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  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

Protagonisti della Nuova Figurazione in Italia, Achille Perilli e Gastone Novelli intrecciano stretti rapporti di collaborazione con gli scrittori del Gruppo 63, in particolare, con Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani e Giorgio Manganelli, cui sono legati da una profonda amicizia e da una forte consonanza di intenti culturali. In questo contributo vengono rintracciate le affinità esistenti al livello delle poetiche tra i cinque autori a partire da alcune significative testimonianze della loro collaborazione, come la fondazione della rivista Grammatica, alcune pubblicazioni collettive, le “illustrazioni” ai testi letterari degli amici scrittori da parte di Perilli e Novelli e i testi critici o di poesia dedicati da Giuliani, Pagliarani e Manganelli alle opere dei due artisti. Dall’analisi delle opere emergono i particolari criteri che definiscono le modalità di interrelazione tra arte figurativa e letteratura stabilite dagli autori, assieme ad alcuni aspetti inediti sul rapporto tra le tendenze nate in reazione all’Informale e la letteratura della Neoavanguardia.

Achille Perilli and Gastone Novelli, protagonists of the so called ‘New Figuration’ in Italy, weave close collaborative relationships with the writers of Group 63, in particular, with Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani and Giorgio Manganelli, to whom they are linked by a deep friendship and a strong consonance of cultural intent. In this article, the affinities at the level of poetics among the five authors are traced starting from some significant proves of their collaboration, such as the foundation of the review Grammatica, some collective publications, the “illustrations” to the literary texts of the writers friends by Perilli and Novelli and the critical or poetry texts dedicated by Giuliani, Pagliarani and Manganelli to the works of the two artists. The particular criteria that define the modalities of interrelation between figurative art and literature established by the authors emerges from the analysis of the works, together with some new aspects of the relationship between the tendencies born in reaction to the Informel and the literature of the Neo-vanguard.

 

Sintomo e riflesso di una traumatica condizione storica, l’Informale, denunciando l’esaurimento delle forme della rappresentazione, si fa interprete di un momento di crisi dell’intero sistema artistico, che investirà anche la letteratura italiana, in tutta evidenza, con l’avvento delle poetiche elaborate dai Novissimi. Una marcata corrispondenza rispetto all’Informale sembra infatti connotare la poesia ‘novissima’ nel suo programma di decostruzione delle forme tradizionali del verso.[1] Tuttavia, al momento dell’edizione della nota antologia del ’61, con l’intervento di Sanguineti ‘Poesia Informale?’ accolto al suo interno, viene invero prospettata una strategia di superamento delle questioni poste dall’Informale, collocando i Novissimi in una posizione postuma rispetto ad esso e assimilandone la poetica alle pratiche pittoriche ricadute sotto il nome di Nuova Figurazione. Se nel suo intervento Sanguineti indica la strada per una riprogettazione della forma poetica e la necessità di un recupero della capacità, in sostanza, di ‘dire qualcosa’, a partire tuttavia dall’informe[2] – una fuoriuscita dalla ‘palude’ dell’Informale, ma con le ‘mani sporche di fango’ – similmente, la Nuova Figurazione si pone come il tentativo di rinnovare la facoltà comunicativa del segno pittorico dopo le derive dell’Informale, rielaborandone la lezione e mantenendosi a distanza da qualunque ritorno al mimetismo.

In diverse occasioni la critica ha già approfondito la posizione di Sanguineti rispetto all’Informale e alla Nuova Figurazione, focalizzandosi sui rapporti dell’autore con il gruppo dei Nucleari e con Enrico Baj in particolare;[3] rimangono tuttavia meno indagate le collaborazioni, assieme alle relazioni a livello delle poetiche, istauratesi tra gli artisti della Nuova Figurazione italiana e altri membri del nascituro Gruppo 63, che pure appaiono consistenti a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

 

 

 

Là la donna adulta ritrova se stessa bambina e scopre di essere ancora la medesima persona. Tale è il significato del titolo proustiano […]. Lo ricavai da un passo del Tempo ritrovato.

«Ci appartiene veramente soltanto ciò che noi stessi portiamo alla luce estraendolo dall’oscurità che abbiamo dentro di noi… Intorno alle verità che siamo riusciti a trovare in noi stessi spira un’aura poetica, una dolcezza e un mistero, i quali non sono altro se non la penombra che abbiamo attraversato». Così mi appropriai della frase; anzi, della sua parte migliore.

Lalla Romano

 

Avevo molte storie da raccontare, molti aneddoti. Ma della storia che abitava dentro di me, la Cosa, questa colonna del mio essere, ermeticamente chiusa, piena di buio in movimento, come facevo a parlarne?

Marie Cardinal

 

1. Autobiografia come formazione e cura di sé

 

 

Nel 1993 Catherine Spaak pubblica Da me, autobiografia basata sull’idea di raccontare senza un ordine preciso frammenti di vita, ricordi, pensieri, con lo scopo di selezionare tutto quello che l’attrice desidera tenere con sé (il ‘da me’ del titolo) e quello che, al contrario, vuole allontanare. Nel testo si susseguono quindi, apparentemente senza coerenza (Spaak 1993, p. 7), avvenimenti e fantasie, persone reali e personaggi inventati, considerazioni sulla letteratura, sull’arte e sul cinema.

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Abstract: ITA | ENG

In più occasioni Calvino insiste sull’ispirazione visiva dei tre racconti fantastici che compongono i Nostri antenati. Lo scrittore ligure non ammette però che accomuna le tre immagini di partenza la stessa sfera metaforica, ovvero la corporeità e le limitazioni alle quali è sottoposta. L’intervento intende esaminare le declinazioni di questa scrittura per immagini che ruota intorno all’idea di superamento dei limiti della corporeità, quale metafora del «realizzarsi come esseri umani». Le metamorfosi a cui è sottoposto il corpo nel Cavaliere inesistente e la loro rappresentazione vengono analizzate come caso esemplare di questo processo creativo che sta alla base della trilogia di Calvino.

Italo Calvino has often pointed out that the three novels of the trilogy Our Ancestors have their primary inspiration in specific images. He, however, has never remarked that the three visual sources belong to the same metaphorical field: the body and its limits. The article examines how Calvino’s literary development of those images revolves around the central issue of overcoming physical limitations as a metaphor for “self-realisation as human beings”. The metamorphoses of the body in The Nonexistent Knight and their literary representation are here investigated as a foremost example of this pivotal process at the core of Calvino’s trilogy.

 

1. Il volto degli antenati

L’attività di autoriflessione di artisti e scrittori è fenomeno ben noto e prezioso per la critica letteraria, dal momento che negli spazi di autocommento spesso si annidano rivelazioni illuminanti sui testi e la loro genesi.[1] Se in molti casi gli autori sono stati parchi nel fornire commenti alle proprie opere, Italo Calvino, per contro, si è dedicato a tale attività in modo potremmo dire sistematico e cospicuo. L’autore ligure non soltanto ha frequentato in modo estensivo la forma saggio, autoinvestigando attraverso gli strumenti della saggistica le proprie scelte poetiche, ma in più occasioni ha dichiarato intenti e significati dei suoi scritti in introduzioni e prefazioni prodighe di dettagli e spiegazioni sui testi che accompagnavano.

La Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno è forse lo scritto più noto della produzione calviniana di autocommento. Non meno rilevanti e illuminanti, però, sono altri testi prefatori, come ad esempio i due scritti, uno edito e l’altro emerso grazie ai Meridiani mondadoriani, che illustrano genesi e significati della trilogia araldica dei Nostri antenati.

Nel 1960, in occasione della pubblicazione dei tre romanzi in un volume complessivo, Calvino sente infatti la necessità di illustrare le ragioni che fanno di queste opere un ciclo unitario e compiuto. I volumi che compongono i Nostri antenati, benché nati in momenti lievemente differenti (’52, ’57, ’59) – e fortemente ancorati alle circostanze storiche in cui vennero concepiti –, condividono una matrice genetica comune, sulla quale Calvino insiste sia nella versione edita della Postfazione sia nello scritto che non venne pubblicato: questi romanzi – come molte altre opere calviniane – non sono nati da concetti ben distinti e chiari per l’autore, che attraverso la trasfigurazione fantastica li ha voluti descrivere, sono sorti invece da tre immagini, dalle quali poi hanno preso forma delle questioni che in seguito rimangono sempre centrali per Calvino.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

«Per aver fatto la scoperta che ho fatto d’esser fratello d’una sorellina buona come te, – rispose Pinocchio – sarei contento d’aver lasciato tutte le terre di questo mondo!»; così, con la scelta del protagonista di trattenersi sulla Luna e con il definitivo ricongiungimento alla sorella selenita di nome Rosina, da cui il burattino era stato accidentalmente separato alla nascita, si conclude Pinocchio nella luna, pubblicato nel 1924 (alcuni repertori segnalano una prima stampa nel 1919), presso la casa editrice Bemporad, dal padre scolopio Tommaso Catani (1858-1925). Insegnante di storia naturale alle Scuole Pie di Firenze e prolifico autore di testi scolastici e di libri per ragazzi, Catani aveva già dato alle stampe nel 1910, presso lo stesso editore, il «romanzo umoristico» Rosellino nella Luna. Mutati il titolo e i nomi di alcuni personaggi (Pinocchio e Rosina sostituiranno Rosellino e Terrina), variatane in parte la struttura narrativa (originariamente organizzati in tre parti, i trentaquattro capitoli saranno poi preceduti da didascalie riassuntive) e inseriti sparsi richiami alle Avventure collodiane, l’autore riproponeva la storia con l’aggiunta di sedici tavole a colori realizzate dal fiorentino Corrado Sarri (1886-1944), illustratore di un’edizione di Pinocchio uscita nel 1923 per i tipi della Società Editrice Toscana (su licenza temporanea della Bemporad), e poi più volte ristampata.

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Sulla scia di chi si è imbattuto nel personaggio di Pinocchio e non ha potuto fare a meno di ‘dialogare’ con lui si colloca Stefano Bessoni, scarabocchiatore (come lui stesso ama definirsi), regista e animatore romano, che nel 2014 ha proposto un’interessante e intensa riscrittura figurativa e testuale dell’originale collodiano con il suo Pinocchio. Anatomia di un burattino.

Già nel 1997 Bessoni aveva riletto l’opera di Collodi in forma di videoteatro con Pinocchio apocrifo, contaminando le avventure del burattino con influenze lombrosiane e shelleyane. In quell’occasione la ribellione della creatura forgiata dalle mani di Geppetto rimandava alla creazione in vitro dell’Homunculus di Paracelso o al perturbante Frankestein di Mary Shelley.

È lo stesso Bessoni a dichiarare della pagine del suo blog come l’anatomia, la teratologia, la patologia e altre forme di scientificità ossessiva facciano da sfondo a un nucleo di personaggi «riprodotti secondo una logica molto vicina a quella dell’uomo tardo medievale, come se Pinocchio fosse stato scritto, anziché da Carlo Lorenzini, da un sanguigno commediografo elisabettiano, per poi passare nelle mani di pittori come Bosch o Bruegel». Il primo Pinocchio bessoniano, muto e infelice, mostra i tratti del ‘delinquente nato’ di Cesare Lombroso, e su tutti aleggia il fantasma di Antonin Artaud che trasmuta il mondo in un luogo crudele e spietato, fatto di dolore e thanatos.

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 Nel 2004 escono quattro diversi formati editoriali di Pinocchio interpretato da Mimmo Paladino: un doppio portfolio di opere grafiche, il libro illustrato e il catalogo della mostra itinerante (in Giappone) che raccoglie le grafiche stesse. Tre formati per due diversi pubblici: selezionato il primo, più largo il secondo, che tuttavia può godere ugualmente delle ventisei grafiche attraverso le riproduzioni nel libro stampato, arricchito anzi dalla presenza di ulteriori immagini (nel catalogo sono riprodotte invece le grafiche senza ulteriori aggiunte).

Il rapporto che si instaura nel libro è senza dubbio affascinante: non vi è rapporto di subordinazione, ma un dialogo paritario tra testo e immagini, equivalenti anche dal punto di vista concettuale, nel restituire l’idea di ‘metamorfosi’ alla base del capolavoro collodiano. Se infatti le Avventure – romanzo di formazione per eccellenza – raccontano di un ‘passaggio di stato’, Paladino alterna sapientemente registri stilistici differenti, celando la metamorfosi nella varietà tecnica: acquerello, acquatinta, collage, acquaforte, serigrafia, rame in foglia, e tante altre ancora, dando nei fatti, attraverso le sue opere, una sensibile interpretazione di Pinocchio. È una lettura che nella sua originalità espressiva mantiene, come giustamente ha sottolineato Di Martino, «una sorta di spontaneità leggera e poetica che si addice armoniosamente alla manifestazione di ‘valori riconosciuti’ ed ‘emozioni primarie’, caratteristiche della fantasia dei bambini nella quale convivono sempre il bene e il male, la paura e la felicità, l’odio e l’amore, la tristezza e la gioia, in una parola la commistione tra il sogno e la realtà» (Di Martino, 2004, pp. 8-9).

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 In the late 1990s Pinocchio began to appear in Jim Dine’s art – for example, in the 1998 lithograph The Mezzotint Boy – bringing with him memories from the artist’s childhood, and bearing traces of his fascination with the character of the boy-puppet that he first encountered in the 1940 Disney film which he saw when he was six years old. Pinocchio is now established as one of the recurring motifs in Dine’s art, along with hearts, bathrobes, tools, birds and antique statues of Venus. Dine has now produced a series of polychrome, wooden sculptures of Pinocchio exhibited at the Pace Gallery in New York in 2006-2007, a portfolio of some forty prints based on the Pinocchio story exhibited at the New York Public Gallery during the Winter of 2006-2007 and Alan Cristea Gallery in London in Spring 2007, the closely-related illustrations to an edition of Collodi’s original text of Pinocchio published by Steidl in 2007, and even a monumental thirty-foot high bronze figure of Pinocchio for the Swedish town of Boras [fig. 1a]. Since 2012 visitors to the art museum in Dine’s home-town of Cincinnati are now greeted by a twelve-foot high bronze statue of Pinocchio with arms raised to the heavens [fig. 1b].

Things are invested with emotion by Dine, often an emotion associated with childhood: «All these objects come out of my childhood» (Jim Dine in conversation with Germano Celant and Claire Bell, in Celant-Bell, 1999, p. 156). Whether these things are the bathroom fittings sold by his family, or the tinned foods stored in cupboards during the Second World War, Dine’s memories invest them with a personal, even autobiographical quality quite distinct from the fascination with the glamour of commodities and advertising evident in Pop Art. Tools, in particular, are felt by Dine to carry a shared legacy of work in their forms: «A tool can be inspiring […] because this tool is a beautiful object in itself. It has been refined to be an extension of one’s hand, over the centuries, in a process of evolution. And it can inspire you that way» (Celant-Bell, 1999, p. 132). This feeling for objects makes them vehicles for a type of self-portraiture so that, for example, when the bristles of a house-painter’s brush are lengthened to resemble a beard from one state of an etching to another, the brush becomes a portrait of the artist as the legendary Blackbeard. Equally the image of a bathrobe found in a magazine advert becomes a reiterated form of self-likeness in works across different media. Although Pinocchio is a relatively late motif in Dine’s art, he has been present in his practice since his twenties in the form of a cherished object, a commercially produced figure of Pinocchio:

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Tradotto in più di ventotto lingue, tra cui persiano, giapponese, coreano e addirittura due lingue norvegesi, il Pinocchio di Roberto Innocenti, uscito nel 1988, ha segnato un’inversione di tendenza rispetto all’operazione compiuta sin dagli anni Quaranta da Walt Disney, che aveva scalzato Carlo Collodi dal suo ruolo di autore e imposto nel mondo la sua icona del burattino. Le tavole dipinte ad acquarello, con una perizia straordinaria, da Innocenti ripercorrono la storia autentica del burattino ambientandola nella sua terra madre, una Toscana ottocentesca raggelata e segnata dalla miseria e dalla fame. Si riscoprono così la profondità e l’inquietudine del testo originale, insieme alla sofferenza e alla violenza che erano state bandite dalla versione americana. Nel 2005 Innocenti si è di nuovo cimentato col testo collodiano: le tavole più recenti presentano una chiave interpretativa che si discosta da quelle precedenti, rivelando dimensioni meno drammatiche e impiegando colori più limpidi per descrivere, nelle più diverse forme e con straordinaria competenza architettonica, la dimensione urbana e contadina della Toscana.

Anche la tedesca Sabine Friedrichson, pubblicò il suo Pinocchio nel 1988. In origine le sue illustrazioni dovevano accompagnare l’edizione rielaborata Der neue Pinocchio di Christine Nöstlinger. Dopo essersi resa conto dei cambiamenti che l’autrice viennese aveva apportato al testo collodiano, la Friedrichson decise di ritirare il proprio lavoro, che poteva funzionare solo in un’edizione fedele al testo di Collodi. L’illustratrice si concentra infatti su un singolo dettaglio ingrandito al punto da far sparire tutto il resto, oppure forza la prospettiva in modo da cogliere solo uno scorcio in una diagonale estremamente audace. La scena dell’impiccagione, ad esempio, si focalizza sui piedi agilissimi che non toccano più terra, mentre sullo sfondo si vede solo la casetta bianca divenuta una villa tradizionale toscana.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

«Io ero convinto che Pinocchio non lo avrei mai fatto perché ce ne sono tantissimi» (Innocenti, 2014, posizione 717 di 1275). È con queste parole che Roberto Innocenti apre i suoi ricordi legati a Pinocchio, riferendosi alle sue iniziali perplessità, superate poi grazie a un’intuizione: ricollocare Pinocchio in Toscana. Nasce così una delle imprese più fortunate di Innocenti, che al libro di Collodi ha lavorato a lungo e in più occasioni, tra 1988 (data della prima uscita in Inghilterra) e 2005.

«Collocare Pinocchio in Toscana»: si tratta di un’esigenza che periodicamente riemerge tra gli illustratori di Pinocchio, tra cui ad esempio Giorgio Mannini e Piero Bernardini, quasi a identificare la dimensione insieme locale e internazionale (‘glocale’, si direbbe con un termine in voga) del burattino di Collodi, radicato in Toscana e allo stesso tempo tendente a forzare e varcare confini e frontiere spazio-temporali: dalla celebre e pluripremiata edizione del 1911, quando Attilio Mussino ambienta le Avventure a Vernante, in Piemonte, fino all’interpretazione ‘tirolese’ disneyana del 1940.

Eppure, per Innocenti non si tratta soltanto di un’attenzione filologica, ma di un’esigenza etica, che affonda le sue radici in una sorta di autoanalisi introspettiva:

Compartecipazione che diventa quindi immedesimazione, rafforzando in Pinocchio i tratti del Bildungsroman, del romanzo di formazione che lentamente diventa, grazie alla rilettura di Innocenti, romanzo di testimonianza storica. Perché «nella breve frazione di tempo che il lettore impiega a voltare la pagina, Innocenti ha già gettato fondamenta, eretto muri, elevato costruzioni» (Pallottino, 1989, p. 33), tratteggiando «un grande affresco della Toscana contadina e paesana del secolo scorso, dei suoi modi di vita, quotidiani e straordinari» (Rauch, 1989, p. 46).

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