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Il saggio intende offrire una prima mappatura della declinazione del regime scopico dello sguardo delle donne in relazione al dispositivo fotografico. Attraverso l’analisi di tre casi esemplari si intende proporre una preliminare classificazione delle occasioni in cui l’identità di genere si costruisce a partire da un punto di vista in cui la mediazione della fotografia gioca un ruolo determinante. Il rimando agli scatti fotografici nei testi analizzati rivela una funzione oppositiva alla forza di cancellazione delle soggettività, che può avere varie origini e motivazioni. Puntando l’attenzione sulle forme in cui la fotografia viene tematizzata e si fa materia di narrazione, si delinea un percorso in cui l’evocazione di un’immagine costituisce ora un puntello per la memoria, ora un contrappunto per la costruzione del sé, ora una via di fuga dalla prigione dal male gaze, ora un’occasione di visibilità per le sessualità non normative, ora, infine, un momento di dialogo e ibridazione tra forme, generi e linguaggi.

This essay attempts to draw a map of the spectrum of female gaze in relation to photography. It analyzes three eminent case studies with the aim of deriving a preliminary classification of the instances where gender identity is construed with photography playing a decisive role. The focus on photographic shots within the texts of the case studies reveals how photography counters the various forces, no matter their origin, that tend to erase subjectivity. By highlighting the ways photography is contextualized and made part of the narrative, this study identifies how images reinforce memory, support the construction of the self, offer an escape route from the male gaze or an opportunity for non-normative sexualities to be expressed - and ultimately, they provide a moment where a dialogue between forms, genres and languages can take place.

 

Se oggi la femminilità è scomparsa è perché non è mai esistita.

Simone de Beauvoir

 

Una fotografia è insieme una pseudopresenza e l’indicazione di un’assenza.

Susan Sontag

 

 

Nell’ambivalenza, nella complessità e nell’infinita potenziale declinazione semantica che la soggettività femminile può assumere, ed ha assunto in contesti storici e latitudini geografiche anche molto distanti, il processo discorsivo della sua definizione presenta sempre, espresso in modo più o meno esplicito, delle implicazioni visuali che contribuiscono ad amplificare l’universo di significazione da esso di-segnato. Come ha chiaramente affermato Teresa de Lauretis, il tentativo di dare risposta a un interrogativo apparentemente semplice porta con sé un imprescindibile corollario antinomico, in cui emerge il paradossale regime di invisibilità e di irrappresentabilità legato a doppio filo all’eccesso dell’esibizione di corpi e immagini:

La riflessione e la produzione artistica del movimento delle donne, in tutte le stagioni della sua variopinta storia, nelle molteplici direttrici percorse dal femminismo o dai femminismi, ha sempre dovuto fare i conti con il paradosso di uno sguardo negato e al tempo stesso «prigioniero del discorso», ovvero di uno sguardo costretto a fronteggiare la sfuggente ambiguità della propria restituzione come oggetto e soggetto, lacerato dallo iato che si apre dal suo essere contenuto passivo dell’altrui visione e garante della propria verità. La letteratura delle donne in più occasioni ha accolto le sollecitazioni provenienti da questa ‘ambivalenza’[2] imprescindibile, che emerge all’incrocio di traiettorie estetiche e nel dialogo fra codici e linguaggi artistici con più forza e pregnanza semantica. In questa prospettiva una cross land particolarmente feconda e in parte ancora da esplorare è rappresentata dall’intersezione fra scrittura e fotografia. L’obiettivo del presente contributo è quello di offrire una campionatura della declinazione del regime scopico dello sguardo delle donne in relazione al dispositivo fotografico. Attraverso l’analisi di tre casi esemplari si intende proporre una preliminare classificazione delle occasioni in cui l’identità di genere si costruisce a partire da un punto di vista in cui la mediazione della fotografia, come tema e come dispositivo, gioca un ruolo determinante. Il rimando agli scatti fotografici nei testi presi in esame mostra una funzione oppositiva alla forza di cancellazione delle soggettività, che può avere varie origini e motivazioni. Puntando l’attenzione sulle forme in cui la fotografia viene tematizzata e si fa materia di narrazione, si dipana una serie di possibili percorsi in cui l’evocazione di un’immagine si offre ora come puntello per la memoria, ora come contrappunto per la costruzione del sé, ora come via di fuga dalla prigione dal male gaze, ora come occasione per dare visibilità alle sessualità non normative, ora, infine, come momento di dialogo e ibridazione tra forme, generi e linguaggi.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

1. Immagini di una nuova bellezza: le dive nel/del neorealismo

Queste note su Anna Magnani fanno da corollario a un progetto di ricerca dedicato al divismo neorealista e all’identità femminile, che mi ha visto impegnata a indagare il ruolo svolto dalla pubblicistica popolare cinematografica italiana nell’immediato secondo dopoguerra. All’interno di questo scenario ho cercato di analizzare come i rotocalchi abbiano contribuito alla promozione di volti ma soprattutto di corpi femminili ‘nuovi’; in che modo abbiano operato una cesura rispetto al passato, e che relazione abbiano stabilito con la stagione neorealista nonché con le immagini successive del femminile, quelle prodotte a ridosso degli anni del boom (Pierini 2017).

Attraverso lo spoglio di alcune delle principali testate – Star (1944-1946), Film d’oggi (1945-1947), Hollywood (1945-1949), Film rivista (1946-1948), Fotogrammi (1946-1949), Cinelandia (1946), Cinestar (1946-1947) e Bis (1948-49) – ho potuto individuare alcune linee di tensione che riguardano l’esistenza di forme plurime di divismo in epoca neorealista, ciascuna segnata da caratteristiche proprie. Si tratta di uno stardom che in parte assimila (superficialmente) alcune istanze del neorealismo e in parte invece le nega o le contraddice, in dialettica con il cinema hollywoodiano – e che per di più si muove in uno spazio autonomo ed eccentrico rispetto alla produzione cinematografica vera e propria.

All’interno di un panorama sfaccettato – che qui riassumo attraverso due collage di immagini [figg. 1-2] – sono emersi, sul versante propriamente iconografico, due paradigmi per certi aspetti complementari, che rivelano la centralità della donna come dispositivo e motore di imagery. Le copertine dei rotocalchi offrono una variegata galleria di volti, tra cui si riconoscono grandi dive del passato tornate a nuovi onori, attrici di secondo piano sospinte alla ribalta e dive esordienti: in ciascuno di questi casi stupisce l’attenzione per i dettagli, la sottolineatura di toni ora glamour ora naïf, ad assecondare diverse temperature di sguardo e di racconto. I corpi di stelle famose, o di interpreti pressoché anonime, campeggiano invece soprattutto nelle pagine interne o nel retro di copertina; si distendono su superfici insolite, in pose che disegnano geografie del desiderio piuttosto esplicite. In una stagione «di frenesie e di improvvisazioni, […] di fondazioni sistematiche o totalizzanti o di vacue divagazioni» (Pellizzari 2003, p. 469), il corpo femminile gioca un ruolo cruciale: funge da richiamo e, ovviamente, da stimolo e da appagamento di una generica pulsione voyeuristica, ma è anche l’espressione concreta di uno scenario, divistico ma non solo, che è in mutamento e in via di ridefinizione (Pierini 2017).

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Nel 2016 con un gruppo di dottorandi di Spettacolo dell’Università la Sapienza di Roma, abbiamo tenuto un seminario che si proponeva di riflettere sulla relazione tra corpo, identità e soggetto nelle pratiche teatrali contemporanee. Le tre categorie sono state infatti ambito di riflessione tanto in campo filosofico quanto in quello teatrale. Il seminario nasce da un’interrogazione intorno al termine ʻcorpoʼ, sopravvenuta a partire dalle questioni che la tesi di Dalila D’amico, Le aporie del corpo eccentrico, sollevavano. Che cosa si intende per corpo, di che cosa si parla quando si parla di corpo? Perché si parla di corpo e non di soggetto? Quali funzioni esplica il corpo-identità-soggetto in scena nel repertorio di spettacoli, ambito delle nostre indagini? Quali autori, studiosi, testi ci sono stati d’aiuto per elaborare le nostre analisi e trovare le risposte ai nostri interrogativi?

 

 

Siamo ripartiti da Mondi, corpi, materie, dal terzo capitolo ʻAttore, Performer, Corpo, Spettatoreʼ:

In questa prospettiva, che coglie le trasformazioni della scena teatrale del secondo Novecento, la dominanza di un Ê»teatro-corpoʼ non configura più soltanto la supremazia di un codice che sottomette la parola, ma segnala un cambiamento di paradigma che porta con sé i suoi specifici modi costruttivi: l’agglutinamento, il continuo vs il discontinuo-discreto, le sconnessioni, le posture del corpo in quanto tali e non un attore che compie le azioni previste dalla fabula.

Il corpo, negli ultimi due decenni del XX secolo, ha coinvolto la speculazione di varie discipline, che ne hanno fatto un oggetto d’indagine specifico e non solo un dispositivo da scagliare contro il logos; ci interessava incominciare a scandagliare le forme che va assumendo questa nuova episte­mologia del corpo come soggetto di rappresentazione, consapevoli che il paradigma non è più l’organicità di mente-corpo (embodiment). Difatti nel testo del 2007 ci si chiedeva come questa trasformazione del soggetto fosse descrivibile non solo in termini di perdita di organicità; sosteneva a tal proposito Giorgio Barberio Corsetti:

Se è vero che la danza non ha rappresentato significati e illustrazioni ma energia e azioni (impulsi, turbolenze, agitazioni), possiamo iniziare a inscrivere il corpo-identità-soggetto in una sfera in cui l’energia è compresa?

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La presenza di alcuni pittori indipendenti nello studio fotografico di Nadar nel 1874 a Parigi inaugura una nuova storia dello sguardo. In quella stessa occasione monsieur Manet presenta al Salon ufficiale La ferrovia, cercando più un dialogo con la tradizione che uno scontro accademico. Quest’opera tanto chiacchierata apre il saggio-racconto di Victor Stoichita, Effetto Sherlock (il Saggiatore, 2017).

Quello che il critico rumeno presenta nelle duecentoquarantatré pagine del suo ultimo lavoro è in parte suggerito dal sottotitolo all’edizione italiana: Occhi che osservano, occhi che spiano, occhi che indagano.

La copertina ospita un’enigmatica elaborazione grafica: una lente d’ingrandimento quasi sovrapposta a un’altra contiene il teleobiettivo del voyeur Jeff che dalla finestra sul cortile di Hitchcock (1954-55) è intento a spiare un ‘uomo alla finestra’, affacciato da una pittura di Caillebotte (1875). Questo incontro/scontro produce la sagoma di un terzo occhio che sembra spiarci, interrogare l’osservatore. L’invito dell’autore è chiaro: ci suggerisce di dare uno sguardo. Con stile impeccabile, con rigore logico e leggerezza immaginativa, Stoichita ci aiuta a indossare i panni dell’investigatore di immagini, accompagnandoci verso una storia dello sguardo da Manet a Hitchcock.

Nel quadro La ferrovia (1872-73) accade che non ci sia nessuna ferrovia. La cancellata nera elimina la possibilità della bambina (e la nostra) di scorgerne un solo frammento. L’opera sembra essere la cronaca di un oggetto fantasma che ci interroga sul possibile senso nascosto. Dialogando con la tradizione pittorica europea Stoichita trova nuove disquisizioni semantiche per indagare sull’accaduto. Profila sin da subito un leitmotiv che accompagna l’intero saggio: «lo sguardo ostacolato». Partendo dalla ferrovia di Manet, lo ritrova già nella pittura medievale, disegnando così, è il caso di dirlo, una strada ferrata che attraversa la tradizione del Seicento per giungere al cinema degli anni Sessanta. In questa lettura di viaggio, finestrini d’immagini della storia dell’arte e del cinema scorrono come paesaggi, sempre vari e contrastanti, accomunati dallo stesso tragitto semantico. Muovendosi dalle «figure-filtro» che nelle pitture impressioniste imitano la direzione dei nostri occhi, ostacolandola, Stoichita analizza un «sistema di filtri» (tende, umidità, alberi, e persone) che costringono a un continuo e frustrante «esercizio intellettuale della rivelazione». Il visibile non è più rassicurante: ostacolato perché opaco, singolare perché soggettivo, perde il punto di vista centrale e guarda da un’altra ‘prospettiva’.

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Il lettore di Fototesti. Letteratura e cultura visuale (Quodlibet, 2016) si confronta con questioni sulle quali i visual studies riflettono da anni, a partire perlomeno dal pioneristico Iconotextes di Alain Montandon (1990), cui il volume è non a caso dedicato: in che modo il Novecento ha rappresentato se stesso nella combinazione intermediale del fototesto? Più in generale, quale concezione ha la società occidentale della rappresentazione? Ma, soprattutto, che funzione reciproca assumono la componente fotografica e la componente verbale una volta che si siano fissate nella materialità del prodotto fototestuale? A tali domande, come affermano i curatori Michele Cometa e Roberta Coglitore, il volume tenta di rispondere nutrendo anche l’«ambizione di cogliere alcuni aspetti delle retoriche, verbali e visuali, che il fototesto inaugura» (p. 8).

Alla premessa seguono nove saggi, corredati da un ricco apparato iconografico, imprescindibile del resto in un’ampia ricognizione volta a indagare le tipologie di forme e retoriche in cui si possono incarnare i fototesti. I primi tre svolgono un ruolo di guida rispetto ai successivi. Nel primo capitolo Valeria Cammarata mostra l’esemplarità dei trompe l’œil di Georges Perec e Cuchi White sia in quanto portatori di attitudini sperimentali d’intermedialità che mettono in discussione canoni letterari e artistici pregressi, sia in quanto condensatori di tematiche che si riveleranno fondanti per una definizione del fototesto: ricostruzione memoriale, riflessione su soggetto e autobiografia, relazione immagine/verbo e rappresentazione/illusorietà. Se Roberta Coglitore si concentra sulla necessità di un «nuovo patto foto-autobiografico» affrontando la narrazione fototestuale del sé, Forme retoriche del fototesto di Michele Cometa viene a costituire il fulcro teorico del volume, nonché il punto di arrivo di numerosi studi condotti dall’autore sui dispositivi della visione, tra i quali quello sulla collaborazione col dedicatario Montandon, dal titolo Vedere. Lo sguardo di E. T. A. Hoffmann (2009). In particolare, lo studioso si focalizza sulle tre retoriche principali dei fototesti. Dato che la fruizione possiede una complessità maggiore della semplice lettura, anzitutto bisognerà individuare quelle che sono definibili come retoriche dello sguardo; in secondo luogo, per la centralità del supporto mediale, sarà opportuno distinguere alcune retoriche del layout, per poi, in ultima istanza, concentrarsi su quelle dei parerga, proprio in virtù della compresenza tra «integrazioni testuali dell’immagine e integrazioni visuali al testo» (p. 78). Col procedere dell’indagine, Cometa offre un quadro dettagliato delle forme in cui è possibile rinvenire i fototesti e analizza le modalità mediatiche nel loro relazionarsi.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →

 «C’era una volta […] un pezzo di legno…»: il romanzo di Collodi inizia come una fiaba, perché della fiaba assume la capacità delle infinite reincarnazioni proprie del Mito; una forza rigenerativa che si impone anche nelle letture critiche delle diverse reincarnazioni.

Molti anni fa, nel confrontarmi con la teatralità della quale sono intessute le pagine di Pinocchio sulla scorta di differenti traduzioni sceniche dell’opera, mi appoggiavo all’insuperato testo di Manganelli, e in particolare alla definizione del romanzo come «un libro cubico» (Manganelli, 1982, p. 8): un libro non si realizza nella bidimensionalità della pagina, ma è passibile di letture che seguono altri itinerari, i quali in modo diverso collegano parola a parola, segni d’interpunzione, spazi bianchi. Tale tridimensionalità è la generatrice di tutti i libri paralleli al primo, che da questo possono scaturire.

In questa folgorante sintesi di Pinocchio, un libro parallelo leggevo il nocciolo della questione: un libro che dalla apparente bidimensionalità della pagina squadernava lo spazio cubico della scena. E in particolare di una scatola più piccola del normale, come avviene per il teatrino delle marionette o dei burattini. Questa forma cubica si può percorrere seguendo direzioni e tracciati ogni volta nuovi e imprevedibili, necessaria configurazione di ogni lettura del testo che miri alla messinscena. Pinocchio, redatto informa narrativa, contiene una quantità di motivi teatrali che si traducono in indizi scenici. Un libro che per predisposizione naturale si affida alla voce e al gesto, alle visioni e al movimento, un testo costituito da battute e parti narrate che fungono da didascalie. Lo stile di Collodi offre temi che si ripetono ‘musicalmente’, adatti alle variazioni; la lingua suggerisce il dinamismo dell’azione. Ma gli anni che ci separano da quel momento (1982, lo studio di Manganelli; 1997 le mie riflessioni di allora) impongono di mutare sguardo: letta oggi, la definizione di Manganelli può essere interpretata diversamente, o ulteriormente. Non solo o non tanto la facile analogia con la scatola scenica, ma la potenzialità di quelle pagine di dispiegarsi in nuove accezioni dell’universo teatrale. La scena contemporanea ci invita a staccarci dalla necessità di definire il teatro (solamente) come produzione dello spettacolo e a includervi tracciati diversi.

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1. «Prima la donna»

Entriamo subito nel cuore della recensione: la mostra Lyda Borelli primadonna del Novecento, attualmente in corso presso la Galleria di Palazzo Cini a Venezia (chiuderà i battenti tra pochissimo, il 15 novembre), merita di essere visitata perché ci restituisce il profilo di una donna e di una artista del «nostro tempo», che non è solo quello dei primi anni Dieci del secolo scorso, secondo quanto ricorda Mario Carli nella citazione in esergo tratta da una dedica presente nel romanzo Retroscena del 1915, ma è anche quello del nostro presente, ovvero degli anni Dieci del nuovo secolo. Certo l’immagine e la fama di Lyda Borelli sono indissolubilmente legate all’Italia che si preparava e poi affrontava la Grande Guerra, che era attraversata da sussulti modernisti e iniziava a conoscere grandi trasformazioni negli stili di vita, nell’organizzazione urbana, nelle manifestazioni artistiche. Si tratta tuttavia di aspetti che altre mostre e altri libri si sono già presi il compito di rammentare in precedenti circostanze.

Il merito della personale curata da Maria Ida Biggi, e fortemente voluta dall’Istituto per il Teatro e per il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini, è invece quello di aver cercato di compiere un passo in avanti, valorizzando gli aspetti della vita dell’attrice spezzina che parlano anche agli spettatori e alle spettatrici di oggi. Già conoscevamo Borelli per essere stata la più celebre Salomè dei palcoscenici italiani e, forse ancor di più, per essere stata, con Francesca Bertini ed Eleonora Duse, una delle più famose dive del cinema muto internazionale; l’allestimento della Galleria di Palazzo Cini ci restituisce invece una donna a tutto tondo, dove accanto a preziosi materiali dell’epoca che ne documentano il successo professionale (stampe, locandine, recensioni, fotografie di scena) ne emergono altri, altrettanto eterogenei (quadri, costumi, fotografie, vetrini, sculture e molto altro), che esaltano invece la sua straordinaria consapevolezza, contemporanea appunto, nei modi di essere e di apparire, nelle condotte sociali da adottare e nelle passioni da coltivare, fuori e dentro i teatri di posa o i palcoscenici teatrali.

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L’interesse dell’autrice per la questione al centro del volume, le interconnessioni fra scrittura e, alla lettera, scrittura della luce, si è consolidato nel tempo: procede quantomeno dalla partecipazione a un progetto di ricerca sulla letteratura e le arti, confluito nella curatela, in collaborazione, di Guardare oltre (2008), per prendere le forme più distese e organiche di Il nulla, quasi, del 2010.[1] In quest’ultima opera (recensita da chi scrive nel fascicolo 9-10 dei «Fogli di Anglistica», del 2011), focalizzata su un sottotema vincolante e nondimeno molto diffuso nella narrativa contemporanea, quello delle foto e degli album di famiglia, spiccava la capacità di rendere conto della fotografia amatoriale, o domestica, come frammento memoriale; traccia documentaria, sì, ma anche, nel suo carattere necessariamente precario e incompleto, indice perturbante di lettura, e finanche mezzo per demistificare, all’interno del racconto, «il costrutto ideologico sotteso all’organizzazione dell’album familiare, l’idealizzazione dell’unità della famiglia e la sua trasformazione in un desiderabile prodotto sociale»: così l’autrice nella ripresa recente del tema, nel volume qui scrutinato (p. 54).

Questo per individuare un plausibile cuore pulsante del libro, la consapevolezza del grado di intimità al quale, in maniera efficace, il trattamento tematico della fotografia riesce a pervenire. In altri luoghi del libro (anticipo qui i contenuti del terzo capitolo, per molti aspetti legato al secondo, da cui abbiamo preso le mosse), come nell’analisi dell’opera di Geoff Dyer, l’autrice snida costanti patemiche, effetti rappresentativi cui dà vita la tecnica narrativa, quasi incorporando angolo prospettico e profondità di visuale propri dell’atto fotografico, restituendo così il senso dell’inquadratura e della ‘cesura’, mediante una modalità di «re-inquadra[re] il reale» che lo ammanta di «sfumature di nostalgia, distanziandolo dal presente per fissarlo nell’atemporalità dello scatto» (p. 88). Lungi dall’impilare analisi singolative incapaci di comporsi in una visione d’assieme del contemporaneo, Albertazzi verifica e attiva consonanze: e allora, sempre in questo nucleo composto da scritture dall’intensa riflessione memoriale sul sé, agiscono i nomi di Anita Brookner e Annie Ernaux, quest’ultima convocata anche in un altro punto del testo, ancora nell’ambito del vernacolare-amatoriale, ovvero là dove la scrittrice, nella lucida e implacabile operazione autofinzionale di evocazione e reintegro dei tratti per il Posto delle sue origini, della sua prima vita familiare, mette esemplarmente in opera il ruolo primario svolto dalle fotografie nella letteratura autobiografica: «non certo restituire ciò che tempo e distanza hanno cancellato, quanto attestare che qualcuno – qualcosa – è esistito, è stato e ancora si riverbera nel presente» (pp. 53-54).

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Tra tutte le dive del cinema italiano, Monica Vitti è stata quella che più ha reso la rappresentazione della ‘scopia’ femminile una vera e propria iconografia cinematografica. Consacrata dalla collaborazione con Michelangelo Antonioni nella cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità (L’avventura - 1960, La notte - 1961, L’eclisse - 1962) in bianco e nero, il cui atto finale può essere considerato l’uso poetico del colore in Il deserto rosso, l’attrice ha poi inanellato collaborazioni con numerosi registi italiani e internazionali, sviluppando inoltre una spiccata caratterizzazione comica, soprattutto a partire dai film di Monicelli. Eppure, è proprio l’inespressività del volto dei suoi personaggi nei film del regista ferrarese ad averla trasformata da attrice a icona e poi a diva, bacino di caratteri individuali e collettivi che si fondono all’interno di un’immagine insieme astratta e concreta.

Il processo di trasfigurazione del corpo e dell’individualità dell’attrice verso la sfera simbolica dell’icona è già di per sé parte integrante della parola Ê»divaʼ, cui siamo soliti attribuire la capacità di riflettere una serie di desideri (per lo spettatore) e di processi di identificazione (per la spettatrice). Tuttavia, nell’approfondire il rapporto con l’etimo latino divinum (Bronfen, Straumann 2002), emerge anche un’ontologia singolarizzante, in cui è possibile leggere in modo innovativo il rapporto fra attrice e sguardo. Il significato etimologico di Ê»divinoʼ sembra sopravvivere infatti nella somiglianza che la diva intrattiene con la figura della santa martire, attraverso due opposizioni semantiche: pubblico vs. privato (perché è il pubblico a possedere il loro corpo), esibizione vs. perdita di sé (come effetto mediatico, ma anche fisico nel caso del martirio).

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