verbo, critica, ma anche soggetto, colui che vede, che si fa vista, immagine, luce. Una luce che squarcia le tenebre della «nuova preistoria»[2] nel tentativo costante di mostrare la realtà, il «cinema in natura»,[3] le diapositive luminose della vita al di là dell’oscurità del conformismo borghese e neocapitalista. È in questo senso che l’intera opera pasoliniana può essere considerata come un’‘immagine dialettica’, come un «montaggio»[4] continuo di materiali della realtà che si concretizza in ipostasi mobili, in immagini appunto, nelle quali convergono e si riattivano traiettorie culturali vicine e lontane, dal mito alla contemporaneità politica, dalla cultura figurativa seicentesca alla critica letteraria del Novecento. Ed è sempre in questo senso che Vedere, Pasolini può essere interpretato come la fotografia di un soggetto in movimento, come una rappresentazione attiva in cui le direzioni della poiesis pasoliniana convergono da tempi multipli, da prospettive plurime (e talvolta antinomiche), legate dal fil rouge della visività.

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Il 23 marzo 2022 la redazione di Arabeschi ha incontrato e intervistato Marco Antonio Bazzocchi per discutere di Alfabeto Pasolini, pubblicato da Carocci (2022), seconda edizione rivista di "Pier Paolo Pasolini" (Mondadori, 1998). L'incontro si è svolto in occasione del convegno Lampeggiare nello sguardo: attrici e attori nel cinema di Pasolini, tenutosi il 24 marzo 2022 presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università di Catania per celebrare il centenario della nascita dello scrittore. La nuova edizione dello studio rappresenta l'occasione per tornare ad attraversare alcuni nodi essenziali della poetica pasoliniana, sintetizzati nel volume in forma di lemmi, secondo la formula già rodata dell'alfabeto-atlante. La conversazione si è mossa a partire da alcune considerazioni relative al processo di aggiornamento del vocabolario e ha poi affrontato diverse questioni cruciali per intendere l'itinerario artistico di Pasolini.

 

Riprese audio-video: Alessandro Di Costa

Montaggio: Alessandro Di Costa, Giovanna Santaera

 

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Per restituire la dimensione fluida, sperimentale, flessibile del Piper di Torino la redazione di Arabeschi realizza un breve racconto visivo che, attraverso la documentazione fotografica esistente e la voce fuori campo di Marco Sciotto, tenta di riportare in vita il battito di una generazione capace di progettare nuove forme di animazione culturale.

L’intuizione architettonica radicale di Pietro Derossi prende corpo nel respiro di un videosaggio che vale a rappresentare, in pochi tratti, tutte le potenzialità di uno spazio destinato alla ‘costituzione di una comunanza’.

 

 

 

Selezione dei materiali d’archivio a cura di Donatella Orecchia e Carlotta Sylos Calò

Montaggio video a cura di Vittora Majorana e Damiano Pellegrino

Voce fuori campo di Marco Sciotto

 

Testi

Pietro Derossi, A proposito di un’esperienza progettuale. Il Piper di Torino, dattiloscritto.

Pietro Derossi, L’avventura del progetto. L’architettura come conoscenza, esperienza e racconto, Milano, Franco Angeli, 2012.

 

Immagini

© Archivio Derossi

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Davide Livermore è uno dei registi d’opera più interessanti e innovativi nel panorama italiano dell’ultimo decennio. In questo contributo si prenderanno in considerazione due suoi recenti allestimenti: Norma di Vincenzo Bellini (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 settembre 2021) e Macbeth di Giuseppe Verdi (Milano, Teatro alla Scala, 7-29 dicembre 2021). I due spettacoli sono stati scelti per l’originalità delle proposte del regista e per la loro esemplarità: la loro analisi consente infatti di mettere a fuoco alcuni aspetti fondamentali della ‘scrittura scenica’ di Livermore e al tempo stesso di affrontare una serie di questioni cruciali relative alle modalità di trasmissione e di ricezione del repertorio operistico nel panorama culturale contemporaneo. In particolare la ‘scrittura scenica’ di Livermore sarà analizzata alla luce del suo ricorso alle più avanzate tecnologie digitali, della sua tendenza a progettare la drammaturgia visiva in funzione della rimediazione in televisione e nei nuovi media e del radicamento del regista nell’estetica del postmodernismo.

Davide Livermore is one of the most interesting and innovative opera directors on the Italian scene of the last decade. This article will consider two of his recent productions: Norma by Vincenzo Bellini (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 September 2021) and Macbeth by Giuseppe Verdi (Milan, Teatro alla Scala, 7-29 December 2021). The two shows were chosen for the originality of the director’s proposals and above all for their exemplariness: their analysis, in fact, allows to focus on some key aspects of Livermore’s ‘stage writing’ and at the same time to address a series of crucial issues relating to the modes of transmission and reception of the operatic repertoire in the contemporary cultural landscape. In particular, Livermore’s ‘stage writing’ will be analyzed in the light of his using the latest digital technologies, of his tendency to design the visual dramaturgy on the basis of remediation in television and new media and the rooting of director’s theatrical language in the aesthetics of post-modernism.

1. Tra partitura e ‘scrittura scenica’

Il 2021 ha visto diversi nuovi allestimenti di Davide Livermore, quasi tutti di titoli verdiani. In ordine cronologico si segnalano Elisabetta regina d’Inghilterra (Pesaro, Rossini Opera Festival, 11-21 agosto 2021), Norma (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 settembre 2021), La traviata (Firenze, Maggio Musicale Fiorentino, 17 settembre-5 ottobre 2021), Giovanna D’Arco (Roma, Teatro dell’Opera, 17-26 ottobre 2021), Rigoletto (Firenze, Maggio Musicale Fiorentino, 19-24 ottobre 2021), Macbeth (Milano, Teatro alla Scala, 7-29 dicembre 2021). In questo contributo si prenderanno in considerazione le messinscene della Norma di Vincenzo Bellini e del Macbeth verdiano. I due spettacoli sono stati scelti non tanto per la loro risonanza mediatica, quanto piuttosto per l’originalità delle proposte del regista e soprattutto per la loro esemplarità: la loro analisi consente infatti di mettere a fuoco talune fondamentali costanti della ricerca drammaturgica di Livermore e al tempo stesso di affrontare una serie di questioni cruciali relative alle modalità di trasmissione e di ricezione delle opere di repertorio nel panorama culturale contemporaneo.

Oggetto privilegiato dell’indagine sarà la ‘scrittura scenica’ che sovrintende entrambi gli allestimenti, laddove per scrittura scenica si intende – per dirla con Lorenzo Mango – «l’insieme degli elementi legati alla messa in scena, considerati non più come tanti fattori collaterali alla artisticità del teatro ma come parte integrante di un progetto creativo che è “scrittura” poiché determina e compone l’opera d’arte teatrale».[1] Del resto gli studi sulla dimensione performativa del teatro musicale, che si sono sviluppati negli ultimi decenni sotto la spinta del ‘Regietheater’, ci hanno insegnato che la messinscena di un’opera può venire presa in considerazione nella sua autonomia estetica rispetto al libretto e alla musica. Come ha evidenziato Clemens Risi,

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