Categorie



Questa pagina fa parte di:

Può l’arte precorrere la realtà? Può l’invenzione drammatica auscultare e poi manifestare, nella contemporaneità senza confini e distanze, nell’oggi del ‘liberi tutti’, la ventura perdita di libertà, la privazione di spazio, l’estenuante dilatazione di tempo?

In anticipo sulla catastrofe di fine ventennio, il nostro, che ancora altera la percezione del tempo e l’autonomia negli spostamenti, il teatro di Emma Dante, per anni, da anni, stava già portando in scena il senso claustrofobico del limite, reale o immaginario, dello spazio chiuso, affollato dai vivi e dai morti, del luogo di transito tra le due condizioni.

Il Bestiario teatrale (Rizzoli, 2020) della Dante si è drammaticamente riproposto negli ultimi anni nella realtà di molti; gli incubi proposti dalla regista sono divenuti atroci situazioni familiari deflagrate, orrori consumati nel chiuso di appartamenti; confermando amaramente, ancora una volta, l’universalità e la capacità di scandaglio antropologico della macchina teatrale, quando questa è alimentata da autenticità.

Bestiario teatrale è una raccolta di ‘drammaturgie per libro’, curata da Anna Barsotti, davvero molto particolare e presenta la produzione dell’autrice palermitana dal primo grande successo di mPalermu del 2001 al più recente Le sorelle Macaluso del 2014, spettacolo che riprende il discorso mai sospeso sulla famiglia, quella siciliana in particolare. I testi teatrali sono introdotti dalla prefazione di Andrea Camilleri, breve e vibrante analisi stilistica dei testi della sua stimata conterranea, e da un dittico di saggi firmati da Giorgio Vasta e da Elena Stancanelli, che descrivono il teatro e la storia della compagnia e incidono nell’intimità quotidiana del lavoro dell’autrice. La Dante stessa, un attimo prima che gli attori prendano la parola, arricchisce il libro con un commento, quasi artaudiano, in cui presenta la missione teatrale dell’attore.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Come si racconta la bellezza dell’opera lirica oggi? Laddove con bellezza si intende l’esperienza estetica che non si appoggia acriticamente all’autorevolezza del canone lirico, ma nemmeno cerca soluzioni consolatorie che rendano più digeribili l’orrore e la sofferenza raccontati dal melodramma. Questa è la questione cruciale che il saggio pone e alla quale prova a rispondere percorrendo un doppio binario. Da un lato il ricorso al pensiero della critica femminista francese e della new musicology anglosassone, che hanno considerato i nodi problematici della narrazione operistica in relazione alle sue politiche di genere; dall’altro l’analisi miratamente calibrata in quest’ottica di quattro allestimenti del teatro musicale contemporaneo (Carmer di Emma Dante, Don Giovanni di Robert Carsen, Rigoletto di Damiano Michieletto, Un ballo in maschera di Grahm Vick) che, mettendo l’opera in dialogo interstuale con altre forme artistiche, affrontano la più ardua sfida del presente opersitico: raccontare la violenza e l’orrore che sono il cardine dell’esperienza estetica del melodramma, e dunque provare a farne, ancora e di nuovo, sollecitazione insieme etica ed estetica, esperienza di bellezza.    

How is the beauty of opera told today? Where beauty means the aesthetic experience that does not uncritically rely on the authoritativeness of the opera canon, but neither does it seek consolatory solutions that make the horror and suffering narrated by melodrama more digestible. This is the crucial question that the essay poses and to which it tries to respond by following a double binary. On the one side, there is the recourse to the thought of French feminist criticism and of the Anglo-Saxon new musicology, which have deal with the problematic nodes of opera narration in relation to its gender politics; on the other side, the analysis of four productions of the contemporary musical theater (Carmer by Emma Dante, Don Giovanni by Robert Carsen, Rigoletto by Damiano Michieletto, Un ballo in maschera by Grahm Vick) which, by placing opera in an intertextual dialogue with other artistic forms, face the most difficult challenge of the operistic present: to recount the violence and the horror that are the fulcrum of the aesthetic experience of melodrama, and thus to try to make it, one again, a solicitation that is both ethical and aesthetic, an experience of beauty.

In occasione della prima del suo Otello in scena al San Carlo di Napoli nel dicembre 2021, il regista Mario Martone dichiara:

La domanda del regista napoletano non nasce esclusivamente dal suo confronto personale con il capolavoro verdiano, un vero e proprio ‘corpo a corpo’ da cui è emersa una Desdemona combattente e affatto angelicata, protagonista di un finale profondamente perturbante e innovativo (come racconta su queste stesse pagine Massimo Fusillo). Quella sollevata da Martone è infatti una necessità che anche nel mondo della lirica è diventata ormai ineludibile: quella di confrontarsi con i nodi politici che sostengono la narrazione operistica, e in particolare con le sue politiche di genere.

Che l’opera lirica, e in particolar modo il melodramma ottocentesco, sia una estenuante litania di morti di donne eccezionali è noto almeno a partire da L’opera lirica, o la disfatta delle donne della femminista francese Catherine Clément (1979), che aveva puntato il dito senza remore contro le dinamiche intrecciate di sadismo e misoginia che permettono al melodramma popolare di celebrare personagge meravigliosamente eccentriche solo per poi godere della loro morte, tragica e spesso cruenta:

La chiave, per Clément, è proprio nel libretto, che nel suo ruolo apparentemente ancillare rispetto alla pervasività emotiva della musica riesce a far sedimentare in maniera quasi surrettizia il messaggio ideologico: le donne che trasgrediscono l’ordine patriarcale, che desiderino ad esempio la redenzione pur essendo prostitute (Violetta in La traviata); la libertà di lasciare un uomo che non amano più (Carmen); ribellarsi alla violenza anche sessuale del potere (Tosca); o semplicemente essere amate, «di un bene piccolino», e non solo usate come esotici oggetti sessuali (Madama Butterfly)… Tutte devono morire; di una ‘bella morte’ certo, perché su quel cadavere si stabilizzano le ambivalenze, si instaura il confine tra il sé e l’altra, tra il normativo e l’abietto. È inevitabile che il ‘canone’ di Clément sia strategicamente essenzialista, e volutamente ignori ad esempio l’opera buffa, dove la ribellione delle donne di norma viene premiata (spesso con un marito ricco), o l’opera barocca, dove i molti ruoli en travesti rendono il binarismo di genere più fluido, aperto a incarnazioni stratificate e antinormative, come racconta un’altra femminista francese (autrice con Clément del fondamentale La jeune née), Hélène Cixous nel suo Tancredi continua.[3]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Nel teatro di Emma Dante i suoi «individui scenici», abitano uno spazio completamente vuoto, privo (o quasi) di scenografia, con pochi oggetti evocativi a disposizione. Diverso è il caso quando la stessa Dante deve misurarsi con l’opera lirica che si confronta con uno spazio scenico molto grande, con cantanti e masse di coristi e con libretti che riportano precise indicazioni. La collaborazione, a partire dal 2010, con Carmine Maringola, attore, architetto e compagno di vita, ha consentito a Dante di lavorare su un’idea di spazio scenico sempre più prossimo a un luogo delle visioni, ispirato a scorci reali ma aperto alla fusione di suoni, corpi, animalità, tragico e comico.

In Emma Dante’s theatre, her «scenic individuals» inhabit a completely empty space, with no (or almost no) set design and few evocative objects at their disposal. The case is different when Dante herself has to measure herself against opera, which is confronted with a very large stage space, with singers and masses of choristers and with librettos that contain precise indications. Since 2010, the collaboration with Carmine Maringola, actor, architect and life companion, has enabled Dante to work on an idea of stage space that is increasingly closer to a place of visions, inspired by real views but open to the fusion of sounds, bodies, animality, tragedy and comedy.

Il fenomeno di mediatizzazione del teatro[1] è uno dei processi più ambigui e interessanti da mappare per le tante contraddizioni che si sono succedute a partire almeno dalla svolta delle avanguardie storiche e che insistono ancora nel presente, se si pensa che la scena contemporanea da una parte rimane salda nella sua opposizione rispetto ai media, mentre dall’altra si caratterizza come contesto di sviluppo delle arti multimediali.

In questo contesto, Emma Dante ha pervicacemente difeso il suo essere «artigiana», continuando a impiegare tutti quegli «strumenti essenziali»[2] – compresi i ‘relitti’ di kantoriana memoria – capaci di aprire la scatola magica del teatro per mostrare allo spettatore la quintessenza di uno spazio in grado di evocare lo stupore dello sguardo. Quello di Dante è fin dagli esordi un teatro in cui le relazioni spaziali mutano in una «dialettica del fuori e del dentro, lacerante».[3] Questa spirale del dentro-fuori, della scena-sala, della ribalta-soglia, invalicabile dagli astanti (da mPalermu a Le sorelle Macaluso), rappresenta la circolarità dell’essere in tutte le sue forme; un essere entre-ouvert che qui tradurremo con ‘socchiuso’, formula che rimanda a un binomio strutturale nel quale troviamo tutti gli elementi del rapporto con il circostante e quindi con l’identità del sé.

«Chiuso nell’essere» – dice Bachelard – «bisognerà sempre che ne esca, appena uscito dall’essere, bisognerà sempre rientrarvi. In tal modo nell’essere, tutto è circuito, tutto è rigiro, tutto è ritorno, discorso, tutto è uno sgranarsi di soggiorni, tutto è ritornello di strofe senza fine».[4] Gli spettacoli di Dante, fin da mPalermu, sembrano obbedire a questa logica, assecondando una sensazione claustrofobica: manifestano sempre una suggestione opprimente di chiusura, quasi senza via di uscita, anche se non smettono di tendere verso un ‘altrove’. I suoi individui scenici si muovono in uno spazio in cui non ci sono porte o finestre, in cui non ci sono quinte, e la ragione di tale scelta è spiegata dalla stessa regista: «se non metti nessuna quinta […] abolisci il problema del dietro, del davanti, dei lati. E quindi ti trovi inevitabilmente in un “altrove”: sei in un altro posto e questo altro posto non ha porte e non ha finestre, e non ha tetti e non ha pavimentazione. Lo puoi fare diventare quel che vuoi».[5] L’astrazione letterale e simbolica degli ambienti è un segno ricorrente delle regie di Dante, come attestato anche dai più recenti spettacoli di prosa, Misericordia (2020) e Pupo di zucchero (2021); quel che deve e può accadere «sa di poter esistere solo su un palcoscenico spoglio»,[6] di poter tendere alla scena vuota. Il boccascena, reso invalicabile da una stretta lingua di luce (si pensi a Bestie di scena e alla collaborazione ventennale con Cristian Zuccaro i cui impianti illuminotecnici diventano in filigrana l’intelaiatura di una scenografia ‘trasparente’), spinge gli interpreti, soli o in schiera, a creare quel vis-à-vis con lo spettatore che Dante ha saputo muovere verso punte di grande intensità. Ne deriva un impianto frontale in cui i personaggi si rivolgono a ciò che hanno davanti a sé, alla platea, anche quando le dinamiche che regolano i loro rapporti si fanno più intense o concitate, come se fossero prigionieri di una relazione con un aldilà scenico. In ogni caso l’invisibilità delle strutture viene superata dalle traiettorie degli interpreti, dal ‘farsi corpo’ delle parole, dalla scarna materialità di oggetti-feticcio che insieme costituiscono una vera e propria «scenografia degli organismi»,[7] secondo l’icastica definizione di Rodolfo di Giammarco.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

La seconda prova cinematografica di Emma Dante prende le mosse dall'omonimo spettacolo ma la drammaturgia dei corpi e degli spazi vira subito verso una dimensione intimamente cinematografica, affidata a millimetriche transizioni temporali e a un intenso gioco performativo che vede coinvolte dodici interpreti, sensibili a una serrata grammatica di movimenti. La lettura che qui si propone mira a recuperare la matrice del dispositivo sororale e la dimensione 'materiale', organica della trama visuale, esposta ai danni della luce e del tempo.

Emma Dante's second direction test is derived from the show of the same name, but the dramaturgy of bodies and space quickly shifts towards a quintessentially cinematographic dimension, made of instant temporal transitions and an intense acting game with 12 performers who follow a fast-paced grammar of movement. The interpretation proposed here is an attempt to retrace the scheme of the sorority  theme and the material, organic dimension of the visual plot, exposed to the damages of light and time

 

 

«Non ci si dice molto perché

non c’è molto da dire, ogni

volta

è come se ci inseguisse

qualcosa».

Riccardo Frolloni, Materiali II

 

 

La scrittura franta di Riccardo Frolloni può essere la giusta porta d’accesso alla geografia emotiva e fisica de Le sorelle Macaluso, seconda prova cinematografica di Emma Dante che, dopo il debutto veneziano, ha appena conquistato cinque prestigiosi Nastri d’argento. Entrare dentro gli spazi di questo film attraverso la lente di Frolloni significa fare innanzitutto i conti con il perimetro degli interni, continuamente esposti a epifanie d’altrove: un verso della lirica Materiali I – «la casa era prima di terra e poi / d’aria»[1] – consente di inquadrare con un solo movimento quella che a tutti gli effetti sembra essere la promessa su cui si fonda la riscrittura per immagini della pièce, ovvero la possibilità che le protagoniste possano davvero trasformarsi in «uno stormo di uccelli che partecipano al proprio funerale e a quello degli altri».[2] La dimensione del lutto, a cui si accompagna una comunità di affetti e ricordanze fra vivi e morti, appartiene del resto al codice drammaturgico di Dante da sempre, per un’intrinseca vocazione al tragico mitigata a tratti da una controspinta umoristica, secondo un principio di contraddizione che insiste irrimediabilmente in quella lancinante ‘terra di teatro’ che è la Sicilia. Ereditando il sangue e gli spasmi di una imagery intimamente isolana, Dante attribuisce alle sue figure, e in particolare alle sorelle Macaluso,[3] un’ansia di assoluto che confligge con gli umori terragni, con la cupa violenza di ogni liturgia familiare, e così al centro dell’azione performativa si ritrova spesso lo scarto tra la furia del vivere e la disperazione del morire.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

Il saggio si fonda sull’analisi drammaturgica e performativa di Le sorelle Macaluso, quarto tassello della «Trilogia della famiglia siciliana», per cui la tetralogia del mondo classico assume le valenze contemporanee d’una alternanza o contaminazione di riso e di pianto, confermando il tragicomico come tratto distintivo del teatro della Dante e del suo rinnovato, ma anche riconoscibile, ensemble. È possibile, infatti, ritrovarvi attori co-autori fondativi assieme alle reclute, che la formazione implacabile eppure amorosa della capo ciurma rende capaci di sfinirsi senza perdere in scena il controllo del proprio corpo come delle emozioni. Si mostra, quindi, come certi riferimenti ad autori e registi rivoluzionari del panorama internazionale novecentesco e odierno (Kantor o il Tanztheater della Bausch) siano da ridimensionare alla luce d’una concretezza metamorfica e psicofisica che affonda le radici nella cultura originaria dell’artista siciliana, riemergendo attraverso segni che, attraverso l’evocazione d’un mondo teatrale in cui risalta la confidenza atavica fra vivi e morti, raggiungono effetti di straordinaria e peculiare originalità.

The essay aims to provide a dramaturgical and performative analysis of Le sorelle Macaluso, the fourth piece of the "Trilogy of the Sicilian family" by Emma Dante, that give to the classical pattern of tetralogy some contemporary values, such as the alternation or contamination of laughter and crying, and that confirms the tragicomical register as a distinctive feature of Emma Dante and her renewed, but recognizable, ensemble. It is possible, in fact, to find here again actors and co­founders together with new recruits, enabled to tire out without losing control of their body and soul thanks to the relentless yet loving training of the crew chief. It is therefore shown how certain references to revolutionary artists of the twentieth-century scene (Kantor or Pina Bausch, above all) are to be scaled down in the light of a metamorphic and psychophysical concreteness which has its roots in the original culture of Emma Dante, and re­emerge through signs of astounding and peculiar effectiveness, through the evocation of a theatrical world in which the primordial confidence between living and dead stands out.

1. Il cerchio magico

Sull’orlo del buio, un buio che inghiotte e risputa le creature d’una famiglia dantiana, stavolta confusa fra vivi e morti, s’anima la «liturgia» performativa di Le sorelle Macaluso;[1] prevale, infatti, in questa mPalermu rievocata e riscritta alla luce della stessa ribalta/soglia invalicabile dagli astanti, la penombra, perché il ‘personaggio in più’ è appunto la Morte, che fin dall’inizio (nascostamente) genera personaggi/persone intesi a lottare fra di loro e soprattutto con essa per sopravvivere nella sfera d’una memoria individuale e collettiva, che ha il senso d’una rivalsa più che tradizionale, antropologica dell’Opera dei Pupi. Quella simulata da quattro personaggi nerovestiti: dopo l’a solo d’una quinta ballerina, attratta e respinta da un crocifisso (come la Madre di Vita mia), le marionette umane duellano con spade e scudi d’argento di fattura artigianale, che deposti a terra, sul filo del boccascena, assomiglieranno a lapidi luccicanti.

La struttura dell’opera è circolare, con la danza della quinta morta – ma ancora non lo sappiamo, e neppure lei lo sa – s’apre, con la sua danza si chiude, cambiando di segno: fluida e piena di grazia all’inizio, sebbene la ballerina indossi pantaloni, camicia e scarpe nere che potrebbero impacciarne i movimenti; segmentata da una basica rigidità, da marionetta o pupo, alla fine, sebbene Maria (è il nome della sorella defunta) si spogli via via della divisa a lutto, raggiuga una nudità lunare per infilarsi, a fatica, in un candido tutù di tulle. Ma è proprio quel costume che le rivela, nell’epilogo, che «allora ’stu funerale» è il suo («Sugno io?», p. 83); perché, recita la didascalia, «Tutti i morti indossano il vestito dell’ultimo istante della loro vita che corrisponde al loro desiderio, al loro sogno» (ibid.).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Emma Dante ha ormai una intensa esperienza nel campo della regia d’opera e con Macbeth (2017) conferma la vocazione verso uno stile visivo di grande impatto e una recitazione fortemente corporea. Il saggio esplora tre livelli della composizione registica dell’opera – il livello fisico-gestuale, il livello rituale, la commistione fra tragico e comico – e concorre a restituire l’ampiezza di rimandi figurativi e simbolici.

Con il Macbeth co-prodotto dal Regio di Torino, dal Massimo di Palermo e dallo Sferisterio di Macerata (2017), e presentato al Festival di Edimburgo dove ha ottenuto l’Angel Herald Award, Emma Dante si confronta anche inevitabilmente con il genere della tragedia, e con una delle sue realizzazioni più radicali. La sua radicalità scaturisce dall’empatia negativa per il protagonista in preda a conflitti e ossessioni dilaceranti: è un viaggio mentale negli strati più oscuri e notturni della psiche. Non è un caso che questo spettacolo abbia punti di contatto con un’altra esperienza della regista palermitana in ambito tragico, la Medea, un testo altrettanto ricco di empatia negativa e di conflittualità psichica ed etnica.

Anche in questo caso, come nelle regie d’opera precedenti, Emma Dante integra il cast operistico con un gruppo di attori e danzatori, provenienti in parte dalla sua Compagnia, in parte dalla Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo. Crea così un altro testo parallelo, che si incrocia con quello primario, potenziandone e sviluppandone alcuni nuclei tematici che ora ripercorreremo. Ne scaturisce uno spettacolo corale, potente e dinamico, ricco di registri stilistici poliedrici.

Il primo nucleo è la presenza corporea: quella fisicità degli attori che il teatro di Emma Dante sfrutta fino ai limiti estremi. È infatti un Macbeth strettamente legato alla sfera del sangue, della generazione, del corpo grottesco, e quindi di quell’immaginario popolare ed atavico messo in luce da Michael Bachtin. Tutto ciò risalta soprattutto nelle due grandi scene dedicate alle streghe, rappresentate incinte e accompagnate da uomini con grossi falli con cui si uniscono sessualmente in modo frenetico.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli esperimenti di traduzione scenica di favole e miti con risultati compositivi davvero interessanti. Anche Emma Dante non è rimasta insensibile al fascino della fiaba e con Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve e La bella Rosaspina addormentata si accosta all’elemento fiabesco ironizzando e capovolgendo stereotipi di genere e luoghi comuni (le tre fiabe sono poi confluite in un interessante progetto di riscrittura testuale e visiva per i tipi Baldini&Castoldi, grazie alle tavole illustrate di Maria Cristina Costa). Il saggio punta l’attenzione su questi tre spettacoli che ripropongono gli stessi ingredienti delle sue messe in scena: recitazione, provocazione, corpo, fisicità, immaginazione, parola. 

Over the last few years, the experimentation of turning fables and myths into stage productions has grown in number with very interesting results. Even Emma Dante has not been insensitive to the charm of the fairy tale, and with Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve and La bella Rosaspina addormentata, approaches the fairy tales ironically, flipping stereotypes of gender and changing locations (the three fairy taleshave then come to an interesting textual and visual rewrite project for the Baldini & Castoldi types, thanks to the illustrated tables of Maria Cristina Costa). This essay focuses on the three shows that are part of that constant search in which Dante inserts all her performing elements: acting, provocation, body, imagination, word. 

1. C’era una volta…

«Le fiabe sono vere» scriveva Italo Calvino nell’introduzione alle Fiabe italiane, «sono, prese tutte insieme […], una spiegazione generale della vita…». Il teatro ha accolto fin dalle origini la suggestione di temi e storie ‘orali’ e nel corso della sua evoluzione ha messo a punto strategie retoriche sempre più convincenti nella resa di fiabe e racconti. Se il mythos tragico ha costituito la matrice autentica della fondazione di una prassi drammaturgica e scenografica, il Rinascimento ha contribuito alla codificazione di un nuovo genere che già nella sua titolazione richiama la forza e la pregnanza delle fabulae. La «favola pastorale» rappresentava infatti il tentativo di contemperare elementi propri della tradizione classica con un vitale slancio compositivo legato agli umori e alle sfrenatezze di corte; si trattava di delectare il pubblico attraverso exempla di ordine moraleggiante: il teatro era già inteso come arte fecondamente paideutica. Il barocco avrebbe aggiunto a tale quadro paradigmatico l’ossessione per quella ‘poetica della meraviglia’ che, oltre a stimolare una straordinaria profusione di ‘effetti speciali’, richiamava da vicino le atmosfere incantevoli di leggende e archetipi mitologici.

La progressiva costituzione di repertori fiabeschi rende gli intrecci tra favole e teatro ancor più stringenti al punto che è difficile separare nettamente i due ambiti: la magia della scena fa sì che ogni storia si trasformi in sogno (o in incubo), come del resto testimonia la grandezza delle invenzioni shakespeariane. Dobbiamo arrivare all’Ottocento per assistere ad una grande fioritura della fiaba. Il danese Andersen, i fratelli tedeschi Grimm, il russo Afansjeu ci hanno lasciato le più belle fiabe del secolo. In Italia, Collodi riscrive nei suoi Racconti delle fate le fiabe immortali del francese Perrault, dando ad esse una vivacità tutta toscana. Luigi Capuana, pur essendo il caposcuola del verismo, considera le fiabe come una porta da tenersi sempre aperta sull’irrazionale e sul fantastico. Infine, Giuseppe Pitrè, sempre interessato alle tradizioni regionali italiane, trascrive nelle sue Novelle antiche fiabe raccolte dalla viva voce della gente.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

 

Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Il lutto si addice a Emma Dante. Basti pensare al finale folgorante di mPalermu, con la morte in scena di nonna Citta, che gela il tetro entusiasmo della famiglia Carollo vanificando l’ennesimo tentativo di uscire fuori dalla casa-prigione. E che dire della resurrezione solo sognata di Vita mia, forse il testo più commovente, in cui lo strazio della madre per la perdita del figlio raggiunge i toni dell’elegia e della farsa, grazie al fecondo equilibrio fra tormento e immaginazione. Altrettanto crudele, e non meno funerea, appare la recita straniata di Paride, protagonista del Festino, per quel tono incombente di tragedia risolto splendidamente nella rivelazione estrema di una colpa (la morte involontaria del fratello gemello) e di un bruciante senso di solitudine (sublimato appunto nel play within the play).

Con Le sorelle Macaluso, approdato al Biondo di Palermo dopo un mese dal debutto napoletano, Dante torna a misurarsi con quella che può dirsi ‘la terra del rimorso’, un paesaggio infestato dalle ombre dei vivi e dei morti, una soglia magica di visioni e abbandoni. Non si limita a ‘restaurare’ segni già codificati, nonostante un’evidente linea di continuità con le precedenti forme di pathos, ma propone una maniera nuova di mettere in scena i nodi dell’esistenza.

Per una coincidenza propizia, poco prima di assistere allo spettacolo visito – qualche metro più in là del Biondo – l’esposizione permanente di Palazzo Riso. Qui trovo una collezione di opere (I protagonisti internazionali in Sicilia) che mette in moto (per quelle strane epifanie dell’arte) una serie di prodigiose corrispondenze con la nuova direzione della scrittura scenica di Dante. La prima installazione a suggerirmi una delle possibili chiavi di lettura dello spettacolo è Cappotti neri di Christian Boltanski: una fila di piccole lampadine inchioda alla parete una giacca e una paio di pantaloni di scena, neri – come suggerisce il titolo. L’evanescenza, la transitorietà della vita e dell’arte è espressa attraverso la limpida evidenza del segno; l’abito è la traccia fantasmatica del corpo ormai assente, cancellato dal tempo. Allo stesso modo, nello spettacolo di Dante, i costumi sono un prezioso indizio identitario. Nel loro primo ingresso in scena tutti i personaggi indossano abiti scuri, salvo poi iniziare un frenetico rito di svestizioni che, oltre a stupire per un calcolato effetto metateatrale, rivelerà la precisa consistenza del loro stare al mondo: i vivi di lì alla fine indosseranno nuovamente i loro completi scuri, luttuosi, mentre i morti sfoggeranno i colori sgargianti delle loro ‘divise’. Ad ogni modo, il contrasto delle tinte accende i ricordi, confonde i piani di realtà e memoria, guida lo spettatore dentro uno sfavillante sogno ad occhi aperti.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2