Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

 

Nel panorama abbondante, diversificato e discontinuo delle scritture delle attrici teatrali – in attesa di un censimento vero e proprio – intendo mettere a fuoco i seguenti punti.

 

1. 1887, la prima autobiografia d’attrice in Italia Ricordi e studi artistici di Adelaide Ristori

Tutti e quattro i protagonisti della generazione del Grande attore – Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, Antonio Petito – scrivono le loro memorie ma non per questo è meno forte il gesto di Ristori di riconoscersi soggetto degno di biografia, sia pure novant’anni dopo il pionieristico Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même. Le memorie sono uno strumento fondamentale di costruzione e diffusione della propria immagine pubblica, dunque fissano immagini artificiali e idealizzate che vanno decodificate. Ristori fornisce di sé un’immagine edificante di moglie e di madre ma nello stesso tempo mette in luce i suoi poteri come primadonna e capocomica e non ne nasconde i lati faticosi. E, soprattutto, oltre alle vicende biografiche, propone sei studi approfonditi dei maggiori personaggi interpretati [fig. 1]. Da questo punto di vista rappresenta un modello avanzato rispetto a produzioni successive anche recenti, pur significative: la stessa Valentina Cortese – indiscutibilmente una diva – è avara di approfondimenti sul suo lavoro specifico di attrice (Quanti sono i domani passati) e ancor meno dicono le memorie di Ilaria Occhini (La bellezza quotidiana).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

 

Sebbene non si muovano all’interno del divismo attoriale, bensì in quello del divismo in sé, le webstar costituiscono un caso particolarmente calzante nella questione delle divagrafie. L’autobiografia, infatti, è un elemento imprescindibile del bagaglio della perfetta diva del web [fig. 1], indipendentemente dall’età estremamente giovane. Un fenomeno transmediale (Jenkins 2006) dal quale risulta una produzione di opere-gadget, utili soprattutto a contenere un autografo durante gli incontri tra le piccole ammiratrici e la loro beniamina [fig. 2]. A riempire le pagine, oltre le numerose fotografie, sono gli stessi aneddoti già noti all’interno dei social media nei quali queste giovani star operano. Si tratta di vite comuni nelle quali qualsiasi ragazzina può rispecchiarsi, ma dove aleggia il barlume della fama che riesce a farle sognare. Nel divismo cinematografico tale processo di empatia riguarda solo alcuni attori (Jandelli 2007), e tramite la sovrapposizione dei concetti persona-personaggio (Metz 1977); anche sul web avviene qualcosa di simile, con la differenza che chiunque all’interno di una cultura dell’iperselfie (Scrivano 2015) costruisce un sé-personaggio mediale; allo stesso tempo qualsiasi elemento pubblicato alimenta un’autobiografia costante: le ragazze in particolare vi partecipano sempre di più attraverso forme molto diverse (Maguire 2018).

Quando i content creators raggiungono una fama sufficiente da possedere un valore economico, è molto probabile corredino la propria produzione di almeno un libro stampato. Il contenuto può dipendere dalle tematiche affrontate (il caso dei manuali e i libri di divulgazione), oppure attuarsi nella forma di romanzo e autobiografia. Queste ultime due opzioni rappresentano un ‘concime’ per la vena critica delle book-community. In particolare su YouTube, dove è possibile dilungarsi in argomentazioni, se ne contesta lo scarso valore letterario (ad esempio Matteo Fumagalli dedica una serie alla critica ironica dei ‘libri trash’, dove compaiono i libri degli youtuber), e la vacuità della retorica del sogno che infesta quasi ogni produzione (si veda il video di Ilenia Zodiaco dal titolo ‘Youtuber che scrivono libri e la retorica dei sogni’).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

 

La prima prova narrativa di Laura Morante – dopo la scrittura per il cinema a quattro mani con Daniele Costantini per due film di cui la Morante è anche regista e protagonista (Ciliegine, 2012 e Assolo, 2016) – appare simile al lavoro preliminare di un sarto: è come se sull’ampio pezzo di stoffa delle sue prove cinematografiche l’attrice avesse poggiato un cartamodello traendone un nuovo pezzo, una nuova forma. Soltanto un pezzo, certo, che lascia fuori tutto il resto ma che solo da questo poteva ricavarsi. E forse, per continuare la metafora, quel che appare più interessante dell’opera Brividi immorali. Racconti e interludi (2018) è non la nuova forma bensì proprio l’atto del poggiare la leggera carta sulla stoffa prima del taglio, sia per la scelta dei contenuti che per quella formale della brevità del racconto. Assomigliano tanto i protagonisti degli otto racconti, inframmezzati da sette interludi, ai ruoli interpretati dalla Morante al cinema, ruoli che vanno via via rinsaldandosi, seppur dentro generi cinematografici differenti, fino a costruire un’icona del cinema italiano contemporaneo riconoscibile e definita e per questo, dopo le primissime prove, voluta sempre più dai registi con cui ha lavorato per incarnare un certo tipo di donna – spesso madre e moglie – che non cela fragilità e nevrosi, ma anzi le restituisce come frutto e causa della complessità delle relazioni umane.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

Anne Wiazemsky è rimasta indelebile nell’immaginario cinefilo per essere stata una delle icone più significative della nouvelle vague francese e del cinema d’autore italiano: dopo il debutto in Au hasard Balthazar di Robert Bresson (1966), si lega a Jean-Luc Godard, diventandone la seconda musa e recitando ne La Chinoise (1967). Ma proprio l’affrancarsi progressivo dal cinema ideologico e impegnato del secondo Godard e l’acquisizione di una fisionomia attoriale indipendente da quella del marito la porteranno a cimentarsi in pellicole italiane fondamentali con registi del calibro di Pasolini (Teorema, Porcile), Carmelo Bene (Capricci) e Ferreri, sul cui set de Il seme dell’uomo si svolge la rottura emotiva con il cineasta svizzero. Ma a quella di attrice, Anne Wiazemsky ha affiancato una doppia carriera di scrittrice, che nel corso dei decenni ha preso il sopravvento sulla prima, con riconoscimenti prestigiosi e la pubblicazione delle proprie opere da parte di una casa editrice storica come Gallimard.

Ci concentreremo sulla trilogia romanzesca che Wiazemsky ha dedicato alla propria carriera di attrice, costituita da Jeune Fille (2007) [fig. 1], Une année studieuse (2013) [fig. 2] e Un an après (2015) [fig. 3]. L’autrice, in riferimento alle tre opere, parla esplicitamente di “romanzi”, ponendo quindi un evidente dilemma di categorizzazione: come possiamo definire questi testi che, pur nella rivendicazione autoriale di finzionalità (frutto per Wiazemsky della distanza memoriale immancabilmente deformante), mantengono un indissolubile legame con l’autobiografia e il memoir attoriale? Il dispositivo divagrafico ci viene in aiuto per poter indagare un materiale tanto ibrido quanto compiutamente costruito su stilemi che appartengono alla tradizione non solo letteraria, ma potremmo dire quasi “antropologica”: lo schema della Bildung cinematografica si accompagna alle tappe fondamentali della formazione di Anne nel suo progressivo affrancarsi prima dalla famiglia (attraverso l’ingresso nel cinema e la relazione con Godard) e poi dal marito (e qui il rapporto con il cinema italiano diventa fondamentale punto di svolta tanto narrativo quanto di vita).

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Spinto dal desiderio di confrontarsi con la parola di Giovanni Testori, con la sua potente teatralizzazione della grammatica, Roberto Latini ha portato in scena il famoso monologo testoriano In exitu (1988). Il contributo analizza e interpreta lo spettacolo dell’attore-dramaturg romano attraverso una riflessione sul senso ideologico del testo, sul suo messaggio sociale ancora vivo e urgente. L’itinerario di indagine tracciato è perciò declinato in due momenti: il recap essenziale della storia e dei temi della drammaturgia di Testori che consente di contestualizzare, nella seconda parte del testo, la lettura critica delle forme di recitazione e di scrittura scenica adottate da Latini nella sua performance. La tesi che salda i due movimenti dell’analisi rileva un deciso ‘inarcamento’ di sensibilità artistica che avvicina Latini a Testori; una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’ che assegna alla messinscena dell’attore un forte impatto emotivo, e soprattutto la rende paradigmatica del significato profondo dell’opera testoriana, del suo valore espressivo e morale. 

Driven by the desire to confronted with the words of Giovanni Testori, with his strong theatricalization of grammar, Roberto Latini hasstaged the testorian famous monologue In exitu (1988). This paper analyzes and interprets the show of the roman actor-dramaturg through a reflection on the ideologic meaning of the text, on its existing and urgent social message. Therefore the itinerary of research is structured in two moments: the essential recap of history and themes of Testori’s dramaturgy that allows to contextualize, in the second part, the critical reading of the forms of acting and scenic writing adopted by Latini in his performance. The thesis that welds the two movements of the analysis reveals a sharply ‘bending’ of artistic sensibility that brings Latini closer to Testori; a ‘correspondence of loving senses’ that gives to the actor’s performance a strong emotional impact, and makes it paradigmatic of the profound meaning of the testorian work, of its expressive and moral value.  

Lui la vede la sua anima,

un lenzuolo bianco che sbatte in balìa del vento,

fra cielo e Dio.

Markus Hediger

 

 

1. Alla radice del messaggio testoriano

«Essere non o essere» recitava Roberto Latini, con un espressivo capovolgimento del monologo di Amleto nello spettacolo Essere e Non _ le apparizioni degli spettri in Shakespeare (2001). Quasi vent’anni più tardi un imprevedibile fil rouge lega l’interrogativo sospeso fra il niente (l’essere non) e l’essere del giovane Latini all’«angoscia del niente»[1] del giovane Riboldi Gino creato da Giovanni Testori, personaggio che si sottopone ad ogni degradazione possibile, che non ha più nulla da perdere, che raggiunge il limite estremo dell’abiezione, arrivando a sentirsi esso stesso ‘niente’: «Riboldi-niènt, Gino-niènt, Gino-nòsingh, nòsingh-Gino, nòsingh-niènt […]».[2]

L’inclinazione verso un punto di vista esplicitamente esistenziale, affacciato sulla dimensione profonda dell’individuo, in cerca di una «possibile pantografia della condizione umana»,[3] salda l’itinerario di pensiero dell’intellettuale lombardo alla quête artistica dell’attore-regista e dramaturg romano, in una consonanza di sentimenti e ispirazioni che va ben oltre il tracciato biografico. La distanza geografica e storica che separa Testori e Latini si riassorbe e scompare in una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’, incarnata nell’interpretazione dell’attore di uno dei personaggi più forti, dirompenti e difficili della mitopoiesi testoriana: Riboldi Gino, protagonista del monologo In exitu.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Il Purgatorio del Teatro delle Albe (co-produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri e Fondazione Matera-Basilicata 2019) è il secondo ‘pannello’ che compone il ‘polittico’ del Cantiere Dante. Il mastodontico progetto, nato nel 2017 con l’Inferno e che si concluderà nel 2021 con l’intero trittico dantesco, è realizzato grazie alla ‘Chiamata Pubblica’ che ha permesso di coinvolgere, accanto ai componenti della compagnia, più di mille cittadini sia tra gli organizzatori che sulla scena. Questo Purgatorio, in particolare, realizzato come una ‘liturgia della poesia’, sembra configurarsi come la cantica del teatro e dell’arte stessa, nel suo essere ‘cantica del ricominciare’, della creazione dopo lo sprofondamento e il buio. Una risalita che, tra Matera e Ravenna, assume prospettive differenti: fisiche e reali nella prima tappa, dello sguardo e della percezione nella seconda. In entrambi i casi, comunque, una risalita per reinventare l’arte, la vita e la loro inscindibilità.

Teatro delle Albe’s Purgatorio (a co-production of Ravenna Festival/Teatro Alighieri and Fondazione Matera-Basilicata 2019) is the second ‘panel’ of the ‘polyptych’ of the Cantiere Dante. The enormous project, born in 2017 with Inferno and that will be concluded in 2021 with the entire Dante’s triptych, is realized thanks to the ‘Chiamata Pubblica’ which involved, in addition to the members of the company, more than a thousand citizens, both in the organization and on stage. In particular, this Purgatorio, realized as a ‘liturgy of poetry’, seems to represent the cantica of theatre and art itself, in its being the ‘cantica of starting over’, of the creation after sinking and dark. An ascent which assumes, between Matera and Ravenna, different perspectives: physical and real in the first case, ascent of gaze and perception in the second one. In both cases, however, an ascent to reinvent art, life and their inseparability.

1. La fossa, la creazione alchemica e la liturgia della poesia

Si potrebbe partire dalla Ermanna bambina di Miniature campianesi che deve misurarsi con la propria fatica nella creazione collettiva dei cori della scuola e che preferisce, ogni giorno, scavare «un buco nel giardino per ascoltare le voci dal fondo della terra».[1] Si può partire da lì per osservare come quel buco, in tanti anni, sembra non essersi mai chiuso. Come, anzi, tutti questi decenni di lavoro artistico siano stati quasi lo sfiancante sforzo di tenerla spalancata, quella fossa. Tanto che la Ermanna Montanari del 2019 afferma: «Cerco sempre il buco, chiamiamolo così, la fossa invisibile. Poi arrivano gli umani, i corpi e il loro mistero».[2] Fossa come soglia, insomma, come l’unica via d’accesso a un luogo, il più recondito possibile, nel quale poter scagliare il reale per oscurarlo, per acceccarlo. Non per farlo fuori definitivamente, ma per vedere cosa da esso quel buio sappia generare e tornare poi ad affrontare il mondo attraverso quella generazione per oscuramento, attraverso l’arte, il teatro.

Un percorso dantesco, insomma. Scagliare il mondo, la realtà, al centro della terra, come fu per Lucifero, perché quello schianto possa far sorgere, per smottamenti e frane, il monte, l’ascesa di un salvifico percorso da battere, con tutta l’enorme fatica che questo comporta, per giungere alla creazione. «L’arte, alla sua maniera», chiosa Marco Martinelli nel suo ultimo libro, dedicato proprio a Dante, «nasce dalla terra e indica il cielo»[3] e, per questo motivo, è proprio in Purgatorio che vengono collocati, nella quasi totalità, gli artisti presenti nella Commedia.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Carullo-Minasi, that has received the ANCT Prize in 2017, with a motivation that defined it as «the last, little revolution of italian theatrical scenes», represents today one of the most original realities in italian artistic creation. This interview is the result of the encounter with the messinese company on the occasion of the debut of Marionette, che passione!, their show hosted in the summer season of Catania’s Teatro Stabile. It tries to investigate and to outline the main points of their research and authorial gaze.

 

 

D: Partirei proprio dal ‘qui e ora’. Ci stiamo incontrando all’interno della stagione estiva del Teatro Stabile di Catania che vede il debutto del vostro ultimo spettacolo Marionette, che passione! da Rosso di San Secondo. Voi che vivete e lavorate a Messina, che sguardo avete sulla vostra città? E, sempre da un punto di vista culturale, come appare ai vostri occhi Catania e il legame tra queste due sorelle – se sono davvero da considerarsi sorelle – nella costa orientale della Sicilia?

 

R: Anzitutto siamo molto contenti di questa domanda, perché rappresenta per noi il focus su cui le istituzioni dovrebbero cominciare a ragionare in maniera intelligente, facendo quella che sempre viene chiamata ‘rete’ ma che sembra così difficile in un contesto come quello siciliano. Riteniamo questa, veramente ‘qui e ora’, un’occasione che probabilmente dovrebbe caratterizzare le esperienze dei cosiddetti ‘giovani’ che non sono più giovani, che hanno un percorso alle spalle di dieci anni e che comunque vogliono potere sperimentare quello che qui è accaduto, cioè avere una macchina istituzionale messa a loro disposizione con fiducia e meraviglioso rischio. Perché la felicità, ma al contempo anche l’arte, è rischio e rischio equivale anche a responsabilità: noi, con tutta la squadra, ci sentiamo estremamente responsabili e di questa responsabilità ne facciamo un valore. Vogliamo, però, che questo rischio – che è stato assunto da Catania nella figura straordinaria di Laura Sicignano – sia un punto d’esempio per tutta la Sicilia. Perché noi ci sentiamo onorati di potere intraprendere una cosa che ti mette d’innanzi a tutta una serie di elementi con cui in genere non siamo soliti operare: abbiamo sempre giocato e lavorato con una povertà del teatro e qui continuiamo a ragionare sulla povertà del teatro – e sulla magnificenza di quella povertà –, sapendo però di potere contare su una struttura che evidenzia che cos’è il teatro. Il teatro è povero, deve rimanere povero, ma si deve avvalere della forza degli esseri umani, perché amplifica la loro potenza per poi raccontare la nullità del genere umano. Messina è in un momento di grande disvalore culturale, che rischia un impoverimento delle generazioni a venire. Se non si vede teatro, se non si cerca di creare, appunto, delle connessioni, le generazioni non si incontrano e non possono poi arrivare a dire quello che si costruisce nel tempo, piano piano, con l’esperienza. E si può cominciare a dire che questa è un’occasione di grande esperienza che fuoriesce dai canoni che eravamo abituati a sperimentare.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

Milleluci costituisce uno spettacolo per molti versi ineguagliato nella storia della televisione pubblica italiana, sia per la sua collocazione storica – il 1974, durante il periodo dell’austerity e alla vigilia della proliferazione dell’emittenza televisiva privata – che per le scelte artistiche che lo caratterizzano. Il programma, diretto da Antonello Falqui, promuove una celebrazione in grande stile del passato musicale e dello spettacolo nazionale, affidandone per la prima volta la conduzione a una coppia femminile di protagoniste assolute come Mina e Raffaella Carrà. La loro elevata e versatile professionalità artistica, unita a una presenza scenica complice e autoironica, supportata dal contributo di una squadra di collaboratori di prim’ordine (da Gianni Ferrio a Roberto Lerici) e di ospiti significativi, fa di Milleluci un rilevante punto d’approdo. Il viaggio del programma televisivo attraverso i generi dello spettacolo musicale e i media che li hanno veicolati (dalla radio al café-chantant, dalla rivista al cabaret, dall’operetta al musical alla televisione) viene ricostruito attraverso un elaborato lavoro storico e scenografico che può essere fruito da diverse tipologie di pubblico, da quelle attente agli aspetti performativi, a quelle che ne colgono il portato autoriflessivo e sottilmente critico. 

Milleluci represent a spectacle in many ways unparalleled in the history of italian public television, both for its historical position –  1974, during the period of austerity and on the eve of the proliferation of private television broadcasting – and for its artistic choices. The program, directed by Antonello Falqui, promotes a celebration in grand style of the musical past and the national show, conducted for the first time by a female couple of absolute protagonists such as Mina and Raffaella Carrà. Their elevated and versatile artistic professionalism, combined with a close and self-mocking stage presence, and with the contribution of a team of first-rate collaborators (from Gianni Ferrio to Roberto Lerici) and significant guests, makes Milleluci an important arrival point. The journey of the television program through the genres of the musical show and the media that broadcasted them (from radio to café-chantant, from magazine to cabaret, from operetta to musical and to televison) its reconstructed through an elaborate historical and scenographic work, that can be enjoyed by different types of public: from those attentive to the performative aspects, to those that capture its self-reflexive and subtly critical brought.

È il 16 marzo 1974 quando, sul programma nazionale televisivo, si accendono per la prima volta ‘mille luci’ sulla storia dello spettacolo musicale: si tratta di una rievocazione in grande stile, destinata a segnare una tappa ineguagliata per la televisione italiana non solo per l’ingente dispiegamento di mezzi finanziari, ma anche per l’attenta rilettura dello spettacolo musicale che lo show propone. Il pubblico mostra di gradire l’operazione, assicurando al programma un successo attestato da 24 milioni di spettatori, che costituiscono un assoluto record per l’epoca,[1] forse attratti dal titolo del programma che, oltre a richiamare l’opulenza e la retorica altisonante dello show business, costituisce una pausa rilassante nel difficile clima dell’austerity.

In effetti, le misure introdotte dal governo Rumor nel dicembre 1973 per contrastare le conseguenze della crisi petrolifera non hanno ripercussioni solo sui trasporti, ma investono numerosi aspetti della vita quotidiana tra cui il consumo di media, come cinema e televisione, che subiscono contrazioni nella programmazione.[2] Perciò le ‘mille luci’ del varietà diretto da Antonello Falqui – da spegnersi rigorosamente prima dell’ora fatidica del coprifuoco – aprono a una pluralità di aspettative e di direzioni cui lo show cerca di far fronte.

È d’altra parte difficile inventare un format musicale inedito e originale. Come hanno messo in luce Luisella Bolla e Flaminia Cardini, la «macchina sonora» della Rai[3] ha già prodotto decine di programmi che fanno della musica il loro punto di forza. Accanto ai consolidati Canzonissima – un vero e proprio cavallo di battaglia del varietà sostenuto da una competizione canora, in onda dal 1956 al 1975 – e Teatro 10, che nel 1972 raggiunge la terza edizione, presentata da Alberto Lupo con Mina, le tipologie di show musicali più frequentate sono diverse. Oltre alle proposte dedicate ai singoli generi musicali (dal pop al jazz alla musica classica) e ai loro principali protagonisti,[4] in particolare dall’inizio degli anni Settanta si avviano percorsi più innovativi, organizzati come viaggi alla scoperta di territori, culture, tematiche che prendono forma anche attraverso le canzoni. È il caso di Europa Folk e pop (di Gianni Minà e Gian Piero Ricci), seguito, l’anno successivo (1973) da Folk e pop nell’America latina, due itinerari di perlustrazione e conoscenza di spazi geografici e musicali; ma anche di format come Milledischi, trasmesso dal 1971 con l’obiettivo di arginare la crisi del disco valorizzando tutte le novità (dalla musica classica al jazz e folk e canzonette) o Adesso musica dell’anno successivo con la medesima formula.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Abstract: ITA | ENG

Il saggio, attraverso lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo (Catania, 2009-2010) della regista Maria Arena intorno agli scritti autobiografici Lettera aperta (1967) e Il filo di mezzogiorno (1969), offre uno sguardo sull’eredità artistica e memoriale della scrittrice e attrice Goliarda Sapienza nel contesto contemporaneo.

This essay, through the intermedial show Io ho fatto tutto questo(Catania, 2009-2010) by the director Maria Arena about the autobiographical writings Lettera aperta (1967) and Il filo di Mezzogiorno (1969), looks at the artistic heritage in the new millennium of the writer and actress Goliarda Sapienza.

 

Il soggetto individuale è sempre un evento sociale, e ogni singolo è come una cavità teatrale che riecheggia i diversi motivi e linguaggi della società.

Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente

 

Questo pensiero di Giacomo Marramao racchiude in sé il carattere di fondo della scelta di Maria Arena di portare in scena, nel 2009 a Catania, con lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo, la complessa formazione della scrittrice/attrice Goliarda Sapienza, partendo dal lavoro sugli scritti autobiografici Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno.[1] Al di là dell’impellente necessità testimoniale, negli anni della sua riscoperta in Italia, per la regista era necessario andare oltre l’istantaneità del ricordo per intercettare la memoria di una trasformazione vitale emblematica per la sua «stra-ordinarietà», l’esemplarità di «un percorso a ostacoli, una ricerca di autenticità».[2] Per questo Maria Arena sceglie di mettere in scena non solo il racconto ma anche l’esperienza di una condizione di crisi esistenziale partendo da un un momento preciso della sua biografia legato alla profonda crisi vissuta intorno ai quarant’anni che la portò a due tentati suicidi. Il primo dopo il crollo depressivo seguito alla morte della madre, per cui fu sottoposta a degli elettroshock che ne causarono uno stato di paurosa instabilità e la perdita della memoria. Il secondo fu dato dal fallimento del recupero della riappropriazione di sé attraverso i propri ricordi dopo l’abbandono della professione del suo terapista. Il recupero narrativo attraverso la scrittura si rivelò però il miglior strumento terapeutico per recuperare la molteplicità delle immagini della propria identità. La regista ripercorre quindi il viaggio a ritroso percorso dalla scrittrice nei due testi autobiografici del ’67 e del ’69 Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, in cui racconta la riscoperta e la rinascita come scrittrice attraverso un itinerario interiore: dalla vivacità formativa della propria infanzia, vissuta tra le strade del quartiere popolare San Berillo di Catania, sino alla deludente esperienza d’attrice teatrale e cinematografica a Roma.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16