Danzatore di formazione classica, ha fondato nel 1989 la Compagnia Zappalà Danza, sostenuta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali sin dal 1996 e indubbiamente tra le realtà europee più interessanti per quanto concerne il panorama della danza contemporanea. Un percorso di oltre trenta produzioni che attraversano le tematiche più varie, mantenendo sempre una spiccata attenzione verso il sociale e verso ciò che si muove intorno all’occhio vigile e attento dell’artista. Le sue coreografie nascono spesso seguendo una progettualità più ampia, all’interno della quale Zappalà traccia una vera e propria mappatura a tappe, a ‘pre-testi’ che sfoceranno dopo in una danza totale.

Significativa, in tal senso, la collaborazione oramai di lunghissima data con Nellò Calabrò, il quale si occupa dell’aspetto drammaturgico, letterario e verbale degli spettacoli. Innumerevoli le collaborazioni e le creazioni per altre compagnie ed enti artistici di rilievo come il Balletto di Toscana, la Scuola di Ballo del Teatro alla Scala di Milano, il Norrdans e il Goteborg Ballet.

A partire dal 2002, e ancora più dal 2003, Roberto Zappalà è riuscito a fondare una vera e propria ‘casa’ della perfomance, Scenario Pubblico, tempio di ricerca sul corpo unico in Sicilia e luogo ove regolarmente vengono formati nuovi danzatori mediante un progetto di approfondimento del linguaggio coreografico della Compagnia Zappalà Danza.

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Fin dall’esordio con Accattone Pasolini manifesta la volontà di mettere in quadro corpi e luoghi non canonici, appartenenti alla barbarie delle borgate e riprodotti secondo quel principio di «sacralità tecnica» che avrebbe segnato il primo lungo movimento del suo racconto per immagini. Del resto la sua personalissima idea di cinema «come lingua scritta della realtà» (stando alle teorizzazioni raccolte in Empirismo eretico) ha sempre posto al centro della messinscena il risalto dei volti, degli sguardi e dei gesti dei ‘suoi’ attori, primo fra tutti Franco Citti, destinati a divenire icone di un’umanità arcaica, fuori dal tempo, autenticamente innocente sebbene marcata da desideri brucianti, almeno fino alla svolta neocapitalistica degli anni Sessanta.

Pasolini è stato l’intellettuale e l’artista italiano che più di tutti ha «gettato il proprio corpo nella lotta», esponendo se stesso, la propria carnalità, come esempio e monito, attuando fino all’ultimo una feconda strategia comunicativa che ha trovato nella parresìa, cioè nella libertà di «un dire tutto, un dire diverso, un dire l’altro» (Bazzocchi 2017, p. 11), il punctum di quello che possiamo definire, con Roberto Esposito, il suo «pensiero vivente» (Esposito 2011, p. ), la sua visione biopolitica.

Nel contesto della filmografia pasoliniana Teorema mostra un tasso di ambiguità e una potenza descrittiva uniche, anche per via del frangente cronologico in cui si colloca, nel cuore cioè di quel fatidico ’68 che Pasolini vive in controtendenza, schierandosi con la poesia Il PCI ai giovani dalla parte dei poliziotti e non degli studenti ribelli e inaugurando nuove modalità di messa in crisi dell’ordine borghese. Trattandosi di un’opera doppia, per l’articolazione in forma letteraria e filmica, Teorema offre un campo di indagine frastagliato e complesso, soprattutto per la presenza sulla pagina e sullo schermo di sei personaggi e sei corpi ad altissima densità spettrografica, capaci di declinare – grazie a una dirompente tensione visiva – una molteplicità di gesti, sentimenti, e ferite identitarie.

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I found pain in the light and beauty in darkness.

 

 

Vi è un’immagine chiave nel densissimo e poetico Blind di Duda Paiva: quella che ci mostra una ‘figura’ di guaritrice ruotare su se stessa in una danza circolare, un vortice estatico che sembra far turbinare dal palcoscenico alla sala la ridda di motivi che l’artista brasiliano tesse e dipana lungo tutto lo spettacolo. La sequenza sembra inghiottire i nodi intrecciati fino a quel momento per scioglierli, lasciandoli sbozzolare fuori come farfalle dalle larve.

Corde, nodi, tessitura, bozzoli che dischiudono il creaturale: non sono solo immagini metaforiche dei procedimenti applicati, bensì anche gli oggetti scenici che incarnano la drammaturgia. Una drammaturgia dalle maglie perfettamente disegnate e insieme ‘larghe’, che tesse motivi lucidamente scelti ma lascia aperte possibilità molteplici di stratificazioni. Proprio come le corde presenti in scena, che si intricano e si dipanano grazie alle mani sapienti dell’artista, danzatore di formazione che trova nell’arte delle figure il terreno più fertile per la ricerca sul corpo nelle sue relazioni con la materia e con gli oggetti.

La corrispondenza tra immaginari evocati e materia scenica è impressionante. Un rincorrersi di immagini e di senso, mai esibito né compiaciuto, bensì affidato alla capacità associativa dello spettatore, provocata nelle sue potenzialità visionarie. Come spesso accade nel teatro di figura, la rappresentazione non si dà mai in quanto univoca, le prospettive si sdoppiano e si sovrappongono.

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Quando un’opera sembra in anticipo sulla sua epoca, semplicemente la sua epoca è in ritardo su di lei.

J. Cocteau

 

Nell’apparente instabilità epistemologica degli ultimi tre decenni dalla teoria alle ‘teorie del cinema’, la pubblicazione del volume Jean Cocteau. Teorico del cinema da parte della casa editrice Mimesis nel 2018 poteva sembrare solo un’operazione storico-retrospettiva. Il lavoro di Stefania Schibeci, docente di Pittura e Arti del XX, è la prima monografia italiana sul tema dedicata all’artista ma getta le basi per un ponte verso il quadro teorico del secondo Novecento e in parte verso quello contemporaneo.

L’attualità della pubblicazione è legata senz’altro alla scelta della figura di Cocteau: poeta, pittore, drammaturgo, romanziere, disegnatore, pittore, regista, attore, ecc. Una personalità che ha incarnato l’apertura interartistica del secolo scorso e anticipato ‒ come sembra emergere da questo contributo ‒ alcune riflessioni teoriche successive di tipo filosofico, fenomenologico e mediale intorno alle immagini in movimento. Anche se si avverte, forse, la mancanza di alcune connessioni suggerite al lettore proprio da alcuni temi affrontati nel testo. Riprendendo, per esempio, gli elementi centrali della sua teoria sul cinema come veicolo insieme alle altre arti della «poésie» (p. 11), conoscenza del mondo attraverso la soggettività del poeta, e la sua specificità come scrittura per immagini capace di «rendere visibile l’invisibile» (p. 13), sarebbe stato interessante accogliere tra le pur ricche relazioni del testo somiglianze e differenze con le idee di Pasolini da un lato e con la filosofia di Merleau-Ponty dall’altro.

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Nel 2003 Agnès Varda riceve l’invito a partecipare alla 50° Biennale di Venezia, all’interno della sezione Utopia Station: un’area di transito e in transito, progettata come lo spazio di una stazione, dove poter sostare e osservare contributi artistici di varia natura, provenienti da tutto il mondo. Aderiscono al progetto oltre 150 tra artisti, architetti e interlocutori che non fanno necessariamente parte del panorama artistico contemporaneo. Agnès Varda, tra questi ultimi, nell’accogliere l’invito propone per l’occasione un’installazione videosonora. Da questo momento per la cineasta belga si aprono nuove opportunità, sia sul piano dei territori artistici, fino a quel momento videofilmici e fotografici, sia su quello della scrittura. Pur mantenendo i principi compositivi che ne caratterizzano da sempre il lavoro, a partire da Patatutopia – questo il titolo della videoinstallazione – i tratti della multimedialità interverranno nella scrittura di Agnès Varda consentendole di ampliare, strutturalmente, le declinazioni dei dispositivi di ripresa e i modi della rappresentazione del racconto. O, della ex-peau-sizione, per dirla con il neologismo di Jean-Luc Nancy, subentrato proprio al termine Ê»rappresentazioneʼ, peraltro con un rinvigorimento di senso dato dalla sostituzione, al suo interno, della sillaba Ê»poʼ con la parola omofona peau, pelle.

A fondamento dell’intero lavoro di Varda c’è, infatti, un Ê»discorsoʼ aperto allo sguardo, alla presentazione del racconto più che alla sua rappresentazione, attraverso uno s-velamento progressivo operato dai mezzi di ripresa prima e poi di montaggio, che va di pari passo, autoalimentandosi, con la creazione-rivelazione di immagini e suoni da condividere. Un togliere i veli alla realtà, andando oltre la pura documentazione della stessa, per far affiorare un mondo-corpo fatto di Ê»piccole coseʼ; e forse, proprio per questo, maggiormente incisivo.

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Pelle, pellicola, messa in scena del corpo, autorappresentazione. Performatività. Materialità di schermi, superfici. Tempo che consuma e si consuma, tempo da ricostruire. Bellezza della consunzione e dell’imperfezione. Abitare il tempo e abitare il cinema, indossare il tempo, indossare il cinema.

Il percorso di Agnès Varda, oggi novantenne, è un percorso nelle immagini: fortemente ispirata dalla pittura, dalla fotografia (lei stessa è fotografa), protagonista di un cinema noncurante di etichette e steccati, documentitore (Documenteur, 1981) e con una impronta – uso questo termine quasi in senso letterale – fortemente e consapevolmente autobiografica.

«La vecchia cineasta si è trasformata in giovane artista plastica», ha affermato commentando questa fase del suo lavoro. E in effetti non solo Varda ha concepito per le proprie opere percorsi installativi (come del resto hanno fatto altri cineasti della sua generazione, da Godard a Marker), ma si è dedicata a vere e proprie installazioni in cui le immagini in movimento non sono l’unico elemento, perché ne fanno parte oggetti, materiali diversi, fotografie. Inoltre, ha costruito film, in particolare il mirabile Les Plages d’Agnès, 2008, come percorsi installativi. Non solo: Varda ha trasformato se stessa in opera d’arte, con un’attitudine performativa basata in gran parte su costumi e travestimenti, sia nei film (ancora e soprattutto Les Plages d’Agnès) sia in esposizioni d’arte, come quando si è presentata alla 50° Biennale d’arte di Venezia nel 2003 (padiglione Ê»Utopia Stationʼ) trasformata in patata gigante, in occasione della sua prima installazione video Patatutopia. Un trittico (forma che ricorre spesso nelle sue installazioni) in cui si mostrano le patate scartate perché non conformi alle leggi di mercato. Patate difformi, in modo anche poetiche – come quella a forma di cuore – o commoventi (rugose, germoglianti). Imperfette. Patate (e qui si arriva all’elemento tattile, così presente nel cinema di Varda) da accarezzare, ripulire dalle tracce di terra, disporre e preparare per la messa in scena della loro bellezza.

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Negli anni Trenta, a Hollywood, legare il lancio di un film alla promozione di un altro tipo di bene di consumo era una pratica abituale. L’industria americana si lasciava volentieri coinvolgere in iniziative di questo genere, nella consapevolezza che il cinema potesse ottenere un effetto trainante sui consumi. Anche in Italia, tra le due guerre, nonostante le potenzialità del sistema industriale fossero più limitate, ci fu qualche tentativo di legare l’uscita in sala alla vendita di altre merci. Spesso erano le stesse agenzie americane a organizzare la promozione dei film. Ad essere maggiormente sfruttate erano le immagini delle star diffuse sulla stampa femminile, che le mostravano in pose sorridenti pubblicizzare prodotti di bellezza, come il sapone Lux o la crema Ponds. Nel 1936 in occasione della distribuzione in Italia di un film con Shirley Temple, i magazzini Rinascente ospitarono una linea di vestiti per bambine ispirata al look della piccola star (Gundle 2006, pp. 175-96). Il tema dello sfruttamento del cinema a fini promozionali non è stato ancora del tutto affrontato. È stato Stephen Gundel ad offrire un rilevante contributo alla riflessione sulle dinamiche di produzione della Ê»pubblicità del cinemaʼ, indagando i meccanismi di promozione dei film, come le campagne di lancio e le pubblicità. Eppure il discorso andrebbe esteso anche alla rilevanza della pubblicità Ê»attraverso il cinemaʼ, ossia all’apporto che l’apparato audiovisivo ha dato al sistema industriale promuovendo nuovi modelli identitari e stili di vita, dunque nuovi desideri e bisogni indotti. In Italia, per la prima volta proprio negli anni Trenta, alcune attrici iniziarono a dare il loro sostegno personale alle case di moda o a promuovere prodotti fabbricati nel Paese, come accadde a Silvia Jachino, ritratta sulle pagine di Cinema a bordo di una Fiat 500, Ê»la vettura delle stelleʼ. L’intenzione autarchica del fascismo, alla fine del decennio, non riuscì ad esprimersi a pieno nel campo della moda e del design, poiché questi settori anche grazie alla funzione assolta dalla cultura cinematografica nell’economia discorsiva dei messaggi pubblicitari, si rivolgevano ad un pubblico d’élite le cui aspirazioni si proiettavano verso stili di vita eleganti, la ricchezza e l’agio, piuttosto che verso la gloria della nazione fascista. L’economia italiana non era sufficientemente dinamica per permettere al cinema di agire a fondo sull’immaginario collettivo, a differenza di quanto accadrà nel secondo dopoguerra. Eppure fu proprio in quegli anni, e attraverso il coinvolgimento di gruppi ristretti di spettatori, che il cinema iniziò ad agire come orientatore di gusti e desideri.

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A ricordarci che le Ê»questioni di pelleʼ hanno una rilevanza di genere, una testata come Ê»BellaWeb.itʼ allorquando si preoccupa non solo di fornire alle sue lettrici – e ai suoi eventuali lettori – opportune indicazioni sulla cura dell’epidermide femminile ma anche di informare sulle locuzioni correlate. Nel riportare il significato della formula «non sto più nella pelle», sulla scorta del Dizionario dei modi di dire Hoepli, ne riconduce la genealogia alla nota favola di Fedro «dove la rana per diventare più grossa si gonfia fino a scoppiare» [fig. 1].

L’apologo, nella sua componente pedagogico-punitiva, non sembrerebbe in linea con la definizione data invece dell’«attesa frenetica di qualcosa di piacevole con grande gioia e impazienza», oppure della «manifestazione di una tale eccitazione da sembrar sul punto di schizzare fuori dalla pelle, incapaci di trattenersi». L’accostamento è però funzionale a rilevare il portato stratificato dell’espressione, facendoci muovere così tra le pieghe delle parole come tra le pieghe della pelle, invece che schiacciarci nella chiusura perentoria della definizione. Da un lato si richiama infatti la valenza identitaria connessa al binomio essere/apparire, dove la muta è riconducibile tanto a una condizione di costrizione che porta a Ê»scoppiareʼ, quanto a un cambiamento espressamente ricercato, volto a lacerare la pellicola che dà forma e quindi anche riconoscibilità in un ordine simbolico; dall’altro, si espone il ventaglio emozionale che induce o accompagna tale muta, dal momento che le pelli, tutt’altro che materiale inerte, vibrano e respirano.

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Che cosa ci aspettiamo dalla figura della ragazza sullo schermo? Se l’immagine della donna nel cinema italiano tradizionalmente rappresenta il corpo politico-nazionale (Marcus 2000), quella della ragazza nel cinema italiano contemporaneo offre proprio una specie di anticorpo, promettendo la cura della nazione con la sua presenza. Come osserva Dana Renga (2014, p. 329), la produzione cinematografica più recente di alcune registe italiane mette in scena giovani eroine che dimostrano il «fallimento della metafora paterna». Inoltre, dal 2012, numerosi film con ragazze come protagoniste dimostrano che anche registi uomini hanno interesse ad approfondire le «potenzialità per la resistenza» (Projansky 2014) insite nella figura della ragazza.

Come mai quest’ultima si presta così spesso a questo significato di resistenza nel cinema maschile degli ultimi dieci anni? Catherine Driscoll sostiene che la figlia nella società non capitalista è «una specie di denaro» e che, anche in un contesto capitalista, offre «sistemi di valutazione di prestigio e ricchezza o rappresenta la continuità del lavoro riproduttivo e domestico» (Driscoll 2002, p. 109). La riflessione di Driscoll sui processi di mercificazione legati alla figlia è importante ai fini del mio discorso, in quanto è proprio attraverso tali processi che la figura della ragazza si dimostra capace di resistere. A livello simbolico, la sua resistenza può valere per ognuno di noi in qualità di spettatrici e spettatori, soggetti a processi di disumanazione simili. Spesso in queste rappresentazioni il legame dell’amicizia femminile costituisce una falsariga utopica per la gioia della collettività (Swindle 2011), e anche dalla sua fisicità ludica scaturisce la sua ‘potenzialità per la resistenza’. Però, la resistenza quasi sovraumana che il corpo della ragazza promette è anche una fantasia di ‘resilienza’, proprio nel senso di ‘amazing bounce-backable woman’ che Gill e Orgad identificano nel loro studio sui periodici femminili, sulla letteratura self-help e sulle app per lo smartphone (2018). Nel caso della ragazza, l’enfasi sulla necessità di ‘confidence building’ nei media popolari si esprime soprattutto attraverso il corpo (Banet-Weiser 2017). Così il corpo della ragazza diventa proprio l’anticorpo essenziale alla salute della società odierna, perché la sua capacità di resilience offre la rassicurazione che l’individuo può sempre sopravvivere se s’impegna abbastanza.

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