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Il 2 aprile 2025 Sonia Bergamasco ha tenuto una masterclass per il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, nell’ambito dei corsi di Storia del teatro e dello spettacolo e di Storia del cinema italiano. Al centro dell’incontro il film Duse – The Greatest, diretto da Bergamasco nel 2024, a cento anni dalla scomparsa della diva, inserito nel cartellone del cineclub Arsenale. 

On 2 April 2025, Sonia Bergamasco held a masterclass for the Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere at the Università di Pisa, as part of the courses in Storia del Teatro e dello spettacolo and Storia del cinema italiano. The focus of the meeting was the film Duse – The Greatest, directed by Bergamasco in 2024, one hundred years after the death of the diva, included in the programme of the Arsenale film club.

 

Il 2 aprile 2025 Sonia Bergamasco ha tenuto una masterclass per il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, nell’ambito dei corsi di Storia del teatro e dello spettacolo e di Storia del cinema italiano. Al centro dell’incontro il film Duse – The Greatest, diretto da Bergamasco nel 2024, a cento anni dalla scomparsa della diva, inserito nel cartellone del cineclub Arsenale.

Sonia Bergamasco, attrice e regista, ha una formazione artistica poliedrica: diplomata in pianoforte al Conservatorio di Milano e in recitazione alla Scuola del Piccolo Teatro, ha esordito in Arlecchino servitore di due padroni diretto da Giorgio Strehler nel 1990, per poi collaborare con Carmelo Bene, Theodoros Terzopoulos, Massimo Castri, Antonio Latella, Thomas Ostermeier e Jan Fabre. Ha diretto spettacoli in cui musica e recitazione si fondono, tra i quali Il Ballo (dal romanzo breve di Irène Némirovsky) e L’uomo seme (riscrittura da Violette Ailhaud), realizzati in collaborazione con il Teatro Franco Parenti. Nel 2017, al Piccolo di Milano, ha diretto Louise e Renée, ispirato a Balzac e con drammaturgia di Stefano Massini. Nel 2022 ha interpretato Martha in Chi ha paura di Virginia Woolf? di Antonio Latella, ruolo che le è valso numerosi premi (Ubu, Le Maschere del Teatro Italiano e Hystrio).

Sul grande schermo ha esordito nel 1994 con il cortometraggio Miracoli di Mario Martone. Alcuni dei film che hanno reso nota l’interprete al pubblico sono L’amore probabilmente (2001) e La meglio gioventù (2003), che le è valso il Nastro d’Argento come Miglior Attrice. Ha lavorato poi con Liliana Cavani, Gennaro Nunziante, Marco Tullio Giordana, Bernardo Bertolucci, Roberta Torre, Riccardo Milani, solo per citare alcuni dei registi e delle registe più frequentate.

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Presentazione dello speciale dedicato al centenario della scomparsa di Eleonora Duse esito della Giornata di studi DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (a cura di Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) svoltasi il 4 dicembre 2024 all’Università di Pisa. Entrambi gli studi, qui proposti, presentano un’indagine su aspetti meno indagati dalla critica in merito al gesto recitativo di Duse o al gesto ‘immaginato’ per Duse. Sempre nel contesto di tali celebrazioni quale occasione di approfondimento e ripensamento del magistero dusiano, il 2 aprile 2025, all’Università di Pisa, le docenti Chiara Tognolotti ed Eva Marinai hanno incontrato l’attrice e regista Sonia Bergamasco alla presenza delle/gli studenti triennali e magistrali dei corsi di storia del cinema e storia del teatro per parlare del film Duse The Greatest.

Presentation of the special issue dedicated to the centenary of Eleonora Duse's death, the result of the study day DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (curated by Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) held on 4 December 2024 at the University of Pisa. Both studies presented here investigate aspects of Duse's acting style or the 'imagined' style attributed to her that have been less explored by critics. Again in the context of these celebrations as an opportunity to explore and rethink Duse's heritage, on 2 April 2025, at the University of Pisa, Chiara Tognolotti and Eva Marinai met with actress and director Sonia Bergamasco in the presence of undergraduate and postgraduate students of film history and theatre history to discuss the film Duse The Greatest.

I contributi che qui presentiamo rientrano nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della scomparsa di Eleonora Duse. Numerosi sono stati gli eventi nazionali e internazionali dedicati alla grande attrice nell’anno appena trascorso. Tra questi anche la Giornata di studi DUSE100. Teatro, Cinema, Danza (a cura di Cristina Jandelli, Eva Marinai, Teresa Megale, Francesca Simoncini, Chiara Tognolotti) svoltasi il 4 dicembre 2024 all’Università di Pisa, cui hanno partecipato docenti, ricercatrici e studiose impegnate nelle attività didattiche del Dottorato di Ricerca interuniversitario Pegaso in Storia delle Arti e dello Spettacolo delle Università di Firenze-Pisa-Siena.1

I saggi di Eva Marinai (La danza mancata di Eros e Thanatos. Hofmannsthal, Duse e Craig per Elektra) e Aline Nari (Corporeità danzanti e coreografie d’attrice: Eleonora Duse e la danza) rielaborano, ampliandole, le comunicazioni presentate nella Giornata di studi suddetta. Aline Nari, in particolare, sta per pubblicare un saggio dal titolo Un “cantone” tutto per sé: libri e femminismo spirituale di Eleonora Duse, che riflette in modo più approfondito sulla partecipazione della divina al fermento della danza di inizio Novecento e alle istanze emancipazioniste che esso traduce, già argomento dell’articolo di cui sopra. Entrambi gli studi, qui proposti, presentano un’indagine su aspetti meno indagati dalla critica in merito al gesto recitativo di Duse o al gesto ‘immaginato’ per Duse (in riferimento alla mancata realizzazione dell’Elektra pensata per lei).

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Oggetto di ammirazione da parte degli spettatori coevi, obiettivo di studio e imitazione per le giovani attrici del suo tempo, tensione inesausta per i fotografi che hanno cercato di immortalare, il gesto della Duse, al pari della sua voce, ha certamente attirato l’attenzione della critica che a questo riguardo ha sottolineato la consapevolezza dell’attrice riguardo all’aspetto comunicativo della postura e dell’azione corporea.  Per quanto riguarda i rapporti tra Duse e la nuova danza, che si afferma in Europa tra XIX e XX secolo, essi sono rintracciabili nei personaggi che d’Annunzio immagina per lei, nell’amicizia con Isadora Duncan, ma anche in occasioni mancate che riguardano il suo lavoro di attrice: il ballo di Nora in Casa di bambola o la danza immaginata per lei da Hofmannsthal nell’Elektra.  Oltre a questi aspetti, l’analisi di alcune sequenze del film Cenere, suggerisce l’ipotesi di poter valutare quale influenza abbia avuto la nuova danza nella capacità di Duse di affidare al corpo la propria grafia emotiva. Dovendo consegnare la propria arte a una pellicola priva di sonoro, Duse affronterà infatti una preparazione fisica inedita il cui risultato è non solo straordinariamente espressivo dal punto di vista attoriale, ma in alcune sequenze il controllo della dinamica, la cura della postura e dell’intensità dell’azione ci inducono a leggere il suo movimento come danza, una danza presaga che contiene le anticipazioni del futuro.

Object of admiration for contemporary spectators, target of study and imitation for younger actresses of her time, inexhaustible tension for photographers who tried to immortalize it, Duse's gesture has certainly attracted the attention of critics who have underlined the actress's awareness of the communicative aspect of posture and bodily action. As regards the relationship between Duse and the new dance, which was established in Europe between the 19th and 20th centuries, they can be traced inside d'Annunzio’s dramaturgy, in her friendship with Isadora Duncan, but also in missed opportunities regarding her work as an actress: Nora's dance in Doll's House or the dance imagined for her by Hofmannsthal in Elektra. In addition to these aspects, the analysis of some sequences of the film Cenere (Ashes), suggests the hypothesis of evaluating the influence of new dance on Duse's physical writing. In delivering her art to a silent film, Duse will in fact face an unprecedented physical preparation whose result is not only extraordinarily expressive from the acting point of view, but in some sequences the control of dynamics, the care of posture and the intensity of the action lead us to read that movement as a dance, a presaging dance that contains the anticipations of the future.

I testimoni e la letteratura critica hanno provato a indagare il mistero della seduzione che Eleonora Duse esercitava sul pubblico anche grazie al movimento espressivo di tutta la sua persona: un movimento che, come quello di una danzatrice, irradiava da un centro – coincidente con il motore psichico del personaggio – per propagarsi con intensità fino alla periferia delle mani, coinvolgendo la perdita di equilibrio, l’inciampo, il cambiamento repentino di direzione.[1] Nelle varie fasi della propria evoluzione artistica, Duse esprime sulla scena un movimento corporeo molto diversificato, in cui la sensualità del felino si alternava all’agitazione nervile dell’isterica, il gesto automatico si declinava nella posa ieratica della vestale. La consapevolezza di Duse riguardo il linguaggio corporeo ci suggerisce quindi di riconoscere come danza alcuni suoi ‘stati’ di presenza o sequenze gestuali e di immaginarla danzare quando i personaggi interpretati lo richiedevano. Tuttavia, sebbene l’integrazione tra materiali fotografici, recensioni e testimonianze, riveli come il corpo scenico di Duse sia attraversato dai fermenti della danza del suo tempo,[2] le danze di Eleonora Duse sono danze mancanti, mancate o addirittura presunte e presaghe, sottotraccia al lavoro d’attrice e anticipazioni del futuro, come avrò modo di chiarire. Dunque, per quanto indiziario, il discorso su Eleonora Duse e la danza ci sembra contribuire da un lato alla trasversalità degli studi che la riguardano, dall’altro sottolineare l’attualità del suo ruolo di intellettuale, attenta anche all’evoluzione delle corporeità danzanti del suo tempo.

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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Dalle indagini antropologiche di Annabella Rossi, selezionando una serie di scatti dal suo corpus fotografico, emergono episodi e rappresentazioni di specifici microcosmi che l’antropologa romana ha saputo raccontare anche per mezzo della sua macchina fotografica. Dentro il campo di tensioni visuali a cui si è sempre esposta, si schiude con pregnante vitalità un universo femminile capace di narrare un misticismo religioso e laico insieme. La donna assurge a soggetto-chiave capace di interpretare, al di là del ruolo di custode del focolare, una dimensione religiosa necessaria per la sopravvivenza sua e della comunità rurale a cui appartiene. La ricostruzione di questa particolare iconosfera, dentro quella che la studiosa definiva una cultura della miseria, mette insieme quindi, una variegata rappresentatività femminile. Dalle immagini delle invasate, mediatrici e garanti del simbolismo magico-rituale e dell’efficacia delle formule di guarigione collettiva, giunge ai ritratti di bambine fotografate durante un pellegrinaggio o un carnevale, dirette discendenti di una religiosità che va sempre più sfumando. Dalle feste religiose, dove le pratiche devozionali ricordano riti rifondati dall’antico, alla vita collettività e al lavoro domestico, il mito e il rito s’incarnano nel femminile scandendo il quotidiano, luogo di un misticismo dentro il quale il ruolo della donna sembra rivalersi dalla società patriarcale.    

Annabella Rossi's anthropological investigations, selecting a series of shots from her photographic corpus, reveal episodes and representations of specific microcosms that the Roman anthropologist has also been able to recount through her camera. Within the field of visual tensions to which she has always exposed herself, a female universe unfolds with pregnant vitality, capable of narrating a religious and secular mysticism at the same time. The woman becomes a key-subject capable of interpreting, beyond the role of guardian of the hearth, a religious dimension necessary for her survival and that of the rural community to which she belongs. The reconstruction of this particular iconosphere, within what the scholar defined as a culture of misery, thus brings together a variegated female representation. From the images of the invaders, mediators and guarantors of magic-ritual symbolism and the efficacy of collective healing formulas, she arrives at portraits of little girls photographed during a pilgrimage or a carnival, direct descendants of a religiosity that is increasingly fading. From religious festivals, where devotional practices recall rituals re-founded from the ancient, to community life and domestic work, myth and ritual are embodied in the feminine, punctuating the everyday, the site of a mysticism within which the role of women seems to be retaliating against patriarchal society.    

 

Lo sguardo dell’antropologa Annabella Rossi (1933-1984) tiene acceso il dibattito sulle scienze umane, l’etnografia e la demologia offrendo spunti di riflessione e prospettive epistemologiche che contemplano anche l’universo delle immagini. Riaprire il caso Rossi, come avviene già da qualche anno, significa, infatti, riconsiderarla nel mestiere di antropologa e fotografa insieme, ricordarla come pioniera tra le studiose italiane nell’utilizzo dei dispositivi visuali durante le sue indagini.

Nelle mani di Annabella Rossi la fotografia – da sempre capace di rafforzare la veridicità scientifica delle indagini antropologiche (Chiozzi 2000, pp. 18-19) – non corrobora solo l’impianto metodologico ma diviene linguaggio indispensabile all’inefficacia delle parole. Se nel ruolo di sceneggiatrice il suo scrivere è stato considerato retorico, come ha dichiarato in un’intervista Luigi Di Gianni, riferendosi alla realizzazione di documentari che portavano la sua firma e la collaborazione della studiosa (Di Gianni 2014), è la stessa Rossi a dichiararsi consapevole di quanto le parole, in forma di ecfrasi e seppur calibrate, siano rese vane davanti alla cultura della miseria, incapaci di esprimere con interezza gli aspetti esistenziali che si manifestano ai suoi occhi. La condizione umana entro cui si immerge e l’impossibilità di raccontarla a parole sembrano obbligare Rossi all’utilizzo della fotografia a tal punto da farne una consuetudine: «mi sono abituata ad usare ‘naturalmente’ la macchina fotografica anche perché, a mio parere, spesso una intera pagina non riesce a documentare, né a trasmettere ciò che può una sola immagine» (Rossi 1971, pp. 26-29). Se l’impronta demartiniana rimane la cifra metodologica riconoscibile all’interno del suo lavoro, è munirsi di un ‘terzo occhio’ che le permette di leggere il senso profondo della realtà, di intuire in primis che è dallo sguardo che l’immagine trae forza e significato. Interposto tra lei e quel mondo, quindi, il dispositivo fotografico diventa un medium che mantiene a debita distanza di sicurezza l’antropologa, pur consentendole allo stesso tempo di avvicinarsi fino ad entrare in contatto con quell’umanità stigmatizzata dal dolore, dalla quale lei stessa non vorrà mai allontanarsi.

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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →

In Un anno con tredici lune (1978) Fassbinder accentua l'importanza della dialettica tra interni ed esterni e inquadra con grande precisione l'inquieta smania di amore della protagonista Elvira. Il contributo prova a rileggere i modi della messa in scena alla luce della poetica dello spazio di Bachelard, nel tentativo di sottolineare l'importanza della casa come luogo di rifrazione del sé, oltre che come dispositivo della visione.  

La dialettica dei sentimenti propria della ricerca artistica di Rainer Werner Fassbinder trova nella articolazione degli spazi uno dei nodi concettuali più interessanti, tanto da suggerire di rileggere la sua produzione nel segno di una vera e propria ‘cartografia’ dei luoghi. La lucida riflessione sui caratteri delle passioni umane, quasi sempre condizionate dal determinismo materialista della società, offre un’ampia gamma di soluzioni architettoniche, grazie anche alla continua tensione fra le città e le case, che non era sfuggita al giudizio di Deleuze. Per il filosofo francese, infatti, Fassbinder «elaborava i propri esterni come città-deserti, i propri interni sdoppiati negli specchi, con pochissimi punti di riferimento e una moltiplicazione di punti di vista senza raccordo» (Deleuze 2000, p. 145). La perentorietà di questa considerazione, di fatto uno dei pochi passaggi dedicati al regista tedesco, permette di ricavare un primo livello della topografia del suo cinema, cioè l’attrito fra dentro e fuori, pubblico e privato che si esplica a partire dalla frizione fra le trame del complesso urbano, spesso castranti nei confronti degli individui, e i dettagli delle stanze e dei palazzi, frazioni di soggettività divise e in lotta.

Riprendendo il modello spaziale elaborato da Bachelard, è possibile considerare le case disseminate lungo i bordi del cinema di Fassbinder come «strumento di analisi per l’anima umana» (Bachelard, p. 28). Lungi dall’essere l’emanazione di una condizione felice, come vorrebbe la poetica di Bachelard, le case fassbinderiane servono piuttosto a vivisezionare l’intimità dei personaggi, a far emergere il giogo di costrizioni e ricatti, di desideri e mancanze che ogni opera incarna. Nonostante il tratto per lo più claustrofobico dei film del regista, si pensi allo spazio millimetrico de Le lacrime amare di Petra von Kant o all’angustia mentale e materiale che opprime Veronika Voss, gli ambienti costruiti permettono di far deragliare la quarta parete e si trasformano in piccoli, e precisissimi, teatri anatomici. Fedele alla poetica del Kammerspiele, Fassbinder elegge gli interni domestici come elementi matrice di una visione certamente cupa, feroce, dell’esistenza, vissuta dalla maggior parte dei personaggi come traiettoria della disperazione, del disinganno, tipica della disposizione melodrammatica che resta alla lunga l’insegna più credibile dell’intera sua opera. L’esiguità dei mezzi di produzione non ha mai interferito con la pienezza dei segni espressivi, debitrici della lezione di Sirk per ciò che attiene al registro delle emozioni, e così ogni testo filmico ridisegna la simmetria (o la sproporzione) fra interni ed esterni attraverso sintagmi visivi e codici diegetici stratificati e a tratti debordanti. Proprio la concentrazione degli spazi e degli arredi, la veemenza dei destini e delle colpe, fanno sì che gli effetti della composizione di scene e sequenze obbediscano a una misura, a un equilibrio fra pieni e vuoti, tagli e raccordi, attese e tradimenti. A suggerire il nesso tra ‘relazioni pericolose’ e luoghi dell’abitare è in fondo lo stesso autore, come si legge tra le righe di una delle sue dichiarazioni più famose: «Sognare un amore vero è proprio un bel sogno, ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c’è bisogno dell’ossigeno» (Fassbinder 2005, p. 21). L’amore ha a che fare con il perimetro della realtà, con le funzioni dell’esistere, con la logica delle sensazioni e dei corpi, e in questa tassonomia si infrange l’archetipo della rêverie teorizzata da Bachelard. La chiusa geometria delle stanze non esclude però la permeabilità dei punti di vista, e così grazie a un calcolato sistema di soglie le case di Fassbinder si trasformano in vere e proprie ‘macchine per vedere’, in dispositivi mobili che esaltano la densità delle immagini. Guardare l’altro, o l’immagine raddoppiata e sfocata di sé stessi, significa attivare un meccanismo di compensazione, un’istanza che giunge a sublimare perfino i dolori più accesi, perché in fondo quello del regista è un cinema della compassione.

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Quella di Sonia Bergamasco, pubblicata recentemente per la collana Gli struzzi di Einaudi, è un’agile autobiografia di circa centotrenta pagine che, fin dal titolo e dal progetto grafico (curato da Ugo Nespolo), mostra una specifica dichiarazione di intenti. Se in copertina si staglia, sullo sfondo bianco caratteristico di Einaudi, la silhouette di un corpo nudo femminile nell’atto di guardarsi allo specchio, il titolo Un corpo per tutti. Biografia del mestiere di attrice rende ancora più palese il focus del testo.

È infatti il corpo attoriale il perno su cui Bergamasco fa ruotare la sua breve narrazione autobiografica, da un lato, ricordando come il corpo sia lo strumento fondamentale della propria espressione artistica e di quella di qualsiasi attrice o attore, dall’altro, ricostruendo la storia di quello che è diventato, lungo gli anni, il suo corpo d’attrice.

Il testo spicca, se si guarda alle autobiografie delle attrici contemporanee, appunto per il modo assolutamente personale di intendere lo scrivere di sé, ovvero tenendo il racconto biografico saldamente ancorato alla descrizione delle pratiche attoriali. In nessun altro caso, se si eccettuano forse Fiato d’artista di Paola Pitagora (Sellerio, 2001) e La stanza dei gatti di Franca Valeri (Einaudi, 2017), è riscontrabile una tale minuziosa attenzione verso ciò che connota il mestiere di attrice; al punto che Un corpo per tutti sembra rimandare, più che alle recenti scritture del sé delle attrici, alle memorie delle Grandi attrici teatrali come, fra tutte, quelle di Adelaide Ristori.

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Come può una delle opere letterarie più antiche rivelarsi tanto attuale? Come è possibile farla rivivere a teatro? La strada da seguire è quella che conduce alla seduzione della narrazione; una narrazione in cui la parola si fa musica, diviene canto di dolore e voce ‘universale’. L’epopea di Gilgamesh narra le vicende del potente re di Uruk. In principio molto temuto e poco amato dai suoi sudditi, Gilgamesh si mostra arrogante e assetato di potere e di piacere, tanto da rubare la verginità alle spose il giorno delle nozze. Ascoltando le preghiere degli abitanti della città, la Grande Madre Aruru, su ordine di Anu, il Padre del Cielo, plasma con un pezzo di argilla il forte Enkidu, il doppio del sovrano, l’unico in grado di fronteggiarlo e di liberare il popolo dai suoi soprusi. I due si scontrano, ma quando la lotta termina Gilgamesh e l’avversario si riconoscono amici fraterni e invincibili. Con Enkidu il sovrano perde il suo animo inquieto e colmo di collera. I due personaggi iniziano ad affrontare insieme sfide pericolose, uccidono il gigante Humbaba e il Toro Celeste; imprese che gli dei condannano, privando il re del suo amico. Enkidu muore, Gilgamesh sprofonda in un dolore indescrivibile e inizia il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità. Grazie al barcaiolo Urshanabi giunge al cospetto di Utanapisti – unico sopravvissuto al diluvio universale e personaggio al quale gli dei avevano concesso la vita eterna – e acquisisce consapevolezza della precarietà dell’esistenza. La vicenda, dunque, ruota intorno a un viaggio di trasformazione interiore, ai grandi interrogativi che l’uomo si pone di fronte al mistero della morte e al dolore della perdita e del lutto; sentimenti, questi, che attraversano le epoche e i confini geografici e che investono l’intera umanità.

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Ascanio Celestini, custode e guida di un ipotetico Museo dedicato a Pier Paolo Pasolini, riannoda, con lo spettacolo Museo Pasolini, i fili di una vita breve, terminata in un massacro all'Idroscalo di Ostia, con accadimenti storici e aneddoti immaginari. Il visitatore si troverà immerso nel mondo pasoliniano più autentico e complesso e in quello parallelo frutto di ricerche sul campo di Celestini che, proprio come il poeta, non ha mai smesso di indagare e dialogare con gli ultimi e gli sfruttati.

Ascanio Celestini, custodian and guide of a hypothetical museum dedicated to Pier Paolo Pasolini, reconnects the threads of a short life, which ended in a massacre at the Idroscalo di Ostia, with historical events and imaginary anecdotes. The visitor will find himself immersed in Pasolini's most authentic and complex world and in the parallel world that is the result of field research by Celestini who, just like the poet, has never stopped investigating and dialoguing with the last and the exploited.

 

Per Orhan Pamuk ogni museo dovrebbe essere un luogo in cui «il tempo diventa spazio», capace di raccontare le storie dei singoli individui e in cui poter «esplorare ed esprimere l’universo e l’umanità dell’uomo nuovo e moderno».[1] Quasi sulla stessa scia, a partire da un’idea di luogo non-monumentale in grado narrare fatti che vadano al di là dell’ossessione di un singolo, e da sempre attratto dalla Storia e dai suoi paradossi, Ascanio Celestini nel 2021 concretizza il progetto di costruire, narrativamente, un Museo dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini.[2] È, ancora una volta, la sua «corda civile»,[3] in cerca dell’uomo e delle sue parabole, a consentirgli «di scorgere le tracce del mito».[4]

In una carriera dove ha filtrato, con i racconti di testimoni comuni, i grandi temi del nostro Paese, Celestini ci restituisce uno spettacolo straziante e potente, una raccolta di oggetti simbolo per disegnare la figura del poeta friulano, affiancando ad essi la rappresentazione del Novecento italiano saturo di fascismo, di golpe di stato, di democrazie tormentate e di una «busta de stracci che invece era n’omo morto». Una «corrispondenza d’amorosi sensi» che ben si spiega con la capacità dell’attore romano di raccontare storie controverse con la cifra di una disarmante onestà in grado di mescolare registri plurimi. Celestini, peraltro, non è nuovo all’esplorazione di Pasolini.[5] Nel 1998, quando ancora si considerava un «teatrante per caso», incontra Gaetano Ventriglia, e con lui – discutendo di cucina, di emozioni e del loro comune interesse per ‘il poeta delle ceneri’ – dà vita a Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini, un po’ spettacolo[6] e un po’ libero pensiero. Al centro di questo esperimento si pone infatti una riflessione discontinua sul tema della morte che avvicina un padre (già trapassato) ad un figlio (nel momento del trapasso), emblematicamente identificati come Cicoria padre e Cicoria figlio. Questa coppia, che in modo scoperto discende da Totò-Ninetto Davoli di Uccellacci e uccellini, richiama anche il riflesso di altre opere, secondo un progetto in forma di palinsesto, instabile e promettente allo stesso tempo.

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«Tutto è santo», declama il saggio Chirone nella Medea di Euripide da cui è tratto l’omonimo film di Pier Paolo Pasolini (1969). Da questa battuta è stato derivato il titolo complessivo delle tre mostre Pier Paolo Pasolini. Tutto è santo, nate dalla collaborazione tra Palazzo delle Esposizioni, Palazzo Barberini e MAXXI di Roma e visitabili da ottobre 2022 a febbraio 2023. Il titolo comune apre a tre diversi sottotitoli che affermano la centralità del corpo, rispettivamente Il corpo poetico, Il corpo veggente e Il corpo politico; per questo verrebbe da pensare che le mostre piuttosto ci dicano che ‘tutto è corpo’.

Sebbene le intenzioni della tripartizione siano chiare – la prima mostra è dedicata al Pasolini autore (letterario, cinematografico, teatrale), la seconda a Pasolini come artista figurativo e la terza alla sua figura di intellettuale militante –, si nutre l’impressione che i discorsi su Pasolini – e quindi anche sul suo corpo – siano impossibili da suddividere in aree tematiche nettamente distinte, e che una riflessione su un certo aspetto si insinui anche là dove non era prevista, ripresentandosi a tradimento in una esposizione piuttosto che in un’altra. Più utile sembra allora proporre un itinerario trasversale rispetto ai tre spazi espositivi, attraverso il quale affrontare alcuni dei materiali inediti e delle feconde questioni che emergono dalla mostra nel suo complesso: il corpo come ‘struttura organica’ e come ‘verbo’.

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