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L’approfondimento della poetica di Mario Ricci (1932-2010), porta l’attenzione sugli anni di formazione e delle prime creazioni, che coincidono con il decennio indagato dal presente dossier, gli anni Sessanta. Gli spostamenti geografici del giovane Ricci segnano il punto di avvio del contributo: la Parigi della fine degli anni Cinquanta, dove non è ancora emerso il suo interesse teatrale ma dove riceve stimoli creativi di grande portata; il decisivo viaggio a Stoccolma e l’‘apprendistato’ presso il maestro marionettista Michael Meschke; il rientro (1962) nella Roma effervescente di inizio anni Sessanta. L’orizzonte di riferimento è dunque quello di un contesto di formazione che non prescinde dal paesaggio europeo. Questi episodi biografici segnano in qualche modo anche la seconda coordinata del saggio: il gravitare dell’opera di Ricci, in particolare ai suoi esordi, intorno all’universo delle Figure (nella declinazione della ricerca sui nuovi linguaggi) e contemporaneamente intorno alla dimensione luministica. Centrali quindi i motivi della ‘presenza scenica’ alternativa all’attore in carne e ossa (oggetti, materiali) e la loro ‘attivazione’ (animazione) grazie alla luce. Da tutto il percorso emerge l’importanza fondamentale della collaborazione di Ricci con gli artisti visivi. A partire dal lavoro da noi svolto nell’ambito del progetto Nuovo Teatro Made in Italy 1963-2013 (Bulzoni, 2015) e dai Focus su Illuminazione e Moby Dick realizzati per il portale «Sciami», si è cercato di ricostruire il clima creativo che influenza le prime opere di Ricci, lasciando emergere i procedimenti che rimarranno coordinate imprescindibili lungo tutto il percorso dell’artista (in particolare il principio del collage, la sua ‘variante’ nel montaggio, la ‘tecnica’ e i materiali come portatori di drammaturgia). A differenza che nei contributi sopra citati, basati in larga misura sulla bibliografia esistente in merito, ci si è qui appoggiati in modo determinante ai documenti conservati nell’Archivio Mario Ricci, curato dal figlio dell’artista Filippo Ricci (http://marioricci.net).

The essay on the poetics of Mario Ricci (1932-2010) focuses on his formative years and his first creations, which coincide with the decade investigated by this dossier, the 1960s. The travels of the young Ricci mark the starting point of the contribution: Paris at the end of the 1950s, where his interest in theatre had not yet emerged but where he received far-reaching creative impulsions; the decisive trip to Stockholm and the ‘apprenticeship’ with master puppeteer Michael Meschke; the return (1962) to the effervescent Rome of the early 1960s. The horizon is therefore that of a context that does not disregard the European landscape. These biographical episodes also mark in some way the second coordinate of the essay: the gravitating of Ricci’s work, particularly in his early years, around the universe of Puppetry (in the declination of the research about new languages) and at the same time around the dimension of ‘lighting’. One of the main topics is that of a ‘presence’ alternative to the actor (objects, materials) and its animation thanks to light. In this context, Ricci’s collaboration with visual artists is fundamental. Starting from the work we carried out within the project Nuovo Teatro Made in Italy 1963-2013 (Bulzoni, 2015) and from the Focus on Illuminazione and Moby Dick made for the portal «Sciami», we tried to reconstruct the creative climate influencing Ricci’s first works, letting emerge the procedures that will remain essential coordinates throughout the artist’s life (in particular the principle of collage, the montage, the ‘technique’ and the materials as elements of the dramaturgy). Unlike the above-mentioned contributions, which were largely based on the existing literature on the subject, here we have relied heavily on the documents kept in the Archivio Mario Ricci, curated by the artist’s son Filippo Ricci (http://marioricci.net).

 

1. Esordi. Viaggi e folgorazioni. La marionetta

Così Michael Meschke ricordando Mario Ricci.

Seguiamo una traiettoria eccentrica per avviare questo cammino di riflessioni intorno all’opera dell’artista romano, con l’intenzione di mettere in evidenza la spinta verso il confronto con ciò che accade Oltralpe e l’interesse per pratiche teatrali che attingono dalle altre arti, in particolare quelle figurative.

Continua il grande marionettista svedese:

Mario Ricci è a Varsavia nel giugno 1962 come membro della compagnia durante una tournée al Teatro Lalka. Lo conferma il programma del Festival.[2] Recita come attore il ruolo di un marionettista ambulante tormentato da angeli e diavoli mentre tenta invano di presentare il dramma Orlando furioso

Nel 1962 la compagnia allestisce anche il Principe di Homburg di Kleist.

«Mario era membro della compagnia a tutti gli effetti in questa sua sfida più importante: perché le maestose marionette ‘ad aste’ erano difficili da manipolare, ultra-leggere, grandi, con bastoni di alluminio, in una messa in scena molto impegnativa». 

La testimonianza di Meschke esprime anche una nota di rimpianto per non aver seguito poi l’attività dell’artista.

Lo stesso Ricci lascerà trapelare una certa amarezza per il mancato riconoscimento del suo lavoro, per esempio nella Relazione per il XIV Festival di Parma (1966).[3]

Il confronto con le presenze meccaniche e artificiali[4] appare come una via scarsamente percorsa dalla ricerca italiana di quegli anni, ponendo il lavoro di Ricci in una posizione del tutto singolare. Non vogliamo insinuare che l’esordio con le figure comprometta la sua carriera (dopo un decennio di frequentazione di questi linguaggi i riconoscimenti ci furono, seppure più all’estero), ma potrebbe essere che l’adozione di questi codici così fraintesi e per i quali sono necessari apertura di sguardo e lenti critiche complesse, abbia almeno parzialmente a che fare con il posto che la critica e la storiografia hanno riservato al nostro artista. A una valutazione d’insieme si può forse ipotizzare che la ricerca e la critica (così intrecciate all’epoca) non abbiano incoraggiato due ambiti non al centro del dibattito: quello delle ‘figure’, con la relativa messa in discussione della presenza dell’attore, e quello della sperimentazione sulle potenzialità della luce come drammaturgia, che è l’altro ‘fuoco’ dell’interesse di Ricci. Una linea, quella luministica, che in quegli anni riceve grande attenzione dall’ambito delle arti visive; si pensi alle sperimentazioni di Umberto Bignardi, che con Ricci collabora, ma anche alle opere di Fontana, Munari, Lo Savio, Nannucci…[5]

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Può l’arte precorrere la realtà? Può l’invenzione drammatica auscultare e poi manifestare, nella contemporaneità senza confini e distanze, nell’oggi del ‘liberi tutti’, la ventura perdita di libertà, la privazione di spazio, l’estenuante dilatazione di tempo?

In anticipo sulla catastrofe di fine ventennio, il nostro, che ancora altera la percezione del tempo e l’autonomia negli spostamenti, il teatro di Emma Dante, per anni, da anni, stava già portando in scena il senso claustrofobico del limite, reale o immaginario, dello spazio chiuso, affollato dai vivi e dai morti, del luogo di transito tra le due condizioni.

Il Bestiario teatrale (Rizzoli, 2020) della Dante si è drammaticamente riproposto negli ultimi anni nella realtà di molti; gli incubi proposti dalla regista sono divenuti atroci situazioni familiari deflagrate, orrori consumati nel chiuso di appartamenti; confermando amaramente, ancora una volta, l’universalità e la capacità di scandaglio antropologico della macchina teatrale, quando questa è alimentata da autenticità.

Bestiario teatrale è una raccolta di ‘drammaturgie per libro’, curata da Anna Barsotti, davvero molto particolare e presenta la produzione dell’autrice palermitana dal primo grande successo di mPalermu del 2001 al più recente Le sorelle Macaluso del 2014, spettacolo che riprende il discorso mai sospeso sulla famiglia, quella siciliana in particolare. I testi teatrali sono introdotti dalla prefazione di Andrea Camilleri, breve e vibrante analisi stilistica dei testi della sua stimata conterranea, e da un dittico di saggi firmati da Giorgio Vasta e da Elena Stancanelli, che descrivono il teatro e la storia della compagnia e incidono nell’intimità quotidiana del lavoro dell’autrice. La Dante stessa, un attimo prima che gli attori prendano la parola, arricchisce il libro con un commento, quasi artaudiano, in cui presenta la missione teatrale dell’attore.

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L’incrocio di linguaggi, suggestioni e prospettive tra arti visive e teatro è parte della stagione di rinnovamento delle arti che caratterizza la cultura italiana degli anni Sessanta. Questo studio ne fissa e osserva alcuni aspetti e momenti attraverso la lettura di Almanacco Letterario Bompiani e Marcatrè, riviste distinte sul piano della storia e degli obiettivi, ma accomunate dalla vocazione interdisciplinare e dalla rilevanza nel dibattito culturale dell’epoca.

The intersection of languages, suggestions and perspectives between visual arts and theater is part of the renewal season of arts that characterized the Italian culture of the 1960s. This study fixes and observes some aspects and moments through the reading of Almanacco Letterario Bompiani and Marcatrè, distinct in terms of history and objectives, but united by the interdisciplinary vocation and relevance in the cultural debate of the time.

Non vi era nessun serio motivo per ritrovarsi in tanti

in quell’occasione, se non l’aria del tempo, di una sorta

di speranza che induce a seguire in fretta il richiamo,

impercettibile e sicuro, di un tam-tam di grandi novità,

come un dovere. L’America sembrava sul serio spuntare

coi grattacieli subito dietro Ostia, al filo dell’ultimo

orizzonte, duna o fico d’India. Ci sembro di ricevere

il compenso della nostra sagace giovinezza:

l’annullamento delle distanze.

 

Fabio Mauri[1]

 

 

1. «Torniamo a proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante della nostra vita civile»

«Dicono i libri di storia che la guerra è finita nel 1945, ma noi tocchiamo con mano che i libri di storia mentiscono» – scrivono Valentino Bompiani e Cesare Zavattini nel primo numero della seconda serie di Almanacco Letterario Bompiani. È il novembre del 1958 e le loro voci si riallacciano idealmente alla prima serie del periodico, pubblicata fino al 1942. «Oggi […] abbiamo deciso che la guerra è finita e torniamo a proporre il mondo e il lavoro degli artisti come l’avvenimento di gran lunga più importante della nostra vita civile».[2]

La fine della guerra non è dunque bastata e sono serviti altri tredici anni a Valentino Bompiani perché l’Almanacco riprendesse il suo prezioso compito di aggiornamento culturale. La rivista è infatti una sua creatura già mentre è segretario di Mondadori e, quando poi lascia il posto e fonda la propria casa editrice, l’Almanacco costituisce parte della sua buonuscita, divenendo uno degli spazi in cui emerge la sua particolare figura di autore-editore.[3]

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Il saggio è un primo stimolo alla riflessione sulle forme e le strategie della museologia d’opera per i musei del XXI secolo attraverso il caso studio del Museo Zeffirelli a Firenze. Esso ripercorre la nascita e gli obiettivi del patrimonio del regista, scenografo e costumista fiorentino, rimessi in ‘opera’ dal 2015 dalla Fondazione Zeffirelli Onlus e dal nascente Centro Internazionale per le Arti e lo Spettacolo realizzato all’interno del Complesso di San Firenze nella città natale. Archivio, museo e scuola, esso lavora oggi in maniera complementare alla trasmissione della sua opera divisa fra cinema, teatro e opera. Partendo dal riconoscimento dei rapporti legati alla cultura visuale dell’artista si analizzano qui le strategie espositive e le attività legate ai percorsi operistici.

This paper aims to stimulate a reflection on the museology of opera during the 21st century through the study case of the Zeffirelli Museum in Florence. The essay analyses the birth and the objectives of the heritage collected by the director, set and costume designer. They are reused since 2015 by the Fondazione Zeffirelli Onlus and the International Centre for the Arts and the Performing Arts, set up inside the Complesso di San Firenze in his hometown. As an integrated archive, museum, and school, it now works on the transmission of his heritage divided between cinema, theatre and opera. For this reason, the analysis starts from the recognition of the visual culture embedded inside the opera paths and exhibition activities of the intermedial museum.

La vita non è che un continuo passaggio di esperienze,

da una generazione all’altra: prima imparare e poi insegnare

a chi viene dopo di noi.

Franco Zeffirelli

1. Dai materiali d’archivio al museo intermediale

Messa in movimento, trasmissione e ricezione di un’esperienza molteplice sono i motivi guida espressi dal regista fiorentino Franco Zeffirelli a proposito della raccolta (durante la sua vita) e della destinazione di una serie di materiali legati alla propria attività e all’arte dello spettacolo in toto. Votandosi a questi principi, ha promosso con forza il riconoscimento di quest’insieme patrimoniale come ‘vivente’, non solo per l’azione di conoscenza storica che esercita nel presente verso il futuro ma, si legge tra le righe del suo pensiero, per la capacità di accogliere e far percepire i caratteri stessi della vita e delle arti.

Dal 2015 parte di questi materiali[1] sono gestiti e rimessi in opera a Firenze dalla Fondazione Zeffirelli Onlus, nata in quell’anno proprio con l’obiettivo di «promuovere la cultura e l’arte, attraverso la tutela e la valorizzazione di beni di interesse artistico e storico».[2] Sulla scorta del pensiero dell’artista, l’istituzione ha destinato i propri spazi all’incontro, lo studio e la produzione artistica attraverso il patrimonio zeffirelliano.

Così nella città natale dell’artista, all’interno del Complesso di San Firenze, nel corso del 2015 è stato istituito il CIAS - Centro Internazionale delle Arti dello Spettacolo,[4] che oggi ospita e anima al suo interno un archivio, una biblioteca, un museo, una sala musica da centocinquanta posti che funge anche da spazio di proiezione ed esposizione (nello splendido ex oratorio dei padri filippini caratterizzato da alcuni palchi laterali che ne fanno quasi un teatro), un bookshop, alcune aule dedicate alla didattica (ma tutti gli spazi sono riutilizzati in tal senso), laboratori e un’area ristorativa. In questi spazi si svolgono un insieme di attività formative, artistiche e di progettazione. Le diverse parti, che includono anche la direzione curatoriale, sono pensate come sezioni complementari di uno stesso corpo, sia per gli scambi tra biblioteca, archivio e museo (anche in termini di visite guidate dedicate), sia e soprattutto per gli ulteriori percorsi che fruitori e studiosi possono attivare autonomamente passando da una parte all’altra.[5]

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L’impatto della pandemia sullo spettacolo dal vivo ha prodotto uno stato di necessità inedito: garantire la fruizione dei contenuti performativi e mantenere in vita il rapporto con i pubblici nonostante l’impossibilità dell’incontro diretto tra attori e spettatori, della loro relazione in presenza. Per affrontare la crisi di relazionalità spaziale che connota il ‘teatro al tempo del Covid’ si sono moltiplicate le iniziative di meditizzazione e webcasting degli spettacoli, con risultati artistici eterogenei ma un ambito di intervento comune: lo spazio performativo ripensato alla luce del trasloco mediale degli eventi. In questo frangente senza precedenti Mario Martone ha ideato e realizzato due allestimenti per il Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini e La traviata di Giuseppe Verdi, che hanno scardinato ogni convenzione formale della messa in scena operistica, reiventandola secondo principi e procedimenti di ordine cinematografico. Le operazioni-opere di Martone, concepite appositamente per essere trasmesse sui canali televisivi e streaming della Rai, risultano esemplari, addirittura paradigmatiche di un netto ripensamento del genere del film d’opera, che il regista napoletano rimodula stilisticamente come opera-film, lavorando sulla cineficazione dello spazio teatrale e delle sue dinamiche attanziali. Il saggio, a partire da una propedeutica ricognizione storiografica del profilo artistico di Martone, analizza e interpreta le reinvenzioni spaziali delle regie liriche sopracitate, secondo due chiavi di lettura divergenti ma complementari: la designazione filmica dello spazio vuoto de Il barbiere, rappresentato e filmato nella sala deserta del Teatro Costanzi per evidenziare l’assenza del pubblico e la finzione scenica, e, all’opposto, l’occultamento cinematografico del vuoto spettatoriale e dell’artificio performativo de La traviata, ottenuto trasformando l’intera platea dell’Opera di Roma in un set realistico e site-specific. La lettura critica dei casi di studio è corroborata da un impianto metodologico che compendia la speculazione di Peter Brook sul valore rivelatorio dell’empty space, le acquisizioni degli Opera Studies sull’astrazione antinaturalistica del teatro musicale, le nozioni di mediatizzazione e cineficazione teatrale segnatamente applicate allo spazio performativo dell’opera lirica. 

The impact of the pandemic on live performance has produced an unprecedented state of necessity: guaranteeing the fruition of performance contents and keeping alive the relationship with audiences despite the impossibility of a direct contact between actors and spectators, of their relationship in presence. In order to tackle the crisis of spatial relationality that characterizes the ‘theatre at the time of Covid’, initiatives for the mediatisation and webcasting of performances have multiplied, with heterogeneous artistic results but a common sphere of intervention: the performance space rethought in the light of the media transfer of events. In this unprecedented juncture Mario Martone conceived and realized two productions for the Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia by Gioachino Rossini and La traviata by Giuseppe Verdi, which broke down all formal conventions of opera staging, reinventing it according to cinematographic principles and procedures. Martone’s opera-operations, conceived specifically to be broadcast on Rai television channels and streaming, are exemplary, even paradigmatic of a net rethinking of the film of opera genre, which the Neapolitan director stylistically remodels as an opera-film, working on the cinefication of the theatrical space and of its actantial dynamics. The essay, starting from a preliminary historiographical survey of Martone’s artistic profile, analyses and interprets the spatial reinventions in the above-mentioned productions, according to two divergent but complementary keys to interpretation: the filmic designation of the empty space in Il barbiere, represented and filmed in the deserted space of Teatro Costanzi to highlight the absence of the audience and the stage fiction, and, at the opposite, the cinematographic occultation of the spectatorial void and the performative artifice in La traviata, obtained by transforming the entire stalls into a realistic and site-specific film set. The critical reading of the case studies is corroborated by a methodological framework that encompasses Peter Brook’s speculation on the revelatory value of empty space, the acquisitions of Opera Studies on the antinaturalistic abstraction of musical theatre, the notions of theatrical mediatisation and cinefication specifically applied to the performance space of opera.

1. Visioni dello spazio nel teatro di Martone

«Quel che cerco è il respiro comune di attori e spettatori. Quale che sia lo spazio, felicemente assembrati in sala o fatalmente divisi da un teleschermo, quello e nient’altro è il teatro».[1] Così Mario Martone descrive la vocazione che muove il suo lavoro registico, la ricerca di una ‘comunione di respiro’ tra attori e spettatori non vincolata al tangibile, alla dinamica fisica fra scena e platea, ma capace di prodursi anche nell’impalpabile, nella reciproca consapevolezza di vivere e di sentire l’esperienza del teatro.

Nel contesto spettacolare dell’epoca Covid sappiamo che il ‘corpo a corpo’ di emittenti e destinatari nello spazio deposto al teatro è entrato radicalmente in crisi, e che il medium teatrale ha dovuto affrontare il più estremo compromesso della sua storia millenaria: l’assenza del pubblico dal vivo. Nella crisi di relazionalità spaziale che connota il presente pandemico una delle più convincenti reinvenzioni dello spazio performativo è arrivata dalla teatralità operistica, ed esattamente dalle due messinscene de Il barbiere di Siviglia e de La traviata prodotte dal Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Martone, e trasmesse su Rai3 rispettivamente a dicembre 2020 e ad aprile 2021. Eclettiche reinvenzioni del genere del film d’opera, gli spettacoli realizzati da Martone fanno leva sul versante della spazialità teatrale rimediata cinematograficamente, per superare l’impasse dello spettacolo ‘in carne e ossa’ fisicamente inaccessibile al pubblico.

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Le Musiche per il Paradiso di Dante composte da Salvatore Sciarrino nascono nel 1993 per un progetto firmato da Federico Tiezzi per il Ravenna Festival, come tentata fusione di musica e poesia. Quarant’anni più tardi, le tre parti del poema sonoro di Sciarrino vengono eseguite a Padova, nel Palazzo della Ragione, dall’Orchestra di Padova e del Veneto diretta da Marco Angius, in artistica collaborazione con la performance di Anagoor. Quella di Sciarrino si presenta come un’opera tripartita, in cui l’affresco centrale, L’invenzione della trasparenza, viene anticipato da un prologo, Alfabeto oscuro, e chiuso da un epilogo, Postille. «Musica ambiente», è stata definita dall’autore, «stilizzata a porgere gli spunti che il verso tace e richiama» (Intervista a cura di S. Nardelli, ‘Nel vuoto del Paradiso’, Il Giornale della Musica, 13 settembre 2021). La prima sezione, un vero alfabeto altro, rappresenta lo sforzo di dare voce all’inesprimibile, l’assenza della parola che gli strumenti tentano vanamente di emulare (‘come parlando’ è l’indicazione in partitura). La seconda, con le sue infinite figurazioni sonore, tenta di restituire la suggestione dell’ascensione di Dante attraverso i nove cieli concentrici del Paradiso: «com’io trascenda esti corpi levi». Nella terza si va verso l’indicibile, nell’ultimo slancio che, oltre la ‘candida rosa’ dei beati, ci porta alla grande scommessa dantesca, intravedere il volto di Dio.

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Tra le recenti riscritture registiche dei drammi antichi spiccano le tragedie – Coefore Eumenidi e Baccanti – portate in scena da Davide Livermore e Carlus Padrissa alla cinquantaseiesima edizione del festival del Teatro Greco di Siracusa. Il saggio, a partire da una riflessione sulle modalità stilistiche del ‘ritorno all’antico’, analizza intenzioni e procedimenti compositivi delle scritture sceniche di Livermore e Padrissa. Pur con opzioni autoriali diverse, negli spettacoli esaminati i registi non si limitano a un semplice lavoro di adattamento, ma mettono in pratica una convinta riformazione tecnologica e performativa delle retoriche del tragico, in cui si intrecciano aura mitica e temi civili contemporanei in funzione di un teatro intimamente politico.

Among the recent directorial rewrites of ancient dramas stand out the tragedies – Coefore Eumenidi and Baccanti – staged by Davide Livermore and Carlus Padrissa at the fifty-sixth edition of the Greek Theatre festival in Syracuse. The essay, starting from a reflection on the stylistic modes of the ‘return to the ancient’, analyzes intentions and compositional procedures of Livermore and Padrissa’s scenic writings. Even with different authorial options, in the performances examined the directors are not limited to a simple work of adaptation, but carry out a convinced technological and performative reformation of the rhetoric of the tragic, interweaving mythical aura and contemporary civil themes in the function of a deeply political theatre.

 

Slittata dalla primavera all’estate a causa dell’emergenza Covid-19, il 3 luglio 2021 è iniziata la cinquantaseiesima edizione del Festival delle Rappresentazioni Classiche della Fondazione INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico). Agli spettatori che fino al 21 agosto occuperanno le gradinate rupestri della cavea siracusana l’INDA offre un programma di grande impatto, che dialoga con la mostra multimediale “Orestea atto secondo” allestita a Palazzo Greco, e volta a commemorare – in stretto parallelismo con l’oggi – la ripresa degli spettacoli classici nel 1921, dopo la Grande Guerra e l’epidemia di influenza Spagnola.

Tre ensemble femminili del mito sono i protagonisti dell’attuale cartellone: Coefore Eumenidi di Eschilo portato in scena da Davide Livermore, qui alla seconda esperienza siracusana dopo l’Elena del 2019; Baccanti di Euripide, diretto da Carlus Padrissa; e Nuvole di Aristofane, con la regia di Antonio Calenda. In attesa di aggiungere allo sguardo l’occasione ludica del dramma satiresco concentriamo la visione analitica dentro il perimetro del tragico, optando per una riflessione ‘a doppio binario’ che prova a tenere insieme i processi di invenzione ed elaborazione registica degli spettacoli di Livermore e Padrissa.

 

 

1. Davide Livermore, Coefore Eumenidi

L’archivio delle attualizzazioni contemporanee dei drammi antichi, sulla scia di Cristina Baldacci, si può definire un ‘archivio impossibile’,[1] a tal punto sono numerose le ricreazioni del mito, sia drammaturgiche che sceniche, nella storia del teatro moderno. Pur in una sconfinata gamma di forme rappresentative tutte si sono sempre mosse tra «i due estremi dell’archeologia, con il tentativo di ricostruzione filologica della rappresentazione classica, e dell’attualizzazione critica del modello, in funzione del contesto storico, politico, sociale e culturale d’arrivo».[2] Su questa dicotomica altalena stilistica non è semplice acquisire un assetto, e spesso la scelta prevalente è stata quella di imboccare in modo netto una sola strada interpretativa, piuttosto che raggiungere un equilibrio dinamico tra i due poli.

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La seconda prova cinematografica di Emma Dante prende le mosse dall'omonimo spettacolo ma la drammaturgia dei corpi e degli spazi vira subito verso una dimensione intimamente cinematografica, affidata a millimetriche transizioni temporali e a un intenso gioco performativo che vede coinvolte dodici interpreti, sensibili a una serrata grammatica di movimenti. La lettura che qui si propone mira a recuperare la matrice del dispositivo sororale e la dimensione 'materiale', organica della trama visuale, esposta ai danni della luce e del tempo.

Emma Dante's second direction test is derived from the show of the same name, but the dramaturgy of bodies and space quickly shifts towards a quintessentially cinematographic dimension, made of instant temporal transitions and an intense acting game with 12 performers who follow a fast-paced grammar of movement. The interpretation proposed here is an attempt to retrace the scheme of the sorority  theme and the material, organic dimension of the visual plot, exposed to the damages of light and time

 

 

«Non ci si dice molto perché

non c’è molto da dire, ogni

volta

è come se ci inseguisse

qualcosa».

Riccardo Frolloni, Materiali II

 

 

La scrittura franta di Riccardo Frolloni può essere la giusta porta d’accesso alla geografia emotiva e fisica de Le sorelle Macaluso, seconda prova cinematografica di Emma Dante che, dopo il debutto veneziano, ha appena conquistato cinque prestigiosi Nastri d’argento. Entrare dentro gli spazi di questo film attraverso la lente di Frolloni significa fare innanzitutto i conti con il perimetro degli interni, continuamente esposti a epifanie d’altrove: un verso della lirica Materiali I – «la casa era prima di terra e poi / d’aria»[1] – consente di inquadrare con un solo movimento quella che a tutti gli effetti sembra essere la promessa su cui si fonda la riscrittura per immagini della pièce, ovvero la possibilità che le protagoniste possano davvero trasformarsi in «uno stormo di uccelli che partecipano al proprio funerale e a quello degli altri».[2] La dimensione del lutto, a cui si accompagna una comunità di affetti e ricordanze fra vivi e morti, appartiene del resto al codice drammaturgico di Dante da sempre, per un’intrinseca vocazione al tragico mitigata a tratti da una controspinta umoristica, secondo un principio di contraddizione che insiste irrimediabilmente in quella lancinante ‘terra di teatro’ che è la Sicilia. Ereditando il sangue e gli spasmi di una imagery intimamente isolana, Dante attribuisce alle sue figure, e in particolare alle sorelle Macaluso,[3] un’ansia di assoluto che confligge con gli umori terragni, con la cupa violenza di ogni liturgia familiare, e così al centro dell’azione performativa si ritrova spesso lo scarto tra la furia del vivere e la disperazione del morire.

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Nato dalla volontà di Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), del disegnatore Stefano Ricci e del contrabbassista Daniele Roccato di lavorare a un progetto comune, Madre ha debuttato nell’ottobre 2020 al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Al centro del poemetto scenico scritto da Marco Martinelli, un dittico per due voci che non si incontrano, che consumano nel soliloquio l’impossibilità di un dialogo: una madre precipitata dentro a un pozzo profondo e un figlio che non riesce o non vuole salvarla. Un cadere, un precipitare che ha come messo in crisi l’idea stessa di creazione e di generazione che la madre incarna. La scena diviene allora il luogo nel quale poter ripensare dal suo grado zero la modalità stessa di approcciarsi al mondo e al reale attraverso la capacità di mettersi in ascolto e in vera relazione con esso. Un ribaltamento di paradigma, come direbbe Roberto Barbanti: da quello distaccato e monodimensionale del retinico e dell’immaginario, a quello relazionale e polifonico dell’acustinario. Madre sembra essere, allora, proprio il campo d’azione di una simile sfida, nella quale tutti siamo chiamati a sostituire quel figlio incapace di sentire e a metterci in ascolto del mondo e della sua invocazione d’aiuto, prima che sia troppo tardi.

Arose from the will of Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), the illustrator Stefano Ricci and the double bass composer Daniele Roccato to work on a common project, Madre made its debut in October 2020 at the Primavera dei Teatri festival in Castrovillari. Core of Marco Martinelli’s scenic poem is a diptych for two voices that do not meet and consume in a soliloquy the impossibility of a dialogue: a mother fallen to the bottom of a deep well and a son who cannot or does not want to save her. A fall that has somehow put in crisis the very idea of creation and generation embodied by the mother. The scene becomes, this way, a place in which the very modality of approaching the world can be rethought from its ground zero, through the ability to listen to it and to be in true connection with it. As Roberto Barbanti would say, a real overturning of the paradigm: from the retinal one, that is detached and one-dimensional, to the acoustic one, which is relational and polyphonic. Madre therefore seems to be precisely the field of action of such a challenge, a field in which we are all called to replace that son unable to listen to the world’s cry for help, before it’s too late.

 1. «Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»: quel che viene prima

Nell’ottobre del 1995, a una manciata di settimane dalla sua morte, Heiner Müller riversa in parole le immagini di un proprio allucinato sogno notturno, dando vita al breve scritto che andrà sotto il titolo di Traumtexte. Nel sogno – e nel testo – Müller cammina faticosamente sullo stretto bordo di una gigantesca cisterna: da un lato la conca d’acqua in cui rischia di precipitare, dall’altro un’alta e impraticabile parete di cemento che lo separa dalla superficie e dal resto dell’umanità. Sulle spalle, dentro a una cesta di bambù, la sua bambina di due anni, motivo d’ulteriore intralcio e apprensione, così come la nebbia che nasconde alla vista ciò che si trova lassù, nel mondo lasciato in cima, oltre la parete. Una nebbia che, diradandosi e mostrandogli quella vita ormai negata e che seguita a scorrere senza di lui, aggraverà il suo smarrimento, la sua sensazione di definitivo abbandono e perdita. Di lì a poco, la caduta nell’acqua senza fondo dalla quale non riuscirà più a riemergere, un’angoscia che si acuirà al pensiero che la bambina possa venir fuori dalla cesta rimasta sul bordo della conca e tentare di raggiungerlo.

Ed è questo Traumtexte di Müller ad aver riunito il disegnatore Stefano Ricci, il contrabbassista Daniele Roccato e il Teatro delle Albe – nello specifico Marco Martinelli ed Ermanna Montanari – nel progetto comune di portarlo sulla scena. O, meglio, di renderlo scena possibile per luoghi non convenzionali, al di là da quelli specificamente teatrali. Scena per musei e spazi espositivi, soprattutto, in grado di conciliare la rigorosa ricerca vocale di Montanari, quella sulle possibilità sonore del contrabbasso di Roccato e la sperimentazione di Ricci sul disegno e le potenzialità dell’immagine in scena con l’esigenza di scomporsi e assottigliarsi al punto da poter raggiungere gli spettatori altrove – piuttosto che farsi raggiungere da essi solo in teatro. Proprio come un sogno che, nella sua urgenza, piombi addosso quando e dove meno lo si aspetta.

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