A seguito di una formazione felicemente ibrida, fra studi di violoncello e maturazione performativa presso l’Accademia Paolo Grassi di Milano, Nicola Berloffa affronta la sfida con i coefficienti dell’Opera con un arsenale ricco di esperienze e mezzi, che gli consente di trovare soluzioni visive senza dubbio innovative e audaci. Il rispetto della partitura e della drammaturgia musicale, da sempre al centro del suo percorso, non esclude la scelta di tentare contaminazioni fra codici diversi, con un frequente impiego di suggestioni e frame cinematografici a completare l’assetto scenografico. Sempre in equilibrio fra repertorio e nuove scritture, Berloffa attinge di volta in volta al suo «hard-disk di sensazioni e ricordi» lasciandosi guidare da matrici di ispirazione diversa (la pittura, la fotografia, la letteratura), che gli consentono di comporre dei «puzzle» registici mai ovvi, come nel caso della Madame Butterfly prodotta dal Teatro Massimo di Palermo nel 2016 e poi riproposta allo Sferisterio di Macerata. La consapevolezza acquisita in campo internazionale, con produzioni significative in molti angoli del mondo (dall’Europa al Far East), consente a Berloffa di lavorare per ‘sottrazione’, senza accumuli o soluzioni a effetto, interpretando i caratteri dei personaggi a partire dai «colori della musica» e restando quindi sempre perfettamente in equilibrio fra tradizione e rinnovamento delle forme.

 

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Lo scenografo Paolo Fantin ormai da quasi un ventennio collabora con Damiano Michieletto, uno dei registi d’opera contemporanei più rinomati. Dalla Gazza ladra, messa in scena nel 2007 per il Rossini Opera Festival, è nato un sodalizio che attraversa non solo la lirica ma anche il cinema e di recente l’orizzonte delle arti visive. Damiano Michieletto, Paolo Fantin, Alessandro Carletti e Matteo Perin hanno infatti dato vita a Oφcina (Ophicina), descritto dai membri come un ‘laboratorio creativo’, che ha avuto come primo prodotto Archèus. Labirinto Mozart, un’installazione immersiva realizzata per La Biennale di Venezia. La conversazione con Fantin, registrata via web in data 18 febbraio 2022, ha spaziato dalla sua formazione agli obiettivi del suo lavoro, con mirata attenzione al processo creativo e all’uso della tecnologia nell’invenzione dello spazio scenico. Dalle risposte ricevute è possibile comprendere come uno dei punti di forza di Michieletto e del suo team creativo sia la ricerca di una commistione di vari linguaggi artistici che si rinnova ad ogni lavoro. Il loro punto di partenza è sempre la storia da raccontare, quindi l’utilizzo delle steady-cam sulla scena, la rimediazione in più schermi, i video preregistrati in Rigoletto, gli inserti del Gianni Schicchi, gli oggetti-simbolo che ‘vivono’ nelle cinque stanze di Archèus, i diversi materiali delle scenografie sono tutte soluzioni espressive pensate per accompagnare e rafforzare il senso drammaturgico delle opere.

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Figura tra le più rappresentative della regia d’opera contemporanea, Davide Livermore ha firmato una nuova edizione di Elisabetta regina d’Inghilterra di Gioachino Rossini per il Rossini Opera Festival 2021. Il Konzept di Livermore è la voluta ibridazione tra le icone delle due regine Elisabetta, I e II, filtrato attraverso recenti esperienze cinematografiche (The Queen) e di fiction (The Crown). Il regista crea una successione di ‘ambienti’ che hanno lo scopo di acclimatare lo spettatore, fornendo un esempio significativo di ‘rimediazione’ di un personaggio iconico e di drammaturgia crossmediale, capace di fondere elementi di provenienza eterogenea in uno spettacolo di forte coerenza e impatto teatrale.

One of the most representative figures of contemporary operatic direction, Davide Livermore has realized a new production of Gioachino Rossini’s Elisabetta regina d’Inghilterra for the Rossini Opera Festival 2021. Livermore’s Konzept is the hybridation on purpose of the iconic two Queen Elizabeth, the I and the II, filtered through recent cinematographic (The Queen) and fictional (The Crown) experiences. The director has created a sequence of settings with the aim of making the audience accustomed to the subject, thus giving a significant example of ‘remediation’ of an iconic character and of crossmedial dramaturgy, and blending elements of heterogeneous origin in a performance of strong coherence and deep theatrical impact.

 

1.«Possa ognor, felice appieno, teco l’Anglia giubilar!»

 

Uneasy lies the head that wears a crown.

William Shakespeare, King Henry Fourth, Second part, III, 1 (1598)

 

 

Nobile e silente, l’ombra di un cervo si aggira sul palcoscenico. Rappresenta il richiamo della natura, violata e assente, un eden d’incorrotta perfezione. Ma fors’anche qualcosa in più: è la prima di una lunga serie di citazioni con cui Davide Livermore costella la sua produzione di Elisabetta regina d’Inghilterra di Gioachino Rossini, nell’agosto del 2021, per il cartellone del Rossini Opera Festival di Pesaro.[1]

Programmato (casualmente?) nel 2020, in tempi di Brexit, il dramma per musica rossiniano è stato ‘recuperato’ l’anno successivo: appuntamento lungamente atteso per la caratura storica dell’opera, titolo di esordio del Pesarese a Napoli, il 4 ottobre del 1815, «giorno onomastico di Sua Altezza Reale il Principe ereditario delle Due Sicilie», come recitava il frontespizio del libretto del debutto; ma anche atto di battesimo di un settennato che avrebbe consacrato, al tempo stesso, la gloria imperitura di Rossini e le fortune di Domenico Barbaja, impresario dei Reali Teatri di Napoli.[2] Su libretto di Giovanni Schmidt, Elisabetta era dunque il primo titolo di quell’«engagement» che presto si sarebbe rivelato come il più significativo e duraturo nella carriera di Rossini, perfezionato proprio dopo il successo dell’opera in un contratto destinato a estendersi su «plusieurs années»,[3] fino al 1822.[4] Di più: dietro la scelta del soggetto, di fonte francese e italiana, si celava il desiderio di un uso celebrativo del «Teatro del Re», che proprio nelle tormentate vicende della regina Tudor coniugava un tributo alle milizie britanniche, strategiche nella restaurazione dell’ancien régime, come alla clemenza del nuovo – e al tempo stesso vecchio – corso, di cui si esaltava programmaticamente la lungimiranza politica.[5]

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Davide Livermore è uno dei registi d’opera più interessanti e innovativi nel panorama italiano dell’ultimo decennio. In questo contributo si prenderanno in considerazione due suoi recenti allestimenti: Norma di Vincenzo Bellini (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 settembre 2021) e Macbeth di Giuseppe Verdi (Milano, Teatro alla Scala, 7-29 dicembre 2021). I due spettacoli sono stati scelti per l’originalità delle proposte del regista e per la loro esemplarità: la loro analisi consente infatti di mettere a fuoco alcuni aspetti fondamentali della ‘scrittura scenica’ di Livermore e al tempo stesso di affrontare una serie di questioni cruciali relative alle modalità di trasmissione e di ricezione del repertorio operistico nel panorama culturale contemporaneo. In particolare la ‘scrittura scenica’ di Livermore sarà analizzata alla luce del suo ricorso alle più avanzate tecnologie digitali, della sua tendenza a progettare la drammaturgia visiva in funzione della rimediazione in televisione e nei nuovi media e del radicamento del regista nell’estetica del postmodernismo.

Davide Livermore is one of the most interesting and innovative opera directors on the Italian scene of the last decade. This article will consider two of his recent productions: Norma by Vincenzo Bellini (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 September 2021) and Macbeth by Giuseppe Verdi (Milan, Teatro alla Scala, 7-29 December 2021). The two shows were chosen for the originality of the director’s proposals and above all for their exemplariness: their analysis, in fact, allows to focus on some key aspects of Livermore’s ‘stage writing’ and at the same time to address a series of crucial issues relating to the modes of transmission and reception of the operatic repertoire in the contemporary cultural landscape. In particular, Livermore’s ‘stage writing’ will be analyzed in the light of his using the latest digital technologies, of his tendency to design the visual dramaturgy on the basis of remediation in television and new media and the rooting of director’s theatrical language in the aesthetics of post-modernism.

1. Tra partitura e ‘scrittura scenica’

Il 2021 ha visto diversi nuovi allestimenti di Davide Livermore, quasi tutti di titoli verdiani. In ordine cronologico si segnalano Elisabetta regina d’Inghilterra (Pesaro, Rossini Opera Festival, 11-21 agosto 2021), Norma (Catania, Teatro Massimo Bellini, 23 settembre 2021), La traviata (Firenze, Maggio Musicale Fiorentino, 17 settembre-5 ottobre 2021), Giovanna D’Arco (Roma, Teatro dell’Opera, 17-26 ottobre 2021), Rigoletto (Firenze, Maggio Musicale Fiorentino, 19-24 ottobre 2021), Macbeth (Milano, Teatro alla Scala, 7-29 dicembre 2021). In questo contributo si prenderanno in considerazione le messinscene della Norma di Vincenzo Bellini e del Macbeth verdiano. I due spettacoli sono stati scelti non tanto per la loro risonanza mediatica, quanto piuttosto per l’originalità delle proposte del regista e soprattutto per la loro esemplarità: la loro analisi consente infatti di mettere a fuoco talune fondamentali costanti della ricerca drammaturgica di Livermore e al tempo stesso di affrontare una serie di questioni cruciali relative alle modalità di trasmissione e di ricezione delle opere di repertorio nel panorama culturale contemporaneo.

Oggetto privilegiato dell’indagine sarà la ‘scrittura scenica’ che sovrintende entrambi gli allestimenti, laddove per scrittura scenica si intende – per dirla con Lorenzo Mango – «l’insieme degli elementi legati alla messa in scena, considerati non più come tanti fattori collaterali alla artisticità del teatro ma come parte integrante di un progetto creativo che è “scrittura” poiché determina e compone l’opera d’arte teatrale».[1] Del resto gli studi sulla dimensione performativa del teatro musicale, che si sono sviluppati negli ultimi decenni sotto la spinta del ‘Regietheater’, ci hanno insegnato che la messinscena di un’opera può venire presa in considerazione nella sua autonomia estetica rispetto al libretto e alla musica. Come ha evidenziato Clemens Risi,

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A partire dal riconoscimento dell’importante ruolo drammaturgico che il teatro di William Shakespeare ha avuto da sempre nell’evoluzione dell’opera lirica, il saggio si concentra sulla lettura critica di tre spettacoli inaugurali delle stagioni operistiche in corso: l’Otello musicato da Verdi su libretto di Arrigo Boito, che con la regia di Mario Martone ha debuttato a novembre 2021 al Teatro San Carlo di Napoli; il Macbeth musicato da Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, diretto da Davide Livermore a dicembre 2021 al Teatro alla Scala; il  Julius Caesar musicato da Giorgio Battistelli su libretto di Ian Burton, messo in scena da Robert Carsen a novembre 2021 al Teatro dell’Opera di Roma. Dalla puntuale ricognizione dei tratti stilistici e simbolici di queste messinscene, corroborata da mirati confronti con altri spettacoli musicali degli stessi autori, emergono le grandi potenzialità intermediali delle odierne regie dell’opera lirica, capaci di affrontare, rivivere e trasformare temi e testi del passato secondo una sensibilità artistica contemporanea e un’autorialità autenticamente condivisa.

Beginning with the recognition of the important dramaturgical role that William Shakespeare’s theater has always played in the evolution of opera, the essay focuses on the critical reading of three inaugural shows of current opera seasons: Otello set to music by Verdi to a libretto by Arrigo Boito, which under the direction of Mario Martone debuted in November 2021 at the Teatro San Carlo in Naples; Macbeth set to music by Verdi to a libretto by Francesco Maria Piave, directed by Davide Livermore in December 2021 at the Teatro alla Scala; and Julius Caesar set to music by Giorgio Battistelli to a libretto by Ian Burton, staged by Robert Carsen in November 2021 at the Teatro dell’Opera di Roma. From the precise recognition of the stylistic and symbolic traits of these productions, corroborated by targeted comparisons with other musical shows by the same authors, emerges the great intermedial potential of today’s opera directions: capable of addressing, reviving and transforming themes and texts of the past according to a contemporary artistic sensibility and an authorship that is authentically shared.

Dopo la forzata chiusura dei teatri per effetto della pandemia, l’autunno scorso ha segnato un ritorno dello spettacolo dal vivo che ha offerto una significativa prova della vitalità produttiva degli enti lirici e della necessità di cogliere i fermenti culturali e di senso che germinano attorno a classici di ogni tempo. Nel contesto della stagione 2021-2022 tre teatri hanno scelto opere tratte da tragedie di Shakespeare, il Teatro San Carlo di Napoli, il Teatro dell’Opera di Roma, il Teatro alla Scala di Milano, confermando come la forza poetica del bardo abbia giocato un ruolo importante nella storia dell’opera. I rapporti fra Shakespeare e l’immaginazione melodrammatica seguono in una prima fase percorsi indiretti, attraverso la mediazione del neoclassicismo francese, poi invece divengono modello diretto di una poetica romantica che ricercava la varietà di stili e la potenza emotiva (lo chiarisce un saggio di Fabio Vittorini).[1] In particolare, Shakespeare è stato una presenza costante e quasi ossessiva nell’universo di Giuseppe Verdi, alimentando il suo ideale drammaturgico della parola scenica.

La dirompente forza espressiva del trittico shakespeariano ha spinto chi scrive a tentare una lettura in parallelo di regie molto diverse per impianto e codici performativi ma in grado di riattivare un confronto fra due capolavori di Verdi, Otello e Macbeth, e una novità composta per l’occasione da Giorgio Battistelli, Julius Caesar.

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Come si racconta la bellezza dell’opera lirica oggi? Laddove con bellezza si intende l’esperienza estetica che non si appoggia acriticamente all’autorevolezza del canone lirico, ma nemmeno cerca soluzioni consolatorie che rendano più digeribili l’orrore e la sofferenza raccontati dal melodramma. Questa è la questione cruciale che il saggio pone e alla quale prova a rispondere percorrendo un doppio binario. Da un lato il ricorso al pensiero della critica femminista francese e della new musicology anglosassone, che hanno considerato i nodi problematici della narrazione operistica in relazione alle sue politiche di genere; dall’altro l’analisi miratamente calibrata in quest’ottica di quattro allestimenti del teatro musicale contemporaneo (Carmer di Emma Dante, Don Giovanni di Robert Carsen, Rigoletto di Damiano Michieletto, Un ballo in maschera di Grahm Vick) che, mettendo l’opera in dialogo interstuale con altre forme artistiche, affrontano la più ardua sfida del presente opersitico: raccontare la violenza e l’orrore che sono il cardine dell’esperienza estetica del melodramma, e dunque provare a farne, ancora e di nuovo, sollecitazione insieme etica ed estetica, esperienza di bellezza.    

How is the beauty of opera told today? Where beauty means the aesthetic experience that does not uncritically rely on the authoritativeness of the opera canon, but neither does it seek consolatory solutions that make the horror and suffering narrated by melodrama more digestible. This is the crucial question that the essay poses and to which it tries to respond by following a double binary. On the one side, there is the recourse to the thought of French feminist criticism and of the Anglo-Saxon new musicology, which have deal with the problematic nodes of opera narration in relation to its gender politics; on the other side, the analysis of four productions of the contemporary musical theater (Carmer by Emma Dante, Don Giovanni by Robert Carsen, Rigoletto by Damiano Michieletto, Un ballo in maschera by Grahm Vick) which, by placing opera in an intertextual dialogue with other artistic forms, face the most difficult challenge of the operistic present: to recount the violence and the horror that are the fulcrum of the aesthetic experience of melodrama, and thus to try to make it, one again, a solicitation that is both ethical and aesthetic, an experience of beauty.

In occasione della prima del suo Otello in scena al San Carlo di Napoli nel dicembre 2021, il regista Mario Martone dichiara:

La domanda del regista napoletano non nasce esclusivamente dal suo confronto personale con il capolavoro verdiano, un vero e proprio ‘corpo a corpo’ da cui è emersa una Desdemona combattente e affatto angelicata, protagonista di un finale profondamente perturbante e innovativo (come racconta su queste stesse pagine Massimo Fusillo). Quella sollevata da Martone è infatti una necessità che anche nel mondo della lirica è diventata ormai ineludibile: quella di confrontarsi con i nodi politici che sostengono la narrazione operistica, e in particolare con le sue politiche di genere.

Che l’opera lirica, e in particolar modo il melodramma ottocentesco, sia una estenuante litania di morti di donne eccezionali è noto almeno a partire da L’opera lirica, o la disfatta delle donne della femminista francese Catherine Clément (1979), che aveva puntato il dito senza remore contro le dinamiche intrecciate di sadismo e misoginia che permettono al melodramma popolare di celebrare personagge meravigliosamente eccentriche solo per poi godere della loro morte, tragica e spesso cruenta:

La chiave, per Clément, è proprio nel libretto, che nel suo ruolo apparentemente ancillare rispetto alla pervasività emotiva della musica riesce a far sedimentare in maniera quasi surrettizia il messaggio ideologico: le donne che trasgrediscono l’ordine patriarcale, che desiderino ad esempio la redenzione pur essendo prostitute (Violetta in La traviata); la libertà di lasciare un uomo che non amano più (Carmen); ribellarsi alla violenza anche sessuale del potere (Tosca); o semplicemente essere amate, «di un bene piccolino», e non solo usate come esotici oggetti sessuali (Madama Butterfly)… Tutte devono morire; di una ‘bella morte’ certo, perché su quel cadavere si stabilizzano le ambivalenze, si instaura il confine tra il sé e l’altra, tra il normativo e l’abietto. È inevitabile che il ‘canone’ di Clément sia strategicamente essenzialista, e volutamente ignori ad esempio l’opera buffa, dove la ribellione delle donne di norma viene premiata (spesso con un marito ricco), o l’opera barocca, dove i molti ruoli en travesti rendono il binarismo di genere più fluido, aperto a incarnazioni stratificate e antinormative, come racconta un’altra femminista francese (autrice con Clément del fondamentale La jeune née), Hélène Cixous nel suo Tancredi continua.[3]

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L’impatto della pandemia sullo spettacolo dal vivo ha prodotto uno stato di necessità inedito: garantire la fruizione dei contenuti performativi e mantenere in vita il rapporto con i pubblici nonostante l’impossibilità dell’incontro diretto tra attori e spettatori, della loro relazione in presenza. Per affrontare la crisi di relazionalità spaziale che connota il ‘teatro al tempo del Covid’ si sono moltiplicate le iniziative di meditizzazione e webcasting degli spettacoli, con risultati artistici eterogenei ma un ambito di intervento comune: lo spazio performativo ripensato alla luce del trasloco mediale degli eventi. In questo frangente senza precedenti Mario Martone ha ideato e realizzato due allestimenti per il Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini e La traviata di Giuseppe Verdi, che hanno scardinato ogni convenzione formale della messa in scena operistica, reiventandola secondo principi e procedimenti di ordine cinematografico. Le operazioni-opere di Martone, concepite appositamente per essere trasmesse sui canali televisivi e streaming della Rai, risultano esemplari, addirittura paradigmatiche di un netto ripensamento del genere del film d’opera, che il regista napoletano rimodula stilisticamente come opera-film, lavorando sulla cineficazione dello spazio teatrale e delle sue dinamiche attanziali. Il saggio, a partire da una propedeutica ricognizione storiografica del profilo artistico di Martone, analizza e interpreta le reinvenzioni spaziali delle regie liriche sopracitate, secondo due chiavi di lettura divergenti ma complementari: la designazione filmica dello spazio vuoto de Il barbiere, rappresentato e filmato nella sala deserta del Teatro Costanzi per evidenziare l’assenza del pubblico e la finzione scenica, e, all’opposto, l’occultamento cinematografico del vuoto spettatoriale e dell’artificio performativo de La traviata, ottenuto trasformando l’intera platea dell’Opera di Roma in un set realistico e site-specific. La lettura critica dei casi di studio è corroborata da un impianto metodologico che compendia la speculazione di Peter Brook sul valore rivelatorio dell’empty space, le acquisizioni degli Opera Studies sull’astrazione antinaturalistica del teatro musicale, le nozioni di mediatizzazione e cineficazione teatrale segnatamente applicate allo spazio performativo dell’opera lirica. 

The impact of the pandemic on live performance has produced an unprecedented state of necessity: guaranteeing the fruition of performance contents and keeping alive the relationship with audiences despite the impossibility of a direct contact between actors and spectators, of their relationship in presence. In order to tackle the crisis of spatial relationality that characterizes the ‘theatre at the time of Covid’, initiatives for the mediatisation and webcasting of performances have multiplied, with heterogeneous artistic results but a common sphere of intervention: the performance space rethought in the light of the media transfer of events. In this unprecedented juncture Mario Martone conceived and realized two productions for the Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia by Gioachino Rossini and La traviata by Giuseppe Verdi, which broke down all formal conventions of opera staging, reinventing it according to cinematographic principles and procedures. Martone’s opera-operations, conceived specifically to be broadcast on Rai television channels and streaming, are exemplary, even paradigmatic of a net rethinking of the film of opera genre, which the Neapolitan director stylistically remodels as an opera-film, working on the cinefication of the theatrical space and of its actantial dynamics. The essay, starting from a preliminary historiographical survey of Martone’s artistic profile, analyses and interprets the spatial reinventions in the above-mentioned productions, according to two divergent but complementary keys to interpretation: the filmic designation of the empty space in Il barbiere, represented and filmed in the deserted space of Teatro Costanzi to highlight the absence of the audience and the stage fiction, and, at the opposite, the cinematographic occultation of the spectatorial void and the performative artifice in La traviata, obtained by transforming the entire stalls into a realistic and site-specific film set. The critical reading of the case studies is corroborated by a methodological framework that encompasses Peter Brook’s speculation on the revelatory value of empty space, the acquisitions of Opera Studies on the antinaturalistic abstraction of musical theatre, the notions of theatrical mediatisation and cinefication specifically applied to the performance space of opera.

1. Visioni dello spazio nel teatro di Martone

«Quel che cerco è il respiro comune di attori e spettatori. Quale che sia lo spazio, felicemente assembrati in sala o fatalmente divisi da un teleschermo, quello e nient’altro è il teatro».[1] Così Mario Martone descrive la vocazione che muove il suo lavoro registico, la ricerca di una ‘comunione di respiro’ tra attori e spettatori non vincolata al tangibile, alla dinamica fisica fra scena e platea, ma capace di prodursi anche nell’impalpabile, nella reciproca consapevolezza di vivere e di sentire l’esperienza del teatro.

Nel contesto spettacolare dell’epoca Covid sappiamo che il ‘corpo a corpo’ di emittenti e destinatari nello spazio deposto al teatro è entrato radicalmente in crisi, e che il medium teatrale ha dovuto affrontare il più estremo compromesso della sua storia millenaria: l’assenza del pubblico dal vivo. Nella crisi di relazionalità spaziale che connota il presente pandemico una delle più convincenti reinvenzioni dello spazio performativo è arrivata dalla teatralità operistica, ed esattamente dalle due messinscene de Il barbiere di Siviglia e de La traviata prodotte dal Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Martone, e trasmesse su Rai3 rispettivamente a dicembre 2020 e ad aprile 2021. Eclettiche reinvenzioni del genere del film d’opera, gli spettacoli realizzati da Martone fanno leva sul versante della spazialità teatrale rimediata cinematograficamente, per superare l’impasse dello spettacolo ‘in carne e ossa’ fisicamente inaccessibile al pubblico.

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Il teatro e la musica erano un tutt’uno, e poi si sentiva il riferimento a un luogo preciso del mondo che sotterraneamente dialogava con tutti gli altri. [...] In certi passaggi del concerto era impossibile stare fermi; la musica ti comunicava un’eccitazione del corpo incontenibile, la testa ondeggiava veloce, il piede batteva sul pavimento, la poltrona del teatro dondolava.[1]

La musica degli Osanna, scoperta dal protagonista del romanzo di formazione di Silvio Perrella nella città partenopea Giùnapoli è esperienza del corpo. E come tale, potente eccitamento dei sensi e della mente.

Il corpo è ritmo e movimento: ogni esperienza estetica lo attraversa in maniera dinamica, stimolando una percezione della realtà nuova, diversa, multimodale, potenziata, acuita e, al contempo, una produzione di senso determinata dalla pervasività dei sensi e dalla condivisione empatica con gli altri. In questa esperienza sentimento e ragione, emozione e pensiero interagiscono in modalità sempre diverse e irripetibili, in parte determinate dalla soggettività, in parte dall’interazione emotiva e cognitiva con l’altro.

Come era ben noto sin dall’antichità, nella performance teatrale l’esperienza estetica è totalizzante: coinvolge la vista, l’udito, l’olfatto, il battito cardiaco, le ghiandole sudorifere, la salivazione, in breve la dimensione corporea nella sua interezza. E tramite il corpo, che si fa specchio di quello attante in scena, in grado di simulare forti emozioni Ê»artificialmenteʼ indotte dalla tecnica attoriale, sviluppa la sua efficacia empatica di condivisione emotiva e cognitiva con gli altri, come sa bene chi maneggia gli strumenti della scrittura teatrale. Uno per tutti Thornton Wilder, che afferma lucidamente in un’intervista: «I regard the theatre as the greatest of all art forms, the most immediate way in which a human being can share with another the sense of what it is to be a human being».[2]

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Emma Dante ha ormai una intensa esperienza nel campo della regia d’opera e con Macbeth (2017) conferma la vocazione verso uno stile visivo di grande impatto e una recitazione fortemente corporea. Il saggio esplora tre livelli della composizione registica dell’opera – il livello fisico-gestuale, il livello rituale, la commistione fra tragico e comico – e concorre a restituire l’ampiezza di rimandi figurativi e simbolici.

Con il Macbeth co-prodotto dal Regio di Torino, dal Massimo di Palermo e dallo Sferisterio di Macerata (2017), e presentato al Festival di Edimburgo dove ha ottenuto l’Angel Herald Award, Emma Dante si confronta anche inevitabilmente con il genere della tragedia, e con una delle sue realizzazioni più radicali. La sua radicalità scaturisce dall’empatia negativa per il protagonista in preda a conflitti e ossessioni dilaceranti: è un viaggio mentale negli strati più oscuri e notturni della psiche. Non è un caso che questo spettacolo abbia punti di contatto con un’altra esperienza della regista palermitana in ambito tragico, la Medea, un testo altrettanto ricco di empatia negativa e di conflittualità psichica ed etnica.

Anche in questo caso, come nelle regie d’opera precedenti, Emma Dante integra il cast operistico con un gruppo di attori e danzatori, provenienti in parte dalla sua Compagnia, in parte dalla Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo. Crea così un altro testo parallelo, che si incrocia con quello primario, potenziandone e sviluppandone alcuni nuclei tematici che ora ripercorreremo. Ne scaturisce uno spettacolo corale, potente e dinamico, ricco di registri stilistici poliedrici.

Il primo nucleo è la presenza corporea: quella fisicità degli attori che il teatro di Emma Dante sfrutta fino ai limiti estremi. È infatti un Macbeth strettamente legato alla sfera del sangue, della generazione, del corpo grottesco, e quindi di quell’immaginario popolare ed atavico messo in luce da Michael Bachtin. Tutto ciò risalta soprattutto nelle due grandi scene dedicate alle streghe, rappresentate incinte e accompagnate da uomini con grossi falli con cui si uniscono sessualmente in modo frenetico.

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