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Nel sempre più fitto panorama degli studi dedicati alla dimensione visiva della letteratura, il volume di Eloisa Morra, La lente di Gadda (Electa, 2024) rappresenta un contributo originale e metodologicamente sofisticato, in grado di coniugare l’approfondimento critico-filologico con una profonda sensibilità intermediale. Si tratta di un libro che non solo rilegge con sguardo acuto la costellazione figurativa nell’opera di Carlo Emilio Gadda, ma che propone anche un modello teorico-operativo per intendere la scrittura letteraria come dispositivo ottico, epistemologico e psichico.

Il progetto di Morra prende le mosse da un assunto tanto implicito quanto cruciale: in Gadda, il visivo non è un accessorio, ma una forma di conoscenza. L’ekphrasis, lungi dall’essere mero orpello descrittivo, diventa una modalità compositiva e una strategia di mascheramento: «ogni tentativo di avvicinamento al reale implicherà un conflitto» – scrive Morra – «un rapportarsi al problema del Male, identificato da Gadda con il narcisismo che impedisce di tendere al bene comune» (p. 9). È a partire da questa tensione irrisolta che la scrittura gaddiana mette in scena un continuo scambio tra parola e immagine, tra trauma e rappresentazione, tra identità e travestimento.

Ma è soprattutto nella sua costante attenzione al dato testuale – più precisamente alla stratificazione genetica della scrittura gaddiana – che il libro rivela la sua portata innovativa. Le pagine di Morra sono fitte di riferimenti agli abbozzi, agli appunti preparatori, agli interventi marginali e interstiziali che costellano l’archivio gaddiano. Questa cura filologica, lungi dal ridursi a repertorio annotativo, si trasforma in chiave ermeneutica: la scrittura di Gadda viene interrogata come palinsesto, come organismo vivente che reitera, sopprime, maschera o rilancia nuclei visivi ossessivi. L’ekphrasis, insomma, non viene considerata un semplice episodio della narrazione, ma ne rappresenta un agente compositivo.

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Il presente contributo propone un’analisi del romanzo Il ritorno è lontano di Alessandra Sarchi, a partire dal tema del conflitto che attraversa tutta l’opera della scrittrice. Il contrasto tra madre e figlia, Sara e Nina, in questo ultimo lavoro di Sarchi riflette una frattura generazionale e ideologica: la prima è legata a un mondo che va scomparendo, la seconda, votata a un impegno ecologista radicale, è invece proiettata verso un orizzonte in cui i valori e le priorità sono profondamente mutati. La densità della scrittura di Sarchi emerge con evidenza nella restituzione della tensione tra un mondo dominato dalla razionalità adulta e il richiamo a una natura ferita ma vitale.

This paper offers an analysis of the novel Il ritorno è lontano by Alessandra Sarchi, starting from the theme of conflict that runs throughout the writer's work. The contrast between mother and daughter, Sara and Nina, in this latest work by Sarchi reflects a generational and ideological rift: the former is tied to a world that is disappearing, while the latter, dedicated to a radical environmentalist commitment, is instead projected toward a horizon in which values and priorities have profoundly changed. The depth of Sarchi's writing is clearly evident in the portrayal of the tension between a world dominated by adult rationality and the call to a wounded but vital nature.

 

Il conflitto è la cifra stilistica di molte delle narrazioni composte da Alessandra Sarchi. Intendo il conflitto in tutte le sue forme, sia interne che esterne: il conflitto in un ambito ristretto di amici, il conflitto interno alla coppia, alla famiglia, e naturalmente interno alla stessa personalità della voce narrante (esplicita o implicita). Non credo che Sarchi metta in scena il conflitto nel suo aspetto più spettacolare e evidente, ma anzi che una delle sue abilità maggiori stia nel nascondere il conflitto nelle pieghe del racconto, là dove può occhieggiare anche solo in un gesto o trasferirsi in un oggetto.

Non è un caso che l’ultima fatica di Sarchi sia l’organizzazione di una importante mostra dedicata a Penelope, cioè a una figura silenziosa che porta dentro di sé il conflitto, sia nella modalità che la mette “contro” i nemici sia in quella che la mette “contro” il marito lontano, cioè fa dell’attesa il lungo rallentamento del conflitto, la sua agonia. Nel suo saggio su Penelope Sarchi sottolinea che è solo nei sogni che emerge in Penelope il trauma della perdita o della distanza: si pensi al sogno delle venti oche uccise dall’aquila.1 Qualunque sia il suo significato, è un sogno che contiene distruzione e sangue, annuncia forse la vendetta di Ulisse ma nello stesso tempo rattrista la sognatrice.

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Ci siamo soffermati a lungo sulla relazione fra parole e immagini - relazione che costituisce uno dei centri pulsanti della sua scrittura, nella quale convergono interessi e passioni legate alla sua formazione di storica dell’arte. Il plurimo talento di Sarchi, infatti, fa convivere la sua vena creativa generatrice di storie e le sue competenze di studiosa del patrimonio storico-artistico, e - per sua stessa ammissione - si alimenta dell’oscillazione fra astrazione della parole e concretezza materiale delle immagini. Disseminate di citazioni visuali e di frammenti ecfrastici, quali ad esempio il quadro di Primaticcio che raffigura Ulisse e Penelope e che viene descritto nell’Amore normale; gli acquerelli di Carol Rama citati ne La notte ha la mia voce; o ancora il dettaglio dell’uovo della Pala di Motefeltro di Piero della Francesca e le rifrazioni tematiche che questo riferimento pittorico assume ne Il dono di Antonia, le immagini si offrono spesso come precipitati del pensiero, sintesi particolarmente efficaci degli snodi della narrazione, folgoranti condensazioni delle verità più profonde a cui giungono i protagonisti e le protagoniste dei suoi romanzi.

 

 

 

 

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Alessandra Sarchi, scrittrice e saggista italiana nata nel 1971 a Brescello (Reggio Emilia), ha una formazione profondamente legata alle arti visive, avendo studiato Storia e critica d’arte alla Scuola Normale di Pisa e avendo conseguito un dottorato di ricerca nello stesso ambito all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Questo retroterra artistico ha influenzato in modo decisivo il suo stile narrativo, che si distingue per una forte componente visuale, una sensibilità al dettaglio e una capacità di rendere immagini vivide attraverso la parola scritta. La sua prosa, infatti, riflette il dialogo continuo tra il visuale e il verbale, con una peculiare attenzione alla percezione del corpo e alla soggettività femminile.

All’intensa attività creativa si aggiunge quella altrettanto intensa di curatrice, storica dell’arte e critica letteraria: è stata, infatti, consulente presso il Museo Civico Medievale a Bologna e presso la Fondazione Federico Zeri. È membro della giuria del premio letterario Russo Pozzale. Scrive su «Alias», supplemento culturale de «Il manifesto» e su «La Lettura» del Corriere della Sera; su Doppiozero.com e Leparoleelecose.com.

Il suo esordio nella narrativa è avvenuto nel 2007 con l’antologia collettiva Narratori attraverso (Diabasis); un anno dopo ha pubblicato la raccolta di racconti Segni sottili e clandestini con lo stesso editore. Il tema del corpo, con le sue limitazioni e metamorfosi, emerge già in queste prime prove, anticipando sviluppi successivi della sua produzione letteraria.

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Un bassorilievo della Marciana, attribuito alla scuola sansoviniana, presenta Prometeo intento ad animare il primo uomo con la torcia celeste, dotato di ali. L’inedito attributo, allotrio rispetto alla tradizione, invita a gettare uno sguardo nel panorama della vicina produzione artistica a soggetto mitologico e a soffermarsi soprattutto sugli esempi figurativi proposti da Zelotti negli affreschi di due ville palladiane. In questa reincarnazione, diramata in un particolare contesto storico e geografico, Prometeo si cristallizza con l’ornamentazione delle ali: se il tema di base rimane lo stesso, il movimento innovativo mette in evidenza un nuovo ritmo semantico, dettato dal cortocircuito iconografico con il Tempo.

A bas-relief in the Marciana, attributed to the School of Sansovino, shows Prometheus, equipped with wings, intent on animating the first man with a celestial torch. This unusual attribute, diverging from tradition, suggests analysing the panorama of nearby artistic production on mythological subjects and dwelling on Zelotti’s frescoes in two Palladian villas. In this reincarnation, spread in a particular historical and geographical context, Prometheus is crystallised with the ornamentation of wings. While the theme remains the same, the innovative movement emphasises a new semantic rhythm, originating from the iconographic overlap with Time.

Nell’arco di Phanes del «più ricco et ornato edificio che forse sia stato fatto dagli antichi in qua»,[1] come ebbe a dire Palladio nel Proemio al primo dei Quattro libri dell’architettura, ossia della Libreria Marciana di Venezia, un bassorilievo raffigura Prometeo in atto di animare il primo uomo, attribuito alla Scuola di Sansovino.[2] Datato tra il quarto e il sesto decennio del Cinquecento, presenta un curioso attributo, raro e inedito: Prometeo è alato.

La singolare iconografia dell’evento, divergente dai paradigmi antichi,[3] è passata in sordina, oppure è stata affrontata lasciando aperto il quesito, per cui deriverebbe da una fonte circolante in ambito veneto non ancora riconosciuta.[4]

Secondo la lezione di Panofsky, le immagini si delineano come raffigurazioni convenzionali, depositarie di significati variabili in base al contesto, pertanto nell’interpretazione iconologica è necessario identificare con precisione, prima di tutto, i motivi, per poi ragionare sulle composizioni attivate.[5] Non resta allora che dinamizzare le ipotesi, proponendo qualche tenue tentativo di passage dall’immanente al contestuale, dal fattuale all’intrinseco, limitato ai casi distintivi.

Fu rilevante per il mutamento del clima artistico veneziano l’arrivo in laguna di Jacopo Tatti detto il Sansovino, dileguatosi dal sacco di Roma. Formatosi nell’entourage di Bramante, Raffaello e Peruzzi, giunge a Venezia già celebre e pienamente inserito nell’élite intellettuale. Nel giro di pochi anni mitiga superbamente le esperienze romane e fiorentine dell’Alto Rinascimento con le esigenze locali. Giovando della mediazione artistica e soprattutto politica di Pietro Aretino e del cardinale Grimani, riesce a sollecitare il cambiamento che avverrà dopo gli anni Trenta nel panorama artistico veneziano, complici anche la morte di molti artisti lagunari a causa della peste e l’emigrazione di altri. Già nel 1523 era stato convocato per una consultazione in merito al rinforzo delle cupole di San Marco e in soli due anni arriva a rivestire la massima carica, divenendo proto della Procuratoria di San Marco de supra. Il 6 marzo 1537 l’approvazione del Senato e il voto unanime dei procuratori segna l’avvio della costruzione della Libreria,[6] secondo il progetto di quel «banditore del gusto tosco-romano, ammiratore convinto di quel decorativismo postraffaellesco che era stato uno dei coefficienti più attivi della visione manieristica».[7] In questo momento la Repubblica, considerata lo stendardo della libertà dell’Italia, stava elaborando il proprio mito, e la grandiosa commissione pubblica, sorta come solenne repositorio della ricca biblioteca personale del cardinale Giovanni Bessarione, donata alla Serenissima nel 1468, e come sede illustre della Procuratoria, si iscriveva perfettamente nella nuova imago urbis desiderata dal doge Gritti e dall’establishment.

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L’articolo, che ha lo scopo di introdurre l’omonimo fascicolo monografico, indaga la ricezione del mito di Prometeo, nella sua mobilità non solo diacronica e diatopica, ma anche intermediale. Nel ripercorrere le recenti acquisizioni metodologiche degli studi intermediali, e nel sottolinearne la crescente importanza, il contributo mette in luce la prolifica fortuna della figura di Prometeo attraverso diversi media, dalla letteratura e il teatro fino al cinema, i videogiochi e i meme contemporanei, che ne determinano trasformazioni sostanziali. L’instabilità, caratteristica costitutiva della fortuna del mito, nel caso di Prometeo è legata anche alla mancanza di un solido e unico testo sorgente; la cangiante molteplicità del Titano lo rende una figura emblematica per analizzare i meccanismi complessi della ricezione intermediale.

The article, which aims to introduce the current monographic issue, explores the reception of the mythical figure of Prometheus from an intermedial perspective. By retracing recent methodological developments in intermedial studies and emphasizing their growing significance, the contribution highlights the prolific reception of Prometheus across different media, including literature, theatre, cinema, video games, and contemporary memes, all of which contribute to significant transformations of the myth. Instability, a defining characteristic of the myth’s reception, in the case of Prometheus is also linked to the absence of a single authoritative source text. The Titan’s multiplicity thus makes him an emblematic figure for analysing the complex mechanisms of intermedial reception.

Una didascalia in sovraimpressione nella sequenza iniziale di Oppenheimer informa lo spettatore, eventualmente ignaro di trovarsi di fronte all’ennesima metamorfosi del mito, che «Prometheus stole fire from the gods and gave it to man. For this he was chained to a rock and tortured for eternity». Il riferimento al Titano, già presente nel titolo della biografia scritta da Kai Bird e Martin J. Sherwin sulla quale è basata la sceneggiatura del film di Christopher Nolan (American Prometheus. The Triumph and Tragedy of J. Robert Oppenheimer, 2005), rientra in una casistica verso la quale già Schelling attirava l’attenzione: «La mitologia è essenzialmente qualcosa che si muove».[1] Immunizzato dalla catastrofe del nazismo nei confronti delle ipostatizzazioni del mito, Hans Blumenberg avrebbe neutralizzato il «mito della mitologia» risolvendo quest’ultima nella storia dei suoi effetti: «L’originario rimane un’ipotesi, l’unica base per verificare la quale è la ricezione»;[2] assunto in seguito echeggiato dalla mitocritica più avvertita, che muove dall’ipotesi «d’un sens non inhérent au(x) mythe(s), mais généré en perpétuelle réinvention à partir de la situation du sujet énonciateur».[3]

Se la «mobilità diacronica e diatopica»[4] del mito in generale è ormai un dato acquisito, non lo è altrettanto, o non a sufficienza, la dimensione mediale di tale mobilità. Come ha osservato una studiosa particolarmente sensibile alla questione, «le jeu des prismes interprétatifs est parfois d’une complexité qui repose bien plus que de l’intertextualité littéraire».[5] Ovviamente non godono più di credito semplificazioni come quella che relegava il mito alla sfera dell’oralità, attribuendo alla scrittura un’implacabile funzione demitizzante; per quanto, naturalmente, si continui ad attribuire un ruolo fondamentale all’oralità nei circuiti intermediali dell’antico.[6] È però un dato di fatto che l’attenzione all’intermedialità del mito stenta ancora ad affermarsi, per quanto da questo studio potrebbero trarre beneficio non solo le ricerche sulla tradizione del classico (alle quali aggiunge alcune tessere il contributo di Guido Milanese presente in questo fascicolo), ma anche gli stessi studi di intermedialità, troppo spesso appiattiti su un ‘presentismo’ dimentico del radicamento e della profondità storica delle questioni.

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Una scultura monumentale, quasi totemica, composta da cavi elettrici e fili di rame che, intrecciati come fasci muscolari protesi verso l’alto, terminano in un’enigmatica protome animale. L’autore dell’installazione, l’artista praghese Krištof Kintera, utilizza scarti di produzione industriale per costruire organismi sintetici in cui ogni tipo di materiale, rizomaticamente, diventa elemento ri-plasmabile in funzione di una nuova creazione.

È questa la copertina del libro CHANGES. Riscritture, sconfinamenti, talenti plurimi, che Angela Albanese ha recentemente curato per i tipi di Mimesis.[1] Il carattere evocativo dell’immagine scelta, che rinvia alla mutazione, alla riconfigurazione e all’interpretazione in atto, ben introduce alla lettura di uno studio prismatico, in cui si moltiplicano gli sguardi analitici su un fenomeno cruciale della cultura contemporanea: le dinamiche di ibridazione e intreccio tra linguaggi eterogenei – visivo, verbale, musicale – che si attivano negli autori dal talento plurimo.

Ponendosi all’interno di un dibattito vasto e composito, che supera i confini disciplinari e che evidenzia la necessità di un approccio comparatistico, il volume curato da Albanese ha senz’altro il merito di porre l’accento su alcuni specimina esemplari relativi alla categoria ermeneutica del Doppelbegabung (letteralmente ‘doppio talento’), tutti sostanziati dall’idea-chiave di sconfinamento tra codici diversi da parte di un medesimo artista.

Per orientare i lettori nel canone di exempla presi in esame, l’introduzione redatta dalla curatrice riassume in modo puntuale gli ultimi approdi teorico-critici intorno al tema del polimorfismo autoriale, a partire dalla basilare distinzione introdotta da Michele Cometa tra doppio talento inteso in senso stretto (quando l’autore fa esperienza di due media considerandoli però come sfere di azione distinte), concrescenza genetica (quando i due media concorrono entrambi alla genesi dell’opera) e intreccio dialogico (quando uno dei due linguaggi integra, amplifica, interpreta e completa l’altro).[2]

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In occasione del centenario della nascita di Italo Calvino, il 28 agosto 2023, presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, la redazione di Arabeschi ha incontrato e intervistato Marco Belpoliti, curatore del volume Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni (Mondadori 2023). Proponendo un insieme eterogeneo di testi saggistici, lo studio mette a fuoco un ampio spettro di questioni legate al rapporto tra Calvino e la visualità, e porta a maturazione un progetto che trova in un lavoro di quasi trent’anni fa – L’occhio di Calvino (Einaudi 1996; nuova edizione ampliata 2006) – il suo punto di partenza. L’incontro si muove dunque lungo l’itinerario rappresentato dagli sconfinamenti figurativi e audiovisivi del macrotesto dello scrittore, con la guida di chi per primo ha mostrato il rilievo del ‘guardare’ calviniano.

Videointervista a cura di: Alessandro Di Costa, Giancarlo Felice, Enrico Riccobene (riprese e montaggio), Maria Rizzarelli, Giovanna Santaera 

 

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Diva del cinema italiano degli anni Trenta, Elsa de’ Giorgi è stata anche scrittrice, attrice teatrale e regista. Superata la stagione che l’ha vista impegnata nella recitazione per il grande schermo – ma anche parallelamente ad essa – un fil rouge ha attraversato la sua carriera e ha riguardato l’espressione di una straordinaria intelligenza esperita tramite la frequentazione di vari linguaggi artistici. Entro un orizzonte interpretativo che, ad ogni passo avanti, si rivela via via più articolato, i contributi accolti in questa sezione indagano proprio alcuni aspetti meno noti dell’attività di de’ Giorgi, ma dai quali emergono rilevanti chiavi di lettura.1 Ci si riferisce in particolare all’indagine di Roberto Deidier relativa al nesso tra attorialità e autorialità nella figura della diva e ad alcuni nuclei tematici fondamentali del suo percorso letterario e autobiografico, come la libertà, la verità e la memoria; all’accurata ricostruzione dell’ampio itinerario teatrale dell’artista offerta da Simona Scattina, che ricompone in un insieme unitario l’esperienza di recitazione, gli scritti teorici e il lavoro di regia di de’ Giorgi; all’affondo di Tommaso Tovaglieri sul rapporto dell’autrice con l’universo delle arti figurative, condotto anche attraverso una serie di rimandi alla collezione d’arte della famiglia del marito, Sandro Contini Bonacossi, e il commento di un testo inedito, La ballata dei bravi 1963.

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