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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Nel 2003 due collezionisti ritrovano, in un flea market di Manhattan, una scatola contenente centinaia di polaroid, scattate nella cittadina di Hunter (NY) e risalenti agli anni Sessanta. È l’inizio della storia pubblica di Casa Susanna. Riemerge un vero e proprio mondo, rimasto sommerso per cinquant’anni: luogo sicuro per donne trans, persone non binarie e travestiti – in anni in cui la rivoluzione sessuale e il primo attivismo queer erano ancora di là da venire –, Casa Susanna trasformava il contesto della casa borghese di una cittadina della provincia americana in un’autentica eterotopia, all’interno della quale poter sperimentare forme di identità non concesse altrove. Adottando una metodologia che si pone a cavallo tra i visual studies, i queer studies e la teoria della fotografia, le autrici intendono esplorare i complessi atti di sovversione che avvengono nel microcosmo-salotto di Casa Susanna, sospeso tra l’assimilazione del modello domestico patriarcale della cultura di massa, e la creazione di un’identità fotografica e performativa che qui disegna e scopre i propri margini di libertà.

In 2003 two collectors found, in a flea market in Manhattan, a box containing hundreds of polaroid, taken in the small town of Hunter (NY) and dating back to the 1960s. This is the beginning of the public history of Casa Susanna. An entire world, remained unknown for fifty years, resurfaces: a safe place for trans women, non-binary people and transvestites – when the sexual revolution and the queer activism were still to come –, Casa Susanna transformed a middle-class house in a small provincial town into an authentic heterotopia, within which one could experiment forms of identity not allowed anywhere else. Employing a methodology that crosses visual studies, queer studies, and theory of photography, the authors aim to explore the acts of subversion that took place in the microcosm-living room of Casa Susanna, suspended between the assimilation of the patriarchal domestic model of mass culture, and the creation of a photographic and performative identity that only there was able to draw and discover its own margins of freedom.

1. La fotografia come pratica identitaria

Nel 2004 Robert Swope e Michael Hurst recuperano in un flea market di New York 340 fotografie realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Sono foto di donne trans, persone non binarie e cross-dresser, che posano sorridenti davanti a un obiettivo, in abiti femminili. La maggior parte è stata realizzata allo Chevalier d’Eon (1955-1963) e a Casa Susanna (1964-1969), due resort diretti da Susanna Valenti nella periferia dell’Upstate New York. Nello spazio messo a disposizione da Valenti si potevano sperimentare in sicurezza forme di identità non concesse altrove. Se al di fuori del resort i soggetti conducevano vite ordinarie e male-presenting, allo Chevalier d’Eon prima, e a Casa Susanna poi, potevano indossare parrucche e truccarsi, senza imbarazzo né timore. Qui si riuniva la comunità statunitense di cross-dresser, libera di impersonare alter ego femminili, senza cadere vittima dei dispositivi di controllo e regolamentazione del genere che caratterizzavano la società americana (De Leo 2021).

In questo contesto, la fotografia svolge un ruolo cruciale. Non si tratta della semplice documentazione di momenti all’interno della casa, ma di un attestato di esistenza per le identità femminili, che potevano essere esibite solo in quello spazio. Il medium fotografico appare lo strumento perfetto per la negoziazione identitaria (Hackett 2018), offrendo consistenza alle esperienze limitate ai fine settimana nel resort. I soggetti fotografati posavano esplorando con consapevolezza gli stereotipi femminili, adottando precise strategie estetiche per alimentare la narrazione della loro quotidianità. È la stessa Susanna a confermare la centralità della fotografia come garanzia di naturale femminilità, al pari – se non di più – di trucco e abiti (Valenti 1962). Valenti attribuiva il merito di un simile risultato a Edith Eden, ospite frequente dello Chevalier d’Eon, e fotografa amatoriale. All’interno della raccolta in analisi, nove stampe ai sali d’argento sono opera di Eden, denotando anche una certa ricerca stilistica, seppure dilettantesca. L’unica altra autrice identificata degli scatti è Andrea Susan. Come riporta il «New York Times», Susan disponeva di una camera oscura all’interno del resort, per evitare di far circolare i negativi all’esterno (Green 2006). Le restanti foto (280) non sono riconducibili a un’unica mano: le ospiti si passavano l’apparecchio, giocando davanti e dietro l’obiettivo. Eppure, come già Swope segnalava, senza conoscere molto delle foto rinvenute, uno spirito comune le informa: «Il senso della comunità, la tenerezza, la giocosità e molto spesso uno sguardo franco rivolto alla camera, come a dire: sì, questa sono io. Sono come te» (Swope 2005, p. 1) [fig. 1].

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  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

L’opera, ascrivibile al fenomeno della letteratura della migrazione in lingua italiana nata negli anni Novanta, è una storia di migrazione e di identità sessuale al confine, ed è genesi transmediale di ulteriori produzioni artistiche. Porre in evidenza la struttura narrativa del romanzo, la presenza di un narratore ibrido, nascosto dietro l'alternanza della prima e della terza persona, la coloritura della lingua ‘abitata’ che segue il generarsi di una scissione identitaria, la presenza di personaggi appartenenti ad abbozzate microtrame che disegnano una mappa del dolore di corpi non più costretti a silenziare identità, tutto ciò serve da una parte a ricollocare il romanzo alla giusta distanza dalle opere che ha generato, dall’altra – e soprattutto – a rintracciare il filo narrativo che disegna la sovraesposizione dell’accettazione identitaria alla luce abbagliante di un corpo transgender. L’opera, ascrivibile al fenomeno della letteratura della migrazione in lingua italiana nata negli anni Novanta, è una storia di migrazione e di identità sessuale al confine, ed è genesi transmediale di ulteriori produzioni artistiche. Porre in evidenza la struttura narrativa del romanzo, la presenza di un narratore ibrido, nascosto dietro l'alternanza della prima e della terza persona, la coloritura della lingua ‘abitata’ che segue il generarsi di una scissione identitaria, la presenza di personaggi appartenenti ad abbozzate microtrame che disegnano una mappa del dolore di corpi non più costretti a silenziare identità, tutto ciò serve da una parte a ricollocare il romanzo alla giusta distanza dalle opere che ha generato, dall’altra – e soprattutto – a rintracciare il filo narrativo che disegna la sovraesposizione dell’accettazione identitaria alla luce abbagliante di un corpo transgender. 

The essay focuses on the need to measure the boundary between documentary autobiography and autobiographical fiction in the novel Princesa (1994), starting from the analysis of its complex genesis, which sees the author Fernanda Farias de Albuquerque in connection with the journalist Maurizio Iannelli, through the mediation of correspondence books with a third figure. The work, ascribable to the phenomenon of Migration Italian Literature in the nineties, is a story of migration and sexual identity on the border, and is the transmedia genesis of further artistic productions. To highlight the narrative structure of the novel, the presence of a hybrid narrator hidden behind the alternation of the first and third person, the coloring of the ‘inhabited’ language that follows the generation of an identity split, the presence of characters belonging to sketched little plots that draw a map of the pain of bodies no longer forced to silence identity, all this serves on one hand to relocate the novel to the right equidistance from the works it generated, on the other – and above all – to trace the narrative thread that draws the overexposure of identity acceptance to the dazzling light of a transgender body.

 

 

1. Premessa

Si prenda in prestito dalla tecnica fotografica il meccanismo della sovraesposizione della pellicola. Com’è noto, quando in fotografia si sovraespone, le tendine dell’otturatore scorrono più lentamente facendo arrivare più luce sulla pellicola per ottenere maggiori dettagli nelle ombre e colori più densi. Ma se si è avventati e imprecisi, la sovraesposizione ha l’effetto rischioso di ‘bruciare’ la foto rendendo vano il tentativo di fermare un’immagine e consegnarla a chi la guarda. Ecco, sembra che della vita e della scrittura di Fernanda Farias de Albuquerque si sia fatto questo: una sovraesposizione per arricchire dettagli e colori che ha rischiato – rischia – di bruciare la consistenza della sua figura. Rischio che forse corrono Maurizio Jannelli, co-autore (?) del romanzo Princesa insieme alla protagonista Fernanda (Sensibili alle foglie, 1994), Stefano Consiglio, autore del documentario Le strade di Princesa (1997), Henrique Goldman, regista del film Princesa (2001) e, in parte, Fabrizio De Andrè che a due anni dalla pubblicazione del romanzo compone la canzone Prinçesa (contenuta nell’album Anime salve, 1996).[1] È importante capire però i motivi che orientano il giudizio critico verso l’uso di una sovraesposizione non pienamente consapevole.

La fotografia di Fernando/Fernanda/Princesa, per rimanere nella nostra metafora, è bruciata non per gli occhi di chi vuole leggere la storia della vita dell’autrice-protagonista e della sua triplice identità soltanto come un’opera di autofiction, Fernando/Fernanda/Princesa, perché il lettore viene messo nella condizione di sapere che si trova dentro un processo di finzionalità, sia nel romanzo, sia nelle altre derivazioni artistiche che da quello hanno preso le mosse, a costruire concrezioni di significato; lo scatto è bruciato agli occhi di chi percepisce che la storia di Princesa ci introduce a uno spazio culturale che, così come ci viene consegnato, rischia di essere refrattario alla possibilità di una lettura non asfittica della trans e del personaggio Princesa. Questa al contrario, anzi, può essere considerata e letta secondo una prospettiva queer se debitamente spogliata dagli agglutinamenti delle produzioni artistiche.

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Nina's, Queen Lear

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Formatesi nel 2007 al Teatro Ringhiera di Milano da un’intuizione di Fabio Chiesa, le Nina’s sono un collettivo teatrale en travesti che, grazie al fortunato incontro con Francesco Mieli – regista di opera lirica edirettore artistico del gruppo –, ha saputo creare un proprio linguaggio imperniato sulla plasticità e teatralità del performer drag queen, facendone il fulcro della propria ricerca estetica. Nasce così un fare teatro che inchioda lo spettatore di fronte agli interrogativi della contemporaneità e lo spinge a confrontarsi con il proprio senso identitario e comunitario; un’estetica imperniata sull’elemento corporale dove l’eccesso non è però mai fine a se stesso, ma diviene piuttosto uno sguardo sagace sulla realtà e uno strumento di sottile critica sociale. Dopo il successo delle prime riscritture di grandi classici teatrali – Il giardino delle ciliegie (Anton Chekhov, 2012), L’opera del mendicante (John Gray, 2015), Vedi alla voce Alma (Jean Cocteau, 2016) –, il 10 gennaio 2019 la compagnia ha debuttato al Teatro Carcano di Milano con la rivisitazione queer di una tra le più celebri e luttuose tragedie shakespeariane, un Re Lear calato in chiave contemporanea dove il sovrano del titolo è una signora affetta da demenza senile e la brughiera una Gran Bretagna pre-Brexit alle prese con i migranti.

Queen Lear attinge apertamente a situazioni e personaggi della tragedia di Shakespeare, sempre adattandoli però ai nostri giorni. Le drag queen interpretano i personaggi shakespeariani entrando ed uscendo dalla propria parte di continuo, dimodoché la loro esperienza personale in quanto interpreti (queer) che rivestono ruoli drag diviene essa stessa materia narrativa: “Di rimorsi / di rimpianti / tempo più non è / per guardare ancora avanti”; “L’avventura di una vita / spiegare non si può / nelle cose che hai lasciato”.

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Nel Convegno Internazionale Sconfinamenti di genere. Donne coraggiose che vivono nei testi e nelle immagini (Crossing Gender Boundaries. Brave Women Living in Texts and Images), svoltosi, a cura di Cristina Pepe e Elena Porciani, dal 26 al 28 novembre 2019 a Santa Maria Capua Vetere presso il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università della Campania ‘Luigi Vanvitelli’, molteplici sono state le voci impegnate ad attraversare millenni di cultura occidentale per approdare dall’epoca classica sul suolo della contemporaneità: alla scoperta o riscoperta di quei personaggi femminili che sono fuoriusciti dal binarismo di genere e dalle sue regole sessuali e comportamentali, riconducibili ai pregiudizi dell’infirmitas sexus e della levitas animi. Non per questo non è stato possibile mettere a fuoco, negli oltre trenta contributi, di cui tre affidati alle keynote speaker Jacqueline Fabre-Serris, Ita MacCarthy e Gloria Camarero Gomez, alcune costanti che hanno rappresentato il tessuto connettivo fra i diversi approcci disciplinari e le differenti metodologie messi in campo nelle tre giornate di studio.

 

 

La questione della corporalità, ad esempio, è emersa sin dall’intervento inaugurale di Heather Reid, che, incentrato sul corpo gareggiante della Parthenos, ha subito fatto entrare in scena divinità e guerriere del mito, in primis le Amazzoni, ma anche la Camilla virgiliana destinata a perdere la vita per mano di Arunte, trattata da Antonella Bruzzone. In particolare, Fabre-Serris ha trattato il mito delle Amazzoni e due riscritture diversamente esemplari: quella romantica di Henrich Von Kleist (1808) e quella femminista radicale di Monique Wittig (1969). Lo spettro degli sconfinamenti classici non si è però esaurito qui, dato che dopo un excursus sugli aspetti giuridici della condizione della donna a Roma (Judith Hallett), si è parlato di donne dai profondi convincimenti etici: se Laura Kopp ha elevato il personaggio euripideo di Creusa a cittadino ideale ateniese, in altri casi si sono mostrate donne disponibili a sacrificare la vita per un proprio ideale. Si tratta sia di personaggi derivati dal mito, come l’euripidea Alcesti, disposta a morire per salvare il proprio sposo, di cui Diana Perego ha ricostruito la ricezione figurativa in età moderna, sia di personaggi storici, come Epicari, che, come hanno mostrato Caitlin Gillespie e Lucia Monaco, è l’unica tra i partecipanti alla congiura dei Pisoni di cui Tacito presenta il coraggio di suicidarsi per evitare di tradire i compagni. In questo filone rientra anche l’anonima giovane, oggetto dell’intervento di Ivana Djordjević, che in un episodio apparentemente marginale del Roman de Waldef (secolo XIII) ci illustra un esempio di tragic love e female agency nel romanzo cortese. La cultura medievale, del resto, non ha un peso minore nel trattamento tematico del corpo femminile: nei termini della negazione mistica, come mostra il caso di Roswita di Gandersheim (secolo X) illustrato da Marco Sciotto a proposito della rivisitazione teatrale di Ermanna Montanari proposta in Roswita nel 1991 e nel 2008, o nei motivi del travestimento e del mutamento di sesso, di cui Anna Lisa Somma ha mostrato la rilevanza nella produzione canterina italiana. La dismisura fisica delle regine combattenti, come Rovenza e Ancroia, dell’epica cavalleresca del Quattrocento è stata invece al centro della relazione di Annalisa Perrotta, che ha messo in evidenza lo stupore turbato dello sguardo maschile di fronte alle guerriere, nonché la riconduzione all’ordine tramite la loro uccisione da parte dell’eroe cristiano di turno.

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Attraverso due opere letterarie che intrecciano l’autobiografia al racconto di memoria collettiva, si ripercorre la costruzione dell’identità di genere dello scrittore ‘prostituto’ Francesco Grasso intrecciata strettamente all’identità di un quartiere, a partire dai confini che separano ed escludono tanto uno spazio fisico quanto uno spazio identitario. In questa ricostruzione si vuole dimostrare come la parola scritta acquisisca un valore ‘sovversivo’ perché permette a chi scrive di svelarsi proprio nell’atto estetico in cui il corpo è invisibile, a differenza delle altre opere audiovisive (cinema, web serie, teatro), dove la visualità a cui il corpo è esposto spinge a una rivelazione che finisce per essere un doppio velarsi.

Through two literary works that intertwine autobiography with the collective memory, the gender identity’s construction of the writer 'prostitute' Francesco Grasso is closely traced back to the neighborhood’s identity, starting from the boundaries that separate and exclude so much one physical space as an identity space. In this reconstruction we want to demonstrate how the written word acquires a 'subversive' value because it allows the writer to reveal himself precisely in the aesthetic act in which the body is invisible, unlike the other audiovisual works (cinema, web series, theater), where the visuality to which the body is exposed leads to a revelation that ends up being a double veil.

 

 

1. Le altre e il quartiere per parlare di sé

Francesco Grasso – che utilizza il nome Franchina non soltanto nella sua vita da travestito ma anche quando diventa personaggio di un film, di uno spettacolo teatrale, di una web serie, di un’intervista televisiva, di una canzone – comincia a scrivere nel 2000, in seguito alla grande retata che chiude le case del quartiere San Berillo nella città di Catania dove si prostituisce, dando così vita alla sua prima opera Davanti alla porta. Testimonianze di vita quotidiana nel quartiere catanese di San Berillo, pubblicato nel 2010 (con una seconda edizione nel 2012) dal Museo Civico Etno-Antropologico e Archivio Storico “Mario De Martino”, a cui farà seguito Ho sposato San Berillo, pubblicato nel 2018 da Trame di quartiere.

Le due opere si presentano entrambe come un insieme di piccoli quadri che hanno la duplice veste di scrittura autobiografica, centrata anzitutto sulla ricostruzione dell’identità di genere e di orientamento sessuale dell’autore, e di restituzione della dimensione spaziale in cui tale identità e tale orientamento hanno avuto modo di essere esplicitati, tracciati, costruiti, vissuti. A seconda di come vengano di volta in volta intrecciati e gerarchizzati questi due propositi, al lettore potrà apparire ora più forte il ‘patto autobiografico’ ora più incalzante il carattere ‘topo-cronachistico’ che mette in luce strutture temporali più complesse dell’immediata visione retrospettiva della scrittura autobiografica.[2] In tutt’e due le opere c’è di certo la volontà di raccontare qualcosa che si è vissuto: in Davanti alla porta i tratti autobiografici sono da rintracciare come pennellate leggere che impregnano l’intero sfondo dei 15 brevi racconti di «esperienze, sensazioni ed emozioni, fatti drammatici, comici, paradossali [vissuti] insieme alle altre»;[3] in Ho sposato San Berillo, invece, il racconto di sé diventa dipinto materico ordinato secondo un percorso cronologico e rintracciabile già, oltre che nell’imperante prima persona del titolo, da altri due elementi paratestuali: i titoli dei capitoli e l’uso del corsivo. Scorrendo l’indice di Davanti alla porta ci si rende subito conto di come non ci sia traccia dell’autore, quasi a dar l’impressione che l’opera abbia una sorta di carattere antropologico (Il quartiere, La legge Merlin, I clienti, Persone ed episodi, La discriminazione, L’igiene, La femminilità, etc.). In Ho sposato San Berillo, per contro, troviamo alcuni titoli dei capitoli eloquentemente riferiti all’autore/personaggio (Non lavarti con troppa frequenza, La strada ha scelto me, Una Franchina e un Michele, Se ho amato qualcuno, io non lo ricordo). All’interno poi dei capitoli in cui l’autore narra di sé si trova una distinzione tra una prima parte e una seconda, quest’ultima caratterizzata dall’uso del corsivo, al fine di rendere esplicito al lettore che dalla narrazione cronachistica di eventi autobiografici si passa alla riflessione e alle considerazioni dell’autore.

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San Berillo web serie docè il prodotto di un laboratorio audiovisivo condotto dalla visual artist Maria Arena nel quartiere catanese di San Berillo, una sorta di no man’s land abitata per lo più da sex workers e immigrati. Grazie all’attivazione di dinamiche relazionali basate sulla condivisione di esperienze, il format riesce a indagare le traiettorie esistenziali di una comunità che tenta di riabilitare il proprio modus vivendi attraverso feconde pratiche di rigenerazione urbana. Le due stagioni della serie coniugano la mobilità e la leggerezza del web con la profondità di sguardo del documentario e offrono una inedita cartografia di corpi e storie. L’intervento mira a ricostruire la poetica queer che ha ispirato l’architettura del progetto, da intendersi come strategia di messa in forma di un’alterità che attraversa le strade, i muri e i volti degli abitanti del quartiere, da sempre in lotta per una piena affermazione di sé.

The San Berillo web serie doc is the product of an audio-visual laboratory led by Maria Arena, a visual artist, in the San Berillo neighbourhood in Catania – practically a no man's land mostly inhabited by migrants and sex workers. By promoting relational dynamics on the basis of shared experiences, this format successfully portrays the existential trajectories of a community trying to rehabilitate its way of life through fertile practices of urban renewal. The series' two seasons combine the fluidity and simplicity of the web with the in-depth gaze of a documentary, thus offering an innovative map of bodies and stories. This presentation aims to rewire the queer poetics which inspired the architecture of the project, intended as a strategy to embody an "alterity" which runs through the streets, the walls and the faces of this suburb's inhabitants, always fighting for a fuller self- affirmation.

San Berillo Web Serie Doc è l’esito di un laboratorio di video-documentazione votato al recupero – attraverso una pratica di comunità – del ‘senso del luogo’ dello storico quartiere catanese San Berillo.[1] L’attività ha coinvolto nel corso di tre anni un gruppo composito di ragazzi che hanno condiviso un’esperienza formativa per certi aspetti inedita, perché caratterizzata da un approccio multidisciplinare e da una reale interazione con lo spazio[2].

Il progetto si inserisce nel piano di rigenerazione urbana guidato e sostenuto dalla Associazione Trame di quartiere,[3] protagonista di un’infaticabile attività di studio e sensibilizzazione nel cuore di Catania. Grazie all’intuito di Maria Arena, visual artist già autrice del docu-film Gesù è morto per i peccati degli altri (2015) selezionato alla 55ª edizione del Festival dei popoli di Firenze, i vicoli, i muri, i corpi e le storie che pulsano a San Berillo hanno trovato una via di ri-composizione formale che conferisce alle micronarrazioni lo statuto di «immagini della memoria»[4] e assegna loro la consistenza di «database interattivo».[5]

Le due stagioni della serie, disponibili su un canale youtube dedicato[6], coniugano la liveness e l’interattività del web[7] con la profondità di sguardo del documentario e puntano sull’attivazione di dinamiche relazionali basate sulla condivisione di esperienze e di ‘estratti di vita’. I tanti attori sociali coinvolti (abitanti, immigrati, docenti, attivisti, sex workers) offrono testimonianze emblematiche della condizione di marginalità in cui versa il quartiere e, allo stesso tempo, rilanciano la necessità di una risemantizzazione di spazi, abitudini e memorie.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →
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Studiare il corpo (e i corpi) al cinema significa anzitutto considerare due distinte, sebbene interrelate, dimensioni. Da una parte, i film (e in generale i prodotti audiovisivi) rappresentano i corpi: li traducono, cioè, in immagini visive e sonore costruite attraverso molteplici forme di sguardo, caricandoli di significati di volta in volta differenti, e proiettandoli fuori dal mondo fisico e carnale e dentro un universo di fantasie, modelli e repertori immaginari. Dall’altra, i corpi sono anche (e soprattutto) una delle materie principali attraverso cui il cinema, la televisione e le arti elettroniche formano e sviluppano il loro discorso, la loro “parola audiovisiva”: pensiamo, ad esempio, a come i gesti e le voci degli attori e delle attrici partecipino alla produzione e alla messa in forma del racconto nel cinema narrativo, a come la performance corporea stia spesso alla base delle sperimentazioni videoartistiche; o ancora alla centralità assoluta del corpo (parlante, danzante, cantante, in ogni caso “presente”) che ha caratterizzato la comunicazione televisiva fin dalle sue origini.

Pensare il corpo negli scenari mediali obbliga a misurarsi con un oggetto visibilissimo ma intimamente sfuggente. Allo stesso tempo portatore e produttore di senso, il corpo cinematografico si impone come rappresentazione (e, dunque, come incarnazione di una pluralità di significati sociali, culturali, autoriali, e così via) e insieme come entità performativa, capace di creare significati attraverso la propria fisicità.

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Uno speciale del 1978, curato da Ruggero Miti per la Rai, è probabilmente la prima presentazione al grande pubblico di Gianna Nannini. Le inquadrature iniziali sono iterati, lunghi dettagli: mani sulla tastiera del pianoforte, un ciuffo che cade a coprire il volto, una testa di Beethoven. Scelta singolare, quasi si voglia nascondere il soggetto, ma non per svelarlo con un coup de théâtre, piuttosto per circospezione, indecisione nel maneggiarlo visivamente [fig. 1]. Soggetto strano, evidentemente: potrebbe suonare forse perturbante, specie se accostato alle tipologie di cantanti e donne di spettacolo che hanno popolato il set audiovisivo italiano, che pure ne ha viste di Ê»ragazzacceʼ (pensiamo ai programmi televisivi e ai musicarelli con Caterina Caselli, Rita Pavone). Ma Nannini, che debutta come cantautrice femminista, non è ascrivibile alla categoria giocosa del comme un garçon. È una novità di cui si avverte l’irregolarità, fatta di assenza di compiacimento, spigolosità epidermica, ruvidezza vocale (riflessa in quella testuale); anomalia che proseguirà lungo i capitoli della narrazione visiva della cantautrice, segnati da una produzione originale, che dopo il crescendo degli anni Ottanta si è assestata in una posizione di eccellenza. La storia audiovisiva di Nannini si offre per esplorare un femminile già fisicamente eccentrico, di difficile trattamento visivo, che si è imposto senza abdicare all’anomalia, ma addirittura amplificandola con i mezzi della comunicazione più popolare. La lettura delle origini della sua immagine diventa in questo modo il tramite per cogliere meccanismi di affermazione di sensibilità nuove, difficilmente chiosabili, che il dispositivo promozionale ha immesso in un discorso più ampio. L’utilizzo, per definire la Ê»superficieʼ Nannini, di termini quali stranezza, eccentricità, diversità, suggerisce, pur con la cautela del caso, il termine queer.

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L’esperienza cinematografica di Goliarda Sapienza, che precede quella letteraria, si riverbera nella sua scrittura, suggerendo temi, immagini, prospettive. In particolare, Io, Jean Gabin si configura come il romanzo di formazione dello sguardo della narratrice, la quale – prima ancora di scoprire la propria vocazione performativa – racconta il proprio apprendistato umano e artistico compiutosi allo specchio del grande schermo. Il saggio punta l’attenzione sulla declinazione tematica del cinema nel romanzo autobiografico di Sapienza e sulle implicazioni identitarie della sua Bildung visuale, evidenziando la proposta di un modello di spettatorialità eccentrica, perfettamente coerente con l’eccedenza complessiva della figura della scrittrice.

The cinematographic experience of Goliarda Sapienza preceded her literary production. It is hence reflected in her novels, which it imbues with topics, images and perspectives. In particular, Io, Jean Gabin stands out as the novel through which the author’s gaze took shape. Before the emergence of her performing vocation, in it she recounts her learning curve – both human and artistic – in the world of the screen. This essay focuses on the various themes which from cinema flow into Sapienza’s autobiographic novel, as well as on the identity implications of her visual arts background. It highlights the eccentricity of her model of spectatorship, in line with that of her overall stature as an author.

Per un sillogismo quasi perfetto se è vero che un ventennio della vita di Goliarda Sapienza è dedicato all’arte della decima musa, e se è evidente che la maggior parte delle sue opere ha una esplicita marca autobiografica, sembra abbastanza ovvio e prevedibile concludere che il cinema sia una delle materie prime che nutrono la sua scrittura, per i temi, le immagini e le prospettive visuali che da quel mondo provengono e a quel mondo rimandano. Tale presenza tematica costante è un dato acquisito ed è stato messo a fuoco sin da subito dalla critica, che si è soffermata ora sulle tracce lasciate nelle sue pagine dall’esperienza di ‘cinematografara’,[1] ora sulla dimensione visiva della scrittura,[2] ora infine sulla più o meno ignota attività di (co)sceneggiatrice.[3] Facendo tesoro di questi importanti contributi si vorrebbero incrociare le acquisizioni che da essi derivano all’insieme delle altre molteplici prospettive di indagine applicate ai testi di Sapienza, per mostrare come le varie declinazioni dei temi provenienti dall’immaginario di celluloide intercettino altri motivi dominanti. In questa occasione si vuol soprattutto concentrare l’attenzione su un testo emblematico da questo punto di vista, Io, Jean Gabin, che rende evidente dalla lettura di ogni pagina la necessità di un’indagine volta a gettar luce sulle implicazioni identitarie insite nel modello di spettatrice narrato da Sapienza, tenendo conto del contesto culturale e della geografia sociale in cui è ambientata la sua Bildung.

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