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Nel bel mezzo dell’inverno

vi era in me un’invincibile estate

Albert Camus

 

 

L’esposizione Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matiz (in mostra alla galleria ONO Arte Contemporanea di Bologna dal 14 gennaio al 28 febbraio 2016) sorprende per intensità ed efficacia comunicativa. Le immagini dicono sempre qualcosa, sono concepite per comunicare, spesso però nella fotografia la forza dell’evidenza satura la percezione generando un surplus nozionale che riempie la vista ma indebolisce la riflessione: quando la foto Ê»parla troppoʼ, secondo Barthes, non è pensosa, non suggerisce un senso, non induce a meditare. Qui, invece, gli scatti quasi solo in bianco e nero del fotoreporter colombiano Matiz, amico di Frida e del marito Diego Rivera, prendono la via di una comunicazione intima, evocativa, che non rivela, e tuttavia illumina la complessa interiorità della grande artista messicana.

Il percorso espositivo della mostra, articolato in 27 fotografie di diversi formati, alcune ai sali d’argento e altre al platino, non è quindi un vortice di suggestioni visive, ma piuttosto un intenso, quanto riflessivo, itinerario estetico, che consegna allo sguardo dello spectator l’immagine di una Frida inedita, ritratta dal fotoreporter dal punto di vista privilegiato dell’amicizia e della lunga frequentazione, all’interno dell’amata Casa Azul (casa azzurra) nel quartiere natale di Coyoacán a Città del Messico.

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La tessitura visiva (grazie soprattutto alla fotografia di Edward Lackman), la ricerca della perfezione estetica di ogni inquadratura, l’insistenza sulle sfumature cromatiche degli anni Cinquanta – da alcuni giudicate eccessive, al limite di una freddezza patinata – rispondono invece alla poetica cinematografica del regista, il quale con estrema coerenza ha voluto recuperare e ricostruire meticolosamente un contesto storico e culturale all’interno del quale la storia narrata assume un valore molto preciso (e non certo scindibile da tale contesto). E del resto Todd Haynes ha più volte dichiarato che l’intento di ogni suo film è quello di «aprire la finestra verso un altro mondo e chiedere allo spettatore di entrare in quel mondo».

Il romanzo di Patricia Highsmith (The Price of Salt, 1952, pubblicato con lo pseudonimo di Claire Morgan), da cui è tratto Carol, sembra scelto prima di tutto in funzione di questa poetica. Come già in Far from Heaven (2002), anche qui Haynes ambienta una storia omosessuale nel passato, forse perché da una certa distanza è più facile scorgere i riflessi del presente, segnalarne le storture e riconoscerne i retaggi.

Rispetto al testo di partenza, la sceneggiatura di Phyllis Nagy opera alcune ‘infrazioni’ interessanti comprensibili probabilmente in una prospettiva più spiccatamente visiva. Si tratta in primo luogo dello spostamento del baricentro narrativo: il romanzo di Therese, e la sua Bildung, che rappresenta l’asse attorno a cui si sviluppa il racconto di Highsmith, si trasformano nella love story di Carol e Therese. Si tratta di un ‘tradimento’ più apparente che reale perché, se è vero che non possiamo seguire come nel romanzo l’educazione sentimentale di Therese attraverso la narrazione dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, quel che Haynes mette a fuoco nel film è la storia dell’evoluzione del suo sguardo. I filtri che velano di continuo le inquadrature della vita per le strade di New York, cioè le vetrine e i finestrini attraverso cui la realtà viene mostrata soltanto per frammenti, sono la traduzione dello sguardo sul mondo della protagonista, che già nel romanzo si ritrova più volte a guardare fuori attraverso questi opachi dispositivi della visione. Si direbbe anzi che gli occhi di Therese nel racconto di Highsmith scrutino la realtà sempre attraverso la mediazione di uno schermo: a volte il vetro di una finestra, altre volte il filtro di un dipinto. In più di un’occasione l’oggetto della sua visione viene descritto attraverso una citazione figurativa: «il volto oblungo di Phil sotto i capelli cortissimi» la fa pensare a «un El Greco»; «la bellezza di Carol» la colpisce «come se avesse dato uno sguardo alla Vittoria Alata di Samotracia»; la vista attraverso la vetrina dei magazzini Frankeberg le evoca un quadro di Mondrian; il panorama osservato dalla finestra dell’albergo di Chicago le ricorda una veduta di Pisarro. A metà del viaggio che le due donne compiono insieme, Carol rimprovera Therese proprio per questo sistema ‘mediato’, «di seconda mano», di guardare la realtà: «tu preferisci le cose riflesse su uno specchio, vero?» – le chiede, quasi a sfidarla e a incoraggiarne un possibile cambiamento di prospettiva. Nelle pagine del romanzo, e nelle sequenze del film, Carol diventa per Therese l’oggetto perturbante che innesca la rivoluzione del suo sguardo, educando i suoi occhi a posarsi direttamente su cose e persone, insegnandole a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla realizzazione del suo desiderio. Ecco perché, dopotutto, il film di Haynes è molto più fedele (ammesso che ciò sia poi così importante!) al romanzo di quanto non possa sembrare a prima vista. L’inquadratura della grata che segna l’incipit di Carol suggerisce sin dall’inizio la centralità della condizione visiva e, per certi versi, funziona come l’assunzione del punto di vista di Therese, la cui evoluzione e le cui difficoltà esistenziali vengono raccontate proprio attraverso il raffinato sistema di tropi visuali che, in modo molto evidente, il regista dissemina nella trama filmica.

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[…] solo fino all’osso, anch’io ho dei sogni

che mi tengono ancorato al mondo,

su cui passo quasi fossi solo occhio…

P.P. Pasolini, La ricchezza

 

In occasione del quarantennale della morte di Pasolini abbiamo chiesto a studiosi e studiose che si sono occupati della sua opera di scegliere un’immagine (uno scatto, un dipinto, un fotogramma) e di commentarla per costruire una galleria virtuale in cui ciascuno potesse ‘appiccicare’ la propria foto-ricordo. Ci sembrava così di riuscire a ‘doppiare’, in un fitto dialogo fra parola e sguardo, la tensione verbovisiva che ha attraversato la scrittura pasoliniana, su cui forse occorrerà indagare più a fondo, soprattutto alla luce dei recenti contributi dei visual studies.

Nel ricomporre le tessere di questo mosaico digitale siamo rimasti sorpresi dalla varietà delle proposte, dal gioco segreto di rimandi fra un’immagine e l’altra, ma anche dalla divaricazione dei punti di vista su uno stesso tema, quasi una conferma di quel principio di contraddizione su cui Pasolini ha fondato il suo stile.

Per non ingabbiare i contenuti in una struttura formalmente rigida, si è pensato di disegnare quattro sezioni da intendersi come possibili percorsi di ‘navigazione’, e non come blocchi distinti e separati. Gli hashtag proposti non esauriscono gli argomenti e le intersezioni fra le schede, ma speriamo possano condurre il ‘visitatore’ dentro le stanze della galleria. Ci piace pensare che malgrado il tentativo di dare ordine, questa raccolta di foto-ricordo rimanga, in omaggio allo stile dell’ultimo Pasolini, una galleria aperta sia perché incompleta (ognuno di noi ha scelto una fra almeno due alternative che aveva in mente) sia perché gli intrecci fra le immagini scelte potrebbero essere ricomposti in molti altri modi.

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A cavallo tra anni Sessanta e Settanta Pasolini e Maria Callas si frequentano in modo assiduo per ragioni di lavoro e non solo. I fotografi sono all’opera. Certi scatti restano nella memoria, consegnati per sempre agli archivi: un bacio sulla bocca in aeroporto, per la gioia dei rotocalchi che cercarono di alimentare prevedibili equivoci. E poi: in spiaggia a Sabaudia; ad Aleppo; in Cappadocia e a Grado, nel caldo dell’estate del 1969, lei in pesantissimi costumi di scena e lui, come di consueto, senza una traccia di fatica o sudore, in abiti candidi e freschi, mentre la dirige sul set; in motoscafo d’estate a Trigonissi; e ancora in Mali, in compagnia di Moravia e Morante, in altre educative peregrinazioni, come si addiceva a quei compagni di viaggio (registriamo le reciproche adattabilità: lei che si piega a dormire in branda con la Maraini, lui che fa altrettanto con lo yacht “Cristina”); le conferenze stampa e la prima parigina di Medea. E così via.

Tra tutte le serie che compongono l’album Pasolini/Callas trattengo questo scatto fatto al volo, in prossimità della prima parigina di Medea. Non certo una bella foto. Ma una foto in cui nessuna ‘posa’ è possibile. Di fronte agli obiettivi, esposti alle luci dei flash, la Callas e Franco Rossellini in primo piano, dietro PPP, pressappoco irriconoscibile, (auto?)confinato quasi a bordo campo, forse titubante, a confermare una generale perplessità che investe quasi tutte le immagini catturate in occasioni mondane con la cantante. È come se il singolo scatto raccogliesse su di sé un certo timore per l’uso pubblico che l’intero album PPP/Callas avrebbe potuto generare. Timore non infondato. Perché è l’interezza dell’album che, a quasi mezzo secolo di distanza, riverbera significati non previsti. Più gli aneddoti e gli scatti fotografici aumentano intorno a questo binomio improbabile, più mettiamo in fila i momenti di lavoro sul set, di intimità al riparo dalle serate mondane, di raccoglimento e confessione dei reciproci ‘conflitti interiori’, e più aumenta la vertigine dell’Inautentico. Ecco dunque PPP che dipinge per la musa e la ritrae utilizzando gli elementi della Natura come petali, terra, frutta macerata e succhi di fiori (pare che Nadia Stancioff, assistente della Callas e fucina di aneddoti non so quanto volontariamente maligni, abbia sentito il poeta sussurrare senza ironia una frase in seguito foriera di interpretazioni dietrologiche impossibili da ricordare qui: «Questo è fare arte. Ora deve asciugare al sole per ventiquattr’ore. Ne farò tre soltanto, e uno sarà per te»). Ed ecco le poesie e i versi che lui le dedica. E quando questi verranno senza indugio sparpagliati in più sedi editoriali (Su Nuovi Argomenti, in appendice alla sceneggiatura di Medea e in sezione apposita in Trasumanar e organizzar) e i critici taceranno distratti, PPP si auto-recensirà polemicamente su Il Giorno del 3 giugno 1971, indisposto almeno in apparenza a sospettare dietro al silenzio una qualche forma di cortesia.

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C’è un libro o un saggio su quasi tutto quello che ha fatto Pasolini nella sua vita. Ammesso che si possa ancora prendere per buona la teoria della doppia articolazione su cui si baserebbero sia la lingua del cinema sia quella della realtà, le circostanze hanno portato ad una paradossale accumulazione di speculazioni. Si è iniziato, ovviamente, dai testi che si occupavano della storia nel suo insieme (la vita e le opere di PPP). Quando il tema si è saturato, si è passati ad analizzarne i differenti «sintagmi», accorpati o scomposti: il cinema di Pasolini, le sceneggiature di Pasolini, le poesie di Pasolini, per poi concentrarsi, in modo sempre più parziale e capillare, su ciascuna singola componente di questi «monemi»: il singolo film, il singolo verso, le relazioni connettive, tutto ciò che stava dietro e davanti ad esse, i documenti rivelatori e ogni minimo scartafaccio. Quando anche su ciascuno di questi aspetti si sono moltiplicati i testi, le notazioni, i punti di vista, si è giunti ad analizzare con la stessa pedante acribia anche i «fonemi pasoliniani», gli elementi spuri, magari isolati dal contesto, privi di un senso autonomo. Singoli fatti bruti, inquadrature non montate, capaci di dire tutto e il contrario di tutto, come qualsiasi fotografia; capaci di manipolare, dunque utili per partecipare alla beatificazione e al linciaggio – due facce della stessa medaglia – che ancora impedisce di storicizzare Pasolini e lo obbliga a essere ininterrottamente ucciso, da quarant’anni a questa parte.

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Correva l’anno, si leggeva un tempo nel più convenzionale incipit dei racconti storici. E nell’Italia del “tutti a casa”, che con l’8 settembre del ’43 si era illusa di essere uscita dalla guerra, corsero davvero i giorni del 1944. Nel segno della tragedia collettiva rotolarono anzi a precipizio, dovunque ma soprattutto in Friuli, terra travagliata dal confine sempre conteso, e in particolare a Casarsa, che la posizione geografica e militare – l’insediamento di caserme, il ponte sul Tagliamento, la presenza di una stazione ferroviaria di rilievo – aveva elevato a obiettivo strategico da colpire o da presidiare: per gli alleati che vi sganciavano bombe sull’abitato e sui treni; per i partigiani che vi compivano azioni di sabotaggio e disturbo; per i fascisti e i tedeschi occupanti che vi reagivano con rastrellamenti, carcerazioni o altre violenze ancora più cruente.

Casarsa, luogo materno di spensierate vacanze estive prima della guerra, non era più un tranquillo rifugio nemmeno per il giovane Pasolini, che magari temporaneamente, in attesa della fine del conflitto, aveva pensato di riparare proprio lì, in fuga dai pericoli bellici che parevano minacciare Bologna con rischi più elevati. Sul finire del 1942 vi si era dunque trasferito con la madre e il fratello Guido, sistemandosi alla meglio nella grande casa Colussi, nido caldo di affetti protettivi e femminili, pieno di zii, zie e cugini. Con un rocambolesco viaggio di fortuna da Livorno, dove faceva il servizio militare, vi era rientrato anche dopo l’8 settembre ’43: una fuga pure in quel caso, dopo essere riuscito per un soffio a non cadere nelle mani dei tedeschi, inferociti per il tradimento dell’alleato italiano.

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La diva Callas, nelle lettere indirizzate a Pier Paolo Pasolini e scritte tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, si firma «Maria (fanciullina)». Pasolini non ebbe un rapporto stretto con quasi nessuno degli attori dei suoi film, esclusi gli amici – poi nel tempo diventati attori-feticcio – come Ninetto Davoli o Franco Citti; forse l’eccezione è rappresentata proprio da Maria Callas, protagonista di Medea (1969), che insieme racchiudeva i ruoli e i caratteri di interprete, amica, confidente. Nel loro periodo di frequentazione, durante le riprese del film (girato a Grado, in Siria, in Turchia e in Piazza dei Miracoli a Pisa), e nei pochi anni successivi, prima dell’omicidio del regista, il rapporto tra i due si fa molto stretto. Negli anni si è vociferato di una sorta di amore non corrisposto da parte della soprano verso Pasolini, complici anche alcuni aneddoti diventati via via emblematici: l’anello regalato alla Callas da Pasolini negli ultimi giorni di lavorazione del film, nella laguna di Grado; le molteplici fotografie che li ritraggono durante le vacanze in Grecia (celebre quella di loro in barca a Skorpios, insieme ai due barboncini della diva) o in Africa, accompagnati da Alberto Moravia e Dacia Maraini; le lettere ritrovate anni dopo, ricche di affetto, confidenze, reciproche consolazioni (in particolare la Callas consola il poeta dopo l’abbandono di Davoli).

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«Mi ringraziò a lungo, salutandomi, per l’occasione che gli avevo dato di ripensarsi ‘dentro’ una sua opera. Era l’intenzione di quel mio atto dal titolo Intellettuale». Riferendosi a Pier Paolo Pasolini, l’artista Fabio Mauri ricorda con queste parole, adesso accolte nel volume Il diaframma di Pasolini, la performance che si tenne il 31 maggio 1975 in occasione dell’inaugurazione della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Quella sera nell’atrio della Galleria, Pasolini, seduto in rigida posa su una sedia, lasciò che gli fosse proiettata sul torace, coperto da una camicia bianca, la prima parte del suo Vangelo secondo Matteo. Lo scrittore si prestò alla realizzazione della performance e divenne – attraverso il proprio corpo – un inconsueto supporto mediale, mezzo di trasmissione delle immagini, stabilendo con l’opera da lui stesso ideata un legame fisico, di suggestiva intimità.

Come era accaduto con il regista Miklós Jancsó, sul quale Mauri aveva proiettato sempre nel 1975 il suo film Salmo rosso nell’ambito dell’azione intitolata Oscuramento, anche Pasolini, già amico dell’artista dai tempi della prima giovinezza, decise di partecipare ad un atto performativo che lo identificò visivamente e senza nessuna mediazione con una delle sue creazioni filmiche. È l’immagine che procede dal piano concettuale e si fa corpo a catalizzare l’attenzione dell’artista e a racchiudere il senso di quella singolare operazione intellettuale:

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Catania/Napoli, luglio 2015

Mario Spada, nato a Napoli, classe 1971, entra nel mondo della fotografia nel 1986. È un reporter che ama la sua terra e la sa raccontare. Nel 2007 lavora come fotografo di scena al film Gomorra di Matteo Garrone e nel 2009 pubblica il suo primo libro personale Gomorra on set. Mario Martone lo chiama quando decide di far rivivere sul grande schermo, con Il giovane favoloso, l’immensa anima del poeta di Recanati, Giacomo Leopardi. Il 3 luglio di quest’anno, in occasione del compleanno di Giacomo Leopardi, gli scatti inediti del set del film sono stati esposti a Recanati in occasione della mostra Il giovane favoloso outdoor. Ecco cosa ci ha raccontato Mario Spada di entrambe le esperienze.

 

D: In che modo la fotografia è intervenuta nella ri-costruzione degli ambienti de Il giovane favoloso?

R: La ricostruzione degli ambienti del film è dovuta allo studio dello scenografo e di Mario Martone. Quello che deve fare il fotografo di scena, cioè io, è scattare delle fotografie che possano servire all’ufficio stampa che però, il più delle volte, ha un’idea della fotografia molto ‘classica’ (per esempio i posati fuori dalla scena), e quindi spesso le foto pubblicate o quelle scelte dall’ufficio stampa non corrispondono sempre a quello che avrei scelto io. Il fotografo di scena, nel mondo del cinema, è considerato ‘superato’, inutile alla produzione del film, perché non fa di certo IL FILM. Quando però il fotografo di scena ha un occhio particolare, tutto suo, può creare una storia all’interno del film che può essere d’aiuto per la distribuzione dell’opera, per la sua pubblicità. La cosa buona che qui è successa è che le foto de Il giovane favoloso le ho scelte insieme a Martone. Mario ha voluto che partecipassi a questo film dopo una prima collaborazione per lo spettacolo teatrale La serata a Colono tratto da Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, con Carlo Cecchi e le musiche di Nicola Piovani. Non voleva il classico fotografo di scena e con lui abbiamo fatto una selezione di foto interessanti che poi ha anche utilizzato nel libro sulla sceneggiatura pubblicato per Mondadori. In più il manifesto del film, realizzato da Patrizio Esposito, è costruito a partire da una mia foto: rovesciando l’immagine Esposito rafforza l’idea di un Leopardi ribelle, non più triste e pessimista. In questo caso l’idea-guida del film nasce da un corto circuito di sguardi.

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