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Dopo l’abbandono del progetto da parte di Orson Welles per Tiresia per l’Edipo re, nel 1967 Pasolini si rivolse a Julian Beck del Living Theatre. Il cambio si rivelò uno stimolo per il ripensamento del personaggio sfruttando l’aura, la fisicità androgina e dissacrante dell’attore. In dialogo ma anche in autonomia rispetto alla comunità teatrale di appartenenza, Pasolini ricorrerà a una inaspettata sottrazione del corpo, al centro dell’attività dell’interprete, per esaltare la potenza sacrale ma anche umoristica del suo volto.

Pasolini engaged Julian Beck of the Living Theatre in 1967 after Orson Welles decided to back out of the performance of Tiresias for Edipo Re. The shift significantly contributed for reconsidering the role by utilizing the aura, androgynous physique, and disrupting the body language of Beck. In the dedicated scenes, Pasolini used an unexpected reduction of the body, which was at the center of the performer's activity, to amplify the holy but also humorous force of his face, acting both in dialogue with and independently from the theatrical group to which he belonged.

La scelta di Julian Beck per l’interpretazione di Tiresia in Edipo re è un ripiego in corso d’opera. Pasolini scrive la sceneggiatura pensando a Orson Welles, descrivendo il personaggio come un «vecchio uomo, grasso, pesante, segnato dalla vecchiezza su un viso restato infante» (Pasolini 2001a, p. 1006). L’idea è forse quella di tracciare un filo sottile tra i personaggi del regista della Ricotta e dell’indovino di Edipo re, uniti idealmente dalla sagacia dell’intellettuale che osserva stancamente l’inutile agitarsi dell’umanità, con «una dimensione morale, insaporita dall’intelligenza e dalla sua crudeltà consuete: sarebbe stato un Tiresia accusatore», come spiega a Jean-André Fieschi (Pasolini 2001a, p. 2924). Ma Welles rinuncia, optando negli stessi mesi per un altro Edipo re e un altro Tiresia: nell’estate 1967 partecipa infatti alle riprese del film Oedipus the King di Philippe Saville, in cui interpreta proprio il veggente cieco. Così, poco prima, nell’aprile 1967, nel bel mezzo della produzione, Pasolini deve cercare rapidamente un «ripiego» (Chiesi 2006, p. 20).

Proprio in quei giorni, dal 5 al 7 aprile, va in scena al Teatro delle Arti di Roma l’Antigone del Living Theatre, la compagnia che due anni prima aveva folgorato Pasolini con una pratica teatrale spregiudicata e coinvolgente, politica e rivoluzionaria, contribuendo alla nascita della stagione della sua scrittura tragica. Nello stesso teatro, l’8 e il 9 aprile il gruppo americano propone anche Le serve. È quasi inevitabile che la folgorazione si rinnovi: Pasolini invita a cena Judith Malina e Julian Beck, di cui elogia l’interpretazione femminile nelle Serve, e propone all’attore di partire subito per il Marocco per interpretare Tiresia, promettendo non solo una regolare paga ma anche, come ricorderebbe Francesco Leonetti (che nel film interpreta il servo di Laio), «un camioncino» (Boriassi 2017-2018, p. 76). Beck accetta, previa «cortese concessione del Living Theatre», come si legge nei titoli di testa: «senza il consenso del clan, infatti, Julian non si può allontanare dalla sua comunità di vita e di lavoro» (Possamai 2011, p. 44).

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Laura Betti vive a fianco di Pasolini un’avventura artistica esaltante che la porta a esplorare un modo ‘paradossale’ di recitare davanti alla macchina da presa. Il suo stile rimane inconfondibile e si caratterizza per un mix spregiudicato di mimica ed espressività vocale. I ruoli interpretati nel cinema di Pasolini ci consegnano i tratti di una personaggia ingenua e ambigua allo stesso tempo, autentica e camaleontica.

Laura Betti lives alongside Pasolini an exciting artistic adventure that leads her to explore a 'paradoxical' way of acting in front of the camera. His style remains unmistakable and is characterized by a mix of facial expressions and vocal expressiveness. The roles played in Pasolini's cinema give us the traits of a naive and ambiguous character at the same time, authentic and chameleonic.

  Ho fatto circa cinquantacinque film e mi pare di aver capito, solo ora, che per quanto io abbia ben nascosto la parte di me che sono io, evitando eccessive confusioni con il mio doppio programmato mica male proprio da me, Pier Paolo riusciva a capirmi (spesso non me ne accorgevo e lo negavo beffardamente) meglio di chiunque altro (Betti 1991, p. 189).

 

Il rapporto simbiotico fra Betti e Pasolini raggiunge sul set livelli di intensità non comune, testimoniati dagli scatti dei fotografi di scena, da dichiarazioni, interviste, tutte impronte di un frammentario discorso amoroso che si ricompone poi nell’assolutezza dei fotogrammi. Lungi dall’essere solo ‘tracce vaporose’ (Nacache 2006, p. 19) di una mitografia leggendaria e inafferrabile, questi documenti rinviano alla concretezza di un rapporto di complicità capace di illuminare lo stile del regista, di sollecitarne l’ispirazione fino al punto di sospendere le riprese di Teorema in attesa che Betti si convinca a interpretare Emilia. Questo episodio è solo uno dei tanti aneddoti che è possibile ripescare grazie alla spinta affabulatoria di Betti, sempre pronta a suggerire nuovi spunti pur di ribadire in pubblico la forza del suo legame con Pasolini, ma ciò che più conta è la reciprocità dello scambio performativo e artistico, ovvero la possibilità per il regista di ‘giocare’ con le diverse maschere della sua ‘pupattola bionda’. La relazione artistica fra Betti e Pasolini appartiene allora a quelle che Nacache definisce «associazioni privilegiate» (Nacache 2003, p. 79), contraddistinte da un’intesa ‘amorosa’, una collaborazione appassionata. Quel che scaturisce da tali ‘associazioni’ è «la permanenza di uno sguardo su un volto» (ibidem) e con essa una galleria di piani e sequenze che contrappuntano la declinazione dell’atto cinematografico. Per capire quali siano gli effetti della prolungata esposizione dell’attrice allo sguardo del suo ‘autore’ basta ancora una volta affidarsi alle sue dichiarazioni, sempre puntuali nel riferire la natura del loro legame.

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Partendo da alcune osservazioni sull’attorialità nel teatro contenute nel Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, il contributo approfondisce, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e le riflessioni relative a funzione e pratica dell’attore teatrale.

Starting from some observations on theatrical actorship contained in Manifesto per un nuovo teatro of Pasolini, the article explores, in particular, the difference between Pasolini’s ideas on the nature of cinematographic actorship and the thoughts related to the function and the practice of theater actor. 

 

Benché non abbia mai trattato il tema in maniera sistematica, Pasolini ha elaborato una serie di riflessioni sulla sua pur limitata esperienza di attore, di spettatore che assiste a differenti performance attoriali sia in sede teatrale sia cinematografica, e soprattutto sulla sua pratica di direttore di attori nonché di responsabile del casting dei propri film, dalle quali è possibile estrapolare una vera e propria teoria dell’attore. È quanto hanno dimostrato ampiamente Stefania Rimini e Maria Rizzarelli in un loro recente saggio (2021), riccamente documentato e articolato.

Le considerazioni che seguono, in certi casi, ne riprendono le suggestioni, cercando di integrarle approfondendo, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e quelle relative a funzione e pratica dell’attore teatrale. La vastità del tema e l’estemporaneità delle considerazioni di Pasolini, recuperate da una pluralità di fonti eterogenee, rendono impossibile qualsiasi pretesa di sistematicità, che può essere invece recuperata in interventi specifici sul rapporto con particolari figure di attori ai quali Pasolini era particolarmente legato. Ci auguriamo che le riflessioni proposte possano essere considerate una sorta di ‘secondi sondaggi’ per una doppia teoria pasoliniana dell’attore, il cui valore euristico consiste principalmente nel far affiorare con maggiore evidenza la distanza che separa, nella sua concezione, il cinema dal teatro, non solo sotto il profilo semiologico e culturale ma – verrebbe da dire – ontologico ed esistenziale.

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Inaugurata al principio di marzo del 2022 nel sottopasso di Re Enzo a Bologna, in occasione del centenario della nascita, la mostra dedicata a Pasolini riunisce idealmente la sua formazione universitaria, letteraria e storico artistica, acquisita nelle aule di via Zamboni, con gli esiti meno prevedibili del suo talento polimorfo: il cinema.

Al cinema Pasolini approda nel 1960, quando propone a Fellini di produrre la sceneggiatura cui ha lavorato durante l’estate e che, dopo il rifiuto di Fellini e il passaggio ad Alfredo Bini, diventerà Accattone. Fin da questo debutto, girato con pochissimi mezzi, emerge come caratteristica dello stile cinematografico pasoliniano la scelta di soggetti umili, di personaggi e storie ai margini che il regista sembra estrapolare dall’irrilevanza con una fitta rete di riferimenti alla storia dell’arte.

Come Caravaggio prendeva i propri modelli dalla strada per poi calarli nella solennità di un racconto biblico o evangelico, così fa Pasolini risalendo a genealogie di costumi, gesti e fisionomie sedimentati nel profondo della sua cultura visiva.

La mostra esplora dunque il legame fra arte e cinema, e non a caso questo avviene a Bologna. Come se Pasolini avesse contribuito a descrivere ante litteram una traiettoria possibile, la Cineteca di Bologna è diventata un luogo imprescindibile per i cinéphiles di tutto il mondo e, tra le molte attività che la contraddistinguono, da anni ordina e rende accessibili i materiali dell’Archivio Pier Paolo Pasolini. Questa circolarità non è solo una coincidenza topografica legata alla città felsinea, e a un legame più volte dichiarato dallo stesso Pasolini, ma è un sigillo stesso dell’esposizione che si apre con la fotografia dell’aula lunga e stretta dove seguì i corsi di Roberto Longhi e si chiude con gli scatti di Dino Pedriali che lo ritraggono, nell’ottobre del ’75, nella casa-torre di Chia intento a disegnare il profilo dell’amatissimo maestro: da Longhi a Longhi.

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Il saggio è un primo stimolo alla riflessione sulle forme e le strategie della museologia d’opera per i musei del XXI secolo attraverso il caso studio del Museo Zeffirelli a Firenze. Esso ripercorre la nascita e gli obiettivi del patrimonio del regista, scenografo e costumista fiorentino, rimessi in ‘opera’ dal 2015 dalla Fondazione Zeffirelli Onlus e dal nascente Centro Internazionale per le Arti e lo Spettacolo realizzato all’interno del Complesso di San Firenze nella città natale. Archivio, museo e scuola, esso lavora oggi in maniera complementare alla trasmissione della sua opera divisa fra cinema, teatro e opera. Partendo dal riconoscimento dei rapporti legati alla cultura visuale dell’artista si analizzano qui le strategie espositive e le attività legate ai percorsi operistici.

This paper aims to stimulate a reflection on the museology of opera during the 21st century through the study case of the Zeffirelli Museum in Florence. The essay analyses the birth and the objectives of the heritage collected by the director, set and costume designer. They are reused since 2015 by the Fondazione Zeffirelli Onlus and the International Centre for the Arts and the Performing Arts, set up inside the Complesso di San Firenze in his hometown. As an integrated archive, museum, and school, it now works on the transmission of his heritage divided between cinema, theatre and opera. For this reason, the analysis starts from the recognition of the visual culture embedded inside the opera paths and exhibition activities of the intermedial museum.

La vita non è che un continuo passaggio di esperienze,

da una generazione all’altra: prima imparare e poi insegnare

a chi viene dopo di noi.

Franco Zeffirelli

1. Dai materiali d’archivio al museo intermediale

Messa in movimento, trasmissione e ricezione di un’esperienza molteplice sono i motivi guida espressi dal regista fiorentino Franco Zeffirelli a proposito della raccolta (durante la sua vita) e della destinazione di una serie di materiali legati alla propria attività e all’arte dello spettacolo in toto. Votandosi a questi principi, ha promosso con forza il riconoscimento di quest’insieme patrimoniale come ‘vivente’, non solo per l’azione di conoscenza storica che esercita nel presente verso il futuro ma, si legge tra le righe del suo pensiero, per la capacità di accogliere e far percepire i caratteri stessi della vita e delle arti.

Dal 2015 parte di questi materiali[1] sono gestiti e rimessi in opera a Firenze dalla Fondazione Zeffirelli Onlus, nata in quell’anno proprio con l’obiettivo di «promuovere la cultura e l’arte, attraverso la tutela e la valorizzazione di beni di interesse artistico e storico».[2] Sulla scorta del pensiero dell’artista, l’istituzione ha destinato i propri spazi all’incontro, lo studio e la produzione artistica attraverso il patrimonio zeffirelliano.

Così nella città natale dell’artista, all’interno del Complesso di San Firenze, nel corso del 2015 è stato istituito il CIAS - Centro Internazionale delle Arti dello Spettacolo,[4] che oggi ospita e anima al suo interno un archivio, una biblioteca, un museo, una sala musica da centocinquanta posti che funge anche da spazio di proiezione ed esposizione (nello splendido ex oratorio dei padri filippini caratterizzato da alcuni palchi laterali che ne fanno quasi un teatro), un bookshop, alcune aule dedicate alla didattica (ma tutti gli spazi sono riutilizzati in tal senso), laboratori e un’area ristorativa. In questi spazi si svolgono un insieme di attività formative, artistiche e di progettazione. Le diverse parti, che includono anche la direzione curatoriale, sono pensate come sezioni complementari di uno stesso corpo, sia per gli scambi tra biblioteca, archivio e museo (anche in termini di visite guidate dedicate), sia e soprattutto per gli ulteriori percorsi che fruitori e studiosi possono attivare autonomamente passando da una parte all’altra.[5]

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Il recente film-opera Gianni Schicchi di Damiano Michieletto ha spiazzato tutte le aspettative. Pur aderendo alla tradizione del recitar cantando, il regista veneziano ha infatti introdotto delle sostanziali novità drammaturgiche e stilistiche, intervenendo con decisione sul libretto e adoperando appieno gli elementi della grammatica filmica (piani sequenza, veloci carrelli, zoom). L’analisi propone un’interpretazione del lavoro registico che poggia sulla tesi, ipotizzata dallo stesso Michieletto, che l’opera di Puccini sia stata influenzata dalla settima arte, e che pertanto si presti particolarmente bene a diventare un film. Partendo da tale presupposto la riflessione indaga il nuovo trattamento cinematografico della materia pucciniana, spinto sul piano del ritmo, del divertimento, dell’attualizzazione contemporanea, mettendolo in relazione ai precedenti più significativi della commedia nel cinema operistico: Figaro e la sua gran giornata di Mario Camerini, Il barbiere di Siviglia di Mario Costa, Figaro il barbiere di Siviglia di Camillo Mastrocinque, Avanti a lui tremava tutta Roma di Carmine Gallone.

The recent film-opera Gianni Schicchi by Damiano Michieletto has displaced all expectations. While adhering to the tradition of recitar cantando, the Venetian director has in fact introduced significant dramaturgical and stylistic innovations, intervening decisively on the libretto and making full use of the elements of film grammar (long takes, fast tracking shots, zooms). The analysis proposes an interpretation of the director’s work based on the thesis, hypothesized by Michieletto himself, that Puccini’s opera has been influenced by the seventh art, and therefore lends itself particularly well to becoming a film. Starting from this assumption, the reflection investigates the new cinematographic treatment of Puccini’s material, pushed on the level of rhythm, amusement and contemporary actualization, putting it in relation to the most significant precedents of comedy in opera films: Figaro e la sua gran giornata by Mario Camerini, Il barbiere di Siviglia by Mario Costa, Figaro il barbiere di Siviglia by Camillo Mastrocinque, Avanti a lui tremava tutta Roma by Carmine Gallone.

 

Secondo Damiano Michieletto, regista del film Gianni Schicchi presentato al Torino Film Festival nel novembre 2021 e poco dopo messo in onda dalle reti Rai, l’opera di Giacomo Puccini si presta in modo particolare a diventare un film. Questo perché il compositore toscano, tra i grandi autori italiani di melodrammi, è il primo a operare pienamente quando la settima arte si sta già diffondendo nel mondo, rivoluzionando in modo definitivo l’idea stessa di spettacolo e la sua fruizione da parte del pubblico. Lo ha dichiarato lo stesso regista ai microfoni di Hollywood Party – storica trasmissione dedicata al cinema di Rai Radio 3 –, raccontando le sfide che consapevolmente ha voluto affrontare dirigendo questo film. Sfide che sono tutt’altro che banali: Michieletto ha scelto di restare fedele alla grande e nobile tradizione italiana del ‘recitar cantando’, e quindi di realizzare quello che tecnicamente si definisce un film-opera, impreziosito da un prologo nel quale domina la scena Giancarlo Giannini; al tempo stesso, però, ha voluto mettere le mani con decisione sul libretto, trasportando in epoca contemporanea la vicenda. In questo modo si è perso il diretto riferimento dantesco che è presente nel testo, e che vede lo stesso Dante incontrare Gianni Schicchi nella decima Bolgia (il canto è il XXX dell’Inferno, e si conclude com’è noto con una dura reprimenda di Virgilio nei confronti del poeta toscano), punito insieme agli altri falsari, tra i quali Mirra. Insomma, non si può dire che il regista veneziano abbia scelto la strada più facile per questo film-opera: e proprio l’aver affrontato scientemente ostacoli di ogni tipo lo ha portato a realizzare uno spettacolo nuovo, vivo, brillante.

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L’impatto della pandemia sullo spettacolo dal vivo ha prodotto uno stato di necessità inedito: garantire la fruizione dei contenuti performativi e mantenere in vita il rapporto con i pubblici nonostante l’impossibilità dell’incontro diretto tra attori e spettatori, della loro relazione in presenza. Per affrontare la crisi di relazionalità spaziale che connota il ‘teatro al tempo del Covid’ si sono moltiplicate le iniziative di meditizzazione e webcasting degli spettacoli, con risultati artistici eterogenei ma un ambito di intervento comune: lo spazio performativo ripensato alla luce del trasloco mediale degli eventi. In questo frangente senza precedenti Mario Martone ha ideato e realizzato due allestimenti per il Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini e La traviata di Giuseppe Verdi, che hanno scardinato ogni convenzione formale della messa in scena operistica, reiventandola secondo principi e procedimenti di ordine cinematografico. Le operazioni-opere di Martone, concepite appositamente per essere trasmesse sui canali televisivi e streaming della Rai, risultano esemplari, addirittura paradigmatiche di un netto ripensamento del genere del film d’opera, che il regista napoletano rimodula stilisticamente come opera-film, lavorando sulla cineficazione dello spazio teatrale e delle sue dinamiche attanziali. Il saggio, a partire da una propedeutica ricognizione storiografica del profilo artistico di Martone, analizza e interpreta le reinvenzioni spaziali delle regie liriche sopracitate, secondo due chiavi di lettura divergenti ma complementari: la designazione filmica dello spazio vuoto de Il barbiere, rappresentato e filmato nella sala deserta del Teatro Costanzi per evidenziare l’assenza del pubblico e la finzione scenica, e, all’opposto, l’occultamento cinematografico del vuoto spettatoriale e dell’artificio performativo de La traviata, ottenuto trasformando l’intera platea dell’Opera di Roma in un set realistico e site-specific. La lettura critica dei casi di studio è corroborata da un impianto metodologico che compendia la speculazione di Peter Brook sul valore rivelatorio dell’empty space, le acquisizioni degli Opera Studies sull’astrazione antinaturalistica del teatro musicale, le nozioni di mediatizzazione e cineficazione teatrale segnatamente applicate allo spazio performativo dell’opera lirica. 

The impact of the pandemic on live performance has produced an unprecedented state of necessity: guaranteeing the fruition of performance contents and keeping alive the relationship with audiences despite the impossibility of a direct contact between actors and spectators, of their relationship in presence. In order to tackle the crisis of spatial relationality that characterizes the ‘theatre at the time of Covid’, initiatives for the mediatisation and webcasting of performances have multiplied, with heterogeneous artistic results but a common sphere of intervention: the performance space rethought in the light of the media transfer of events. In this unprecedented juncture Mario Martone conceived and realized two productions for the Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia by Gioachino Rossini and La traviata by Giuseppe Verdi, which broke down all formal conventions of opera staging, reinventing it according to cinematographic principles and procedures. Martone’s opera-operations, conceived specifically to be broadcast on Rai television channels and streaming, are exemplary, even paradigmatic of a net rethinking of the film of opera genre, which the Neapolitan director stylistically remodels as an opera-film, working on the cinefication of the theatrical space and of its actantial dynamics. The essay, starting from a preliminary historiographical survey of Martone’s artistic profile, analyses and interprets the spatial reinventions in the above-mentioned productions, according to two divergent but complementary keys to interpretation: the filmic designation of the empty space in Il barbiere, represented and filmed in the deserted space of Teatro Costanzi to highlight the absence of the audience and the stage fiction, and, at the opposite, the cinematographic occultation of the spectatorial void and the performative artifice in La traviata, obtained by transforming the entire stalls into a realistic and site-specific film set. The critical reading of the case studies is corroborated by a methodological framework that encompasses Peter Brook’s speculation on the revelatory value of empty space, the acquisitions of Opera Studies on the antinaturalistic abstraction of musical theatre, the notions of theatrical mediatisation and cinefication specifically applied to the performance space of opera.

1. Visioni dello spazio nel teatro di Martone

«Quel che cerco è il respiro comune di attori e spettatori. Quale che sia lo spazio, felicemente assembrati in sala o fatalmente divisi da un teleschermo, quello e nient’altro è il teatro».[1] Così Mario Martone descrive la vocazione che muove il suo lavoro registico, la ricerca di una ‘comunione di respiro’ tra attori e spettatori non vincolata al tangibile, alla dinamica fisica fra scena e platea, ma capace di prodursi anche nell’impalpabile, nella reciproca consapevolezza di vivere e di sentire l’esperienza del teatro.

Nel contesto spettacolare dell’epoca Covid sappiamo che il ‘corpo a corpo’ di emittenti e destinatari nello spazio deposto al teatro è entrato radicalmente in crisi, e che il medium teatrale ha dovuto affrontare il più estremo compromesso della sua storia millenaria: l’assenza del pubblico dal vivo. Nella crisi di relazionalità spaziale che connota il presente pandemico una delle più convincenti reinvenzioni dello spazio performativo è arrivata dalla teatralità operistica, ed esattamente dalle due messinscene de Il barbiere di Siviglia e de La traviata prodotte dal Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Martone, e trasmesse su Rai3 rispettivamente a dicembre 2020 e ad aprile 2021. Eclettiche reinvenzioni del genere del film d’opera, gli spettacoli realizzati da Martone fanno leva sul versante della spazialità teatrale rimediata cinematograficamente, per superare l’impasse dello spettacolo ‘in carne e ossa’ fisicamente inaccessibile al pubblico.

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La giuria della 78ª Mostra del Cinema di Venezia, a maggioranza femminile, presieduta dal regista coreano Bong Joon-ho, affiancato tra gli altri da Chloè Zhao, premia con il Leone d’oro la pellicola francese l’Événement per la forza del tema trattato e per la sua capacità di incidere sulla superfice.

La regista Audrey Diwan compie la scelta precisa di mantenersi fedele al codice espressivo crudo, veritiero, spregiudicato di Annie Ernaux, al cui omonimo libro il film è ispirato, utilizzando la medesima disinibizione come chiave stilistica di rappresentazione. È dunque la corrispondenza dei linguaggi che permette un costante intreccio tra scrittura e immagine e l’esplorazione a tutto tondo della complessa dimensione psicofisica della protagonista.

Siamo nella Francia degli anni Sessanta, Anne, giovane studentessa caparbia e tenace, resta incinta in seguito ad un rapporto occasionale, ma la legge non le consente di interrompere la gravidanza legalmente con procedure sanitarie sicure e dunque è costretta a ‘fare da sola’. Inizia così un percorso di disperata ricerca di soluzione all’evento indesiderato per vie clandestine e rischiose, segnato da un crescendo di angoscia, dolore, perdita di sensi.

L’Événement è un film che non risparmia, che scandisce angosciosamente le tappe del trauma della protagonista, interpretata in modo convincente dalla giovane attrice Anamaria Vartolomei. Esattamente come nel libro, anche nel film si sviluppa una sequenza di quadri di agonia, che trascinano in un vortice chi guarda. Il ritmo è quello di una danza funebre dalle tinte macabre, in cui vita e morte si incontrano e si fondono, determinando una convergenza ancestrale tra esperienza letteraria e cinematografica. Il potenziale visivo della scrittura di Annie Ernaux prende progressivamente forma davanti alla cinepresa, quasi come se il racconto si materializzasse nello stesso momento in cui viene scritto.

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Per il pubblico più cinefilo e per gli habitué dei festival cinematografici, Torino è da sempre la città senza red carpet. Per porre fine a questi e ad altri stereotipi era forse necessario attendere la mostra Photocall. Attrici e attori del cinema italiano, curata da Domenico De Gaetano e Giulia Carluccio, con la collaborazione di Roberta Basano, Gianna Chiapello, Claudia Gianetto e Maria Paola Pierini. Fino al 7 marzo 2022, infatti, la Mole Antonelliana ospiterà al suo interno un lungo tappeto rosso sul quale sfileranno idealmente attrici e attori della storia del cinema nostrano, immortalati nel corso di più di un secolo dallo sguardo dei fotografi e delle fotografe di cinema. Come ricordano gli stessi curatori della mostra, è proprio lo sguardo ad essere al centro dell’intero percorso espositivo, in «un gioco di rimandi […] che questa volta non muove dalla relazione tra attore e regista, ma si attiva a partire da quella più segreta e peculiare che coinvolge l’attore e il fotografo».[1] Ripercorrendo l’evoluzione di una figura professionale centrale per l’industria cinematografica si esplorano dunque, parallelamente, la nostra storia sociale e culturale, ma anche la storia del cinema e del divismo italiani. Si tocca con mano, in sostanza, l’idea teorizzata da Roland Barthes di una lunga «esposizione ben organizzata» di «visi archetipi», di miti creati e diffusi dal cinema a uso e consumo dello spettatore.[2]

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