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La danza di Roberto Zappalà non è mai ingenua: sceglie sempre di raccontare l’umanità, la terra, la Sicilia, le passioni più becere e quelle più elevate. In Odisseo. Il naufragio dell’accoglienzae in Pre-testo1: naufragio con spettatore, entrambi spettacoli posti all’interno del più ampio progetto Re-mapping Sicily, il coreografo catanese mette in scena il dramma di corpi esiliati, rifiutati, abbandonati a un destino di viaggio che, però, non nega una possibilità di speranza. 

The dance of Roberto Zappalà is never naive: he always speaks about humanity, the ground, Sicily, instincts and poetry. In Odisseo. Il naufragio dell’accoglienzaand in Pre-testo1: naufragio con spettatore, both of them connected to the major project Re-mapping Sicily, the Catania’s choreographer talks about the drama of exiled, rejected, abandoned human bodies and about their destiny of travel which, however, does not deny a possibility of hope.

 

La ricerca coreografica di Roberto Zappalà propone dinamiche connesse alla terra, votate alla disarticolazione di gesti e figure, in grado di aderire a un disegno che vede i corpi al centro di un feroce rovesciamento di linee e posizioni. È un’istintività di matrice animalesca a guidare i movimenti e a comporre quadri che tentano di mimare la fluidità incandescente della lava senza rinunciare all’intreccio di frame narrativi. Il fecondo dialogo con il dramaturg Nello Calabrò assegna ai progetti della Compagnia Zappalà Danza una profondità di sguardo e di racconto che rappresenta un unicum nel contesto italiano e rilancia un modello di ensemble creativo. Il metodo compositivo[1] di Zappalà si agglutina intorno allo scarto fra improvvisazione e tecnica ballettistica: la partitura si affida alle individualità di ogni interprete e allo stesso tempo aderisce a un codice linguistico – modem – geometricamente connotato.[2] La sintesi di tale linguaggio coreografico si declina in tre diverse accezioni del corpo (devoto, etico, istintivo), che implicano la centralità del movimento, la ricerca della qualità estetica della composizione e con essa la «supremazia dell’immagine sul significato».[3] La potente «geografia delle sensazioni»[4] messa in atto da Zappalà prevede innanzitutto una pre-disposizione «alla purezza ma anche alla perversione, alla fatica ma anche alla leggiadria…»; tale inclinazione fa sì che i corpi dei danzatori siano devoti al pubblico da cui attendono una «consacrazione»[5] capace di trasformarsi in poesia. Tra i vettori che contribuiscono ad accelerare il coinvolgimento degli spettatori c’è senza dubbio la dimensione ‘etica’ della danza di Zappalà, cioè l’attenzione al portato di sofferenza dei corpi, soprattutto di quelli esposti alla violenza del mondo. Partendo da un’acuta osservazione degli scenari isolani, lo sguardo del coreografo si proietta lungo le direttrici dei naufragi contemporanei, (dis)seminando gesti e pratiche di re-enactment che esplorano – e tentano di superare – i pregiudizi verso alcune etnie. Grazie a una serie di mediazioni letterarie e filosofiche,[6] si giunge alla codificazione di «una sorta di saggio sul corpo poetico, “cor-po-etico”»[7] che conduce all’eliminazione dal registro espressivo del pudore[8], considerato un freno all’istinto, nonché di ogni gabbia culturale attraverso un processo di «esegesi», ovvero di scoperta minuziosa delle molteplici possibilità di escursione, interne ed esterne, delle giunture muscolo-scheletriche a cui si accompagna un intenso scavo psicologico. È proprio tale ‘escursione’ a determinare la direzione coreografica di Zappalà, nel senso rilevato da Tomassini, come «esplorazione e allenamento», come «riconoscimento della differenza, per ciò che nel corpo appare anche imperfetto o anomalo».[9] Il linguaggio modem articola l’imperfezione e l’istinto e attraversa tutti gli strati del derma, ‘scortecando’ la superficie e giungendo a toccare l’invisibile.

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Quando un’opera sembra in anticipo sulla sua epoca, semplicemente la sua epoca è in ritardo su di lei.

J. Cocteau

 

Nell’apparente instabilità epistemologica degli ultimi tre decenni dalla teoria alle ‘teorie del cinema’, la pubblicazione del volume Jean Cocteau. Teorico del cinema da parte della casa editrice Mimesis nel 2018 poteva sembrare solo un’operazione storico-retrospettiva. Il lavoro di Stefania Schibeci, docente di Pittura e Arti del XX, è la prima monografia italiana sul tema dedicata all’artista ma getta le basi per un ponte verso il quadro teorico del secondo Novecento e in parte verso quello contemporaneo.

L’attualità della pubblicazione è legata senz’altro alla scelta della figura di Cocteau: poeta, pittore, drammaturgo, romanziere, disegnatore, pittore, regista, attore, ecc. Una personalità che ha incarnato l’apertura interartistica del secolo scorso e anticipato ‒ come sembra emergere da questo contributo ‒ alcune riflessioni teoriche successive di tipo filosofico, fenomenologico e mediale intorno alle immagini in movimento. Anche se si avverte, forse, la mancanza di alcune connessioni suggerite al lettore proprio da alcuni temi affrontati nel testo. Riprendendo, per esempio, gli elementi centrali della sua teoria sul cinema come veicolo insieme alle altre arti della «poésie» (p. 11), conoscenza del mondo attraverso la soggettività del poeta, e la sua specificità come scrittura per immagini capace di «rendere visibile l’invisibile» (p. 13), sarebbe stato interessante accogliere tra le pur ricche relazioni del testo somiglianze e differenze con le idee di Pasolini da un lato e con la filosofia di Merleau-Ponty dall’altro.

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D: Tu e Cesare Ronconi avete parlato già diverse volte del vostro percorso che vi ha portati dapprima a creare il Collettivo Valdoca e, successivamente, a trasformarlo nel Teatro Valdoca. Ti andrebbe, comunque, a mo’ di introduzione, di ripercorrerlo brevemente, specie in relazione al tuo percorso personale che si snoda tra le diverse e affini anime di attrice, autrice, poetessa e drammaturga?

 

R: La necessità di passare da Collettivo a Teatro è diventata categorica quando Cesare Ronconi ha capito che la regia era il suo ambito d’espressione e non era più a suo agio lì dove si voleva mantenere un imprecisato lavoro d’insieme. Così si è creata una frattura fra chi voleva assumersi un ruolo preciso, riconoscendo in sé quella spinta e urgenza che potremmo chiamare vocazione, e chi invece voleva restare in un indistinto insieme in cui tutti facevano tutto. Io allora facevo l’attrice, non sentendomi tuttavia esattamente nella mia acqua e comunque seguii Cesare e con lui fondammo appunto il Teatro Valdoca. Dopo tre spettacoli in silenzio e un quarto in cui entrarono versi di Milo De Angelis, Eschilo e Paul Celan, Cesare cominciò a sentire il bisogno di una parola che registrasse ciò che accadeva durante le prove, cioè una parola che nascesse al presente, perfettamente calzante coi corpi che dovevano pronunciarla, con le azioni e con tutta la scrittura scenica. E così mi ha chiesto di scrivere, dicendomi addirittura che le parole erano già tutte lì, contenute in ciò che facevamo, nel luogo in cui stavamo concentrati per giorni e per notti. Scrissi i miei primi testi teatrali dapprima con grande tremore e disagio, non sentendomi all’altezza del compito e dunque patendo non poco. Ma poi, dopo un passaggio importante, la mia scrittura è arrivata a piena maturazione e con la trilogia di Antenata ho cominciato davvero a scrivere quelli che posso definire i miei versi.

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Elise Vigneron, insieme a Hélène Barreau, propone un poetico contrappunto alla domanda sulla possibilità di dare forma all’inafferrabile, un motivo che ha occupato tanti artisti sin dall’inizio del Novecento e che oggi sembra risuonare in maniera inaudita, come se trovasse ai nostri giorni il suo più congruo contesto; lo fa in punta di piedi: all’interrogazione fa eco una condizione, più che una risposta.

Se il punto di partenza delle creazioni dell’Entrouvert è sempre legato a questo nodo problematico, declinato nel suo rapporto concretissimo con la materia, l’occasione drammaturgica è qui la riscrittura del mito di Edipo di Henri Bauchau, Œdipe sur la route (Edipo sulla strada, non a caso di nuovo l’essere en marche), ma le parole del romanzo scivolano via come l’acqua, materia prima di questa creazione: ne rimangono rivoli e tracce atmosferiche, della stessa consistenza della nebbia entro la quale scompare il protagonista alla fine della narrazione di Bauchau. Del racconto originario percepiamo la fluidità e la metamorfosi dei passaggi di stato. L’evolversi drammaturgico è sempre spostato dalla stabilità di una situazione alla condizione d’impermanenza, al trascorrere, anche grazie alla frizione tra luce e ombra, freddo e caldo, fuoco e acqua.

La soluzione efficacissima è di aver saputo far coincidere questo motivo con la presenza scenica dei materiali, che acquistano valore drammaturgico. Così al tema stesso dell’inafferrabilità corrisponde una reificazione capace di assottigliare al massimo lo scarto tra l’idea e la materia che la incarna. Il ‘personaggio’ principale è dunque il ghiaccio; l’acqua allo stato solido è la materia designata a farsi viatico del nostro attraversamento, perenne quête, il materiale più adatto proprio perché destinato a sciogliersi. Il tempo drammaturgico è così scandito dal tempo di fusione del corpo di questo moderno Edipo: una marionetta plasmata nel ghiaccio.

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Io sono la tua carne,

la carne eletta del tuo spirito.

Non potrai mai visitarmi nel giorno

prima che il puro lavacro del sogno

mi abbia incenerita

per restituirmi a te in pagine di poesia,

in sospiri di lunga attesa.

Alda Merini, La carne e il sospiro

 

 

Schermata dietro una vetrina in plexiglas, isolata ma (sovra)esposta allo sguardo del pubblico, la regina Erodiàs pare svegliarsi di soprassalto da un sonno senza tempo, scossa dalla propria voce fuori campo che erompe in un grido viscerale «Jokan!», per poi modularsi in gioco di parole, in vibrante catena di metaplasmi: «Lan, Lanjokaan, Jokaslaan, Slanjokaan…».

Il ritmo ipnotico delle variazioni onomastiche con cui la «tragica reina» appella l’oggetto del suo desiderio, il profeta Giovanni il Battista, apre lo spettacolo Erodiàs diretto da Renzo Martinelli e con protagonista Federica Fracassi, basato sul monologo di Giovanni Testori parte del suo ultimo capolavoro Tre lai. Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs (1994).

Già dalle primissime battute del dramma è impossibile non riconoscere il registro linguistico-espressivo forgiato dal grande autore lombardo, quell’idioletto capace di contorcere il Ê»corpoʼ delle parole attraverso stranianti acrobazie sintattiche, plasmando l’ardore dei personaggi col fervore espressionistico del suo moto continuo. La lingua testoriana è il primo elemento che emerge nello spettacolo di Martinelli, travolgendo da subito lo spettatore nella bufera affabulatoria della sua protagonista: la celebre concubina di Erode alla quale Testori attribuisce una qualità anfibologica e contraddittoria, immaginandola divisa tra una femminilità gravida di passione per il Battista, e un mascolino impulso alla violenza e alla vendetta, suscitato dal netto rifiuto del profeta alle sue continue profferte d’amore.

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Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli esperimenti di traduzione scenica di favole e miti con risultati compositivi davvero interessanti. Anche Emma Dante non è rimasta insensibile al fascino della fiaba e con Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve e La bella Rosaspina addormentata si accosta all’elemento fiabesco ironizzando e capovolgendo stereotipi di genere e luoghi comuni (le tre fiabe sono poi confluite in un interessante progetto di riscrittura testuale e visiva per i tipi Baldini&Castoldi, grazie alle tavole illustrate di Maria Cristina Costa). Il saggio punta l’attenzione su questi tre spettacoli che ripropongono gli stessi ingredienti delle sue messe in scena: recitazione, provocazione, corpo, fisicità, immaginazione, parola. 

Over the last few years, the experimentation of turning fables and myths into stage productions has grown in number with very interesting results. Even Emma Dante has not been insensitive to the charm of the fairy tale, and with Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve and La bella Rosaspina addormentata, approaches the fairy tales ironically, flipping stereotypes of gender and changing locations (the three fairy taleshave then come to an interesting textual and visual rewrite project for the Baldini & Castoldi types, thanks to the illustrated tables of Maria Cristina Costa). This essay focuses on the three shows that are part of that constant search in which Dante inserts all her performing elements: acting, provocation, body, imagination, word. 

1. C’era una volta…

«Le fiabe sono vere» scriveva Italo Calvino nell’introduzione alle Fiabe italiane, «sono, prese tutte insieme […], una spiegazione generale della vita…». Il teatro ha accolto fin dalle origini la suggestione di temi e storie ‘orali’ e nel corso della sua evoluzione ha messo a punto strategie retoriche sempre più convincenti nella resa di fiabe e racconti. Se il mythos tragico ha costituito la matrice autentica della fondazione di una prassi drammaturgica e scenografica, il Rinascimento ha contribuito alla codificazione di un nuovo genere che già nella sua titolazione richiama la forza e la pregnanza delle fabulae. La «favola pastorale» rappresentava infatti il tentativo di contemperare elementi propri della tradizione classica con un vitale slancio compositivo legato agli umori e alle sfrenatezze di corte; si trattava di delectare il pubblico attraverso exempla di ordine moraleggiante: il teatro era già inteso come arte fecondamente paideutica. Il barocco avrebbe aggiunto a tale quadro paradigmatico l’ossessione per quella ‘poetica della meraviglia’ che, oltre a stimolare una straordinaria profusione di ‘effetti speciali’, richiamava da vicino le atmosfere incantevoli di leggende e archetipi mitologici.

La progressiva costituzione di repertori fiabeschi rende gli intrecci tra favole e teatro ancor più stringenti al punto che è difficile separare nettamente i due ambiti: la magia della scena fa sì che ogni storia si trasformi in sogno (o in incubo), come del resto testimonia la grandezza delle invenzioni shakespeariane. Dobbiamo arrivare all’Ottocento per assistere ad una grande fioritura della fiaba. Il danese Andersen, i fratelli tedeschi Grimm, il russo Afansjeu ci hanno lasciato le più belle fiabe del secolo. In Italia, Collodi riscrive nei suoi Racconti delle fate le fiabe immortali del francese Perrault, dando ad esse una vivacità tutta toscana. Luigi Capuana, pur essendo il caposcuola del verismo, considera le fiabe come una porta da tenersi sempre aperta sull’irrazionale e sul fantastico. Infine, Giuseppe Pitrè, sempre interessato alle tradizioni regionali italiane, trascrive nelle sue Novelle antiche fiabe raccolte dalla viva voce della gente.

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Un bambino sta per nascere, un uomo per essere ucciso. Il montaggio alternato delle due situazioni chiude la seconda stagione di Gomorra - La serie [figg. 1-8]. Il bambino che nasce si chiamerà come l’uomo che muore: Pietro Savastano. Chi ha deciso su morte e nascita è Genny Savastano, allo stesso tempo figlio e padre. Il finale misura il tratto esplicitamente edipico di Gomorra. Ma se a contare nella prima stagione è la famiglia, che include anche Imma (moglie e madre) ed è rappresentata dalla casa dove abitano, nella seconda sono soprattutto i maschi ad avere un ruolo, e non c’è più né unità familiare né unità di luogo. Gomorra - La serie è una tragedia. La struttura mitica profonda che anima la serie è di tipo tragico. È la tragedia del potere, la conquista del quale diventa la posta in gioco di un soggetto disposto a pagare qualsiasi prezzo, non ultima la vita, per ottenerlo, per acquisirlo. E se questo accade è perché attraverso il potere, e dunque il dominio sulle vite e sui destini altrui, il soggetto si illude di sottrarsi alla sua condizione mortale.

Ambire a perdere l’umanità è un tratto, aberrante, dell’umano stesso. Negando la sua propria umanità, il soggetto nega il suo tratto finito. Sfida la morte riaffermandola.

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Ergo age, care pater, cervici imponere nostrae:

Ipse subibo umeris, nec me labor iste gravabit.

Quo res cumque cadent, unum et commune periclum,

Una salus ambobus erit.

(Su, padre mio, sali sulle mie spalle;

ti porterò con me, e non mi costerà fatica.

Comunque vadano le cose, correremo insieme il pericolo

e cercheremo insieme la salvezza).

(Aeneis II, 707-711)

 

- Papà!

- Nun c’a facc. Nun me sient’ bbuon.

(Gomorra: la serie, s2 e2)

 

Il secondo episodio della seconda stagione di Gomorra - La serie è un segmento singolare, anzitutto perché quasi interamente dislocato rispetto al topos campano: l’azione si svolge per lo più a Colonia, dove Pietro Savastano è riparato dopo la fuga dal carcere. La singolarità è anche temporale, perché fra primo e secondo episodio di stagione la serie introduce un’ellissi di un anno; nella struttura narrativa complessiva il primo episodio della seconda stagione funge da conclusione della prima, mentre il secondo apre la successiva con un programma nuovo e ambizioso: estendere il mondo narrativo e addirittura rifondarlo. L’espansione non va nella direzione del topos di episodio, che è uno spazio di transito, ma procede verso Roma, secondo il processo che Leonardo Sciascia definì «la linea della palma»: come il clima favorevole alla crescita della palma si estende ogni anno verso nord, così accade anche alla linea della criminalità organizzata di stampo mafioso, che sale ogni anno «meridionalizzando» progressivamente il settentrione.

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1. La circolarità del mito e il racconto seriale

Fra le ragioni del successo internazionale di Gomorra - La serie, produzione originale di Sky Italia basata sul romanzo di Roberto Saviano, c’è anche una riflessione interessante sulla collocazione soggettiva dei personaggi e la loro corporeità.

Il racconto della guerra fra i Savastano e l’alleanza si concretizza in un continuo movimento circolare di coloro che occupano le posizioni di potere. Non è il soggetto, con le sue configurazioni, che connota il ruolo che va a occupare: al contrario, sono le caratteristiche di questo ruolo a dare significato al personaggio; e la sua eventuale eliminazione (più o meno definitiva) non intacca la rappresentazione complessiva. Gli individui mutano la superficie del proprio corpo in funzione della casella in cui si collocano, e vivono le loro esperienze di conseguenza.

Questa condizione ha una concretizzazione nella seconda stagione sul corpo di Patrizia, ambasciatore e strumento della sopravvivenza di Don Pietro. Durante una delle loro prime conversazioni (nell’episodio Profumo di iena), il boss nota un tatuaggio di una leonessa sulla spalla; la giovane gli risponde che era il modo in cui la chiamava il padre, e alla sua morte ha deciso di commemorarlo in quel modo [fig. 1]. «Si tu eri ‘na leonessa non tinivi abbisogno di ‘nu tatuaggio», commenta Don Pietro infastidito (la Leonessa, come noto, era il nome dell’amata moglie, Donna Imma, sulla cui tomba è avvenuto peraltro il primo incontro con Patrizia). Il giorno dopo, la donna ha una estesa ustione sul braccio, con cui ha cancellato il tatuaggio [fig. 2]: per ricoprire il ruolo di donna di fiducia del boss, e poi di sua compagna, Patrizia cambia letteralmente la propria pelle, e di conseguenza il suo modo di leggere il mondo.

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