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Abstract: ITA | ENG

Nell’introdurre il progetto di questa nuova rubrica della rivista, non posso che esprimere immensa gratitudine alla redazione di Arabeschi, che molti anni fa (era il 2013) accolse con entusiasmo la proposta, ora concretizzatasi in questa prima ‘conversazione’, di ospitare una serie di interventi che dessero voce ad artisti ‘della luce’, nello specifico creatori di luci per la scena, ma con possibili sconfinamenti nelle arti vicine. Sono passati parecchi anni ma forse non è un caso che il progetto avvii il suo corso ora. Negli ultimi tempi infatti l’interesse per la luce in scena, territorio pressoché misconosciuto dagli studi teatrali, sta acquisendo un suo spazio. Uno spazio che ‘risuona’ di voci e prospettive differenti, e che ci sembra segnato proprio da una vicinanza e un dialogo particolari tra studiosi e professionisti della luce, tra riflessioni teoriche, indagini storiche e pratiche artistiche (cosa che succede anche in altri ambiti – evidentemente un segno del tempo). Se questo dialogo si è ormai affermato anche per gli altri ‘linguaggi’ delle arti performative, com’è ovvio in un panorama di studi mutato rispetto a qualche decennio fa, nel caso della luce il desiderio di un confronto sembra farsi più urgente. Forse per la complessità della materia dal punto di vista tecnico e tecnologico, forse per la mancanza di un panorama di studi di riferimento consolidato come per altri coefficienti scenici. Ogni conversazione – che ci piace pensare come una ‘passeggiata’, evocando dei pensieri in movimento e la condivisione fisica di uno spazio di confronto – tenderà ad evidenziare temi e motivi propri dell’interlocutore/interlocutrice. Tuttavia si cercherà anche di ritornare sulle medesime tematiche al fine di dare forma ad un prisma, man mano che si procede nel cammino e ci si addentra nei diversi paesaggi, che rischiari di luce diversa questioni centrali nelle pratiche dell’illuminazione. In tal senso materia, colore, buio, spazio, architettura, percezione, relazione con le altre arti saranno delle coordinate ricorrenti.

While introducing the project for this new part of the magazine, I would like to express my deep gratitude to the editorial staff of Arabeschi, which many years ago (since 2013) enthusiastically welcomed the proposal, now concretized in this first ‘dialogue’, to host a series of conversations aiming to give voice to 'light' artists, specifically light designers for the stage, but with possible incursions into the nearby arts. Several years have passed since the proposal, but perhaps it is not by chance that the project is starting its course right now. In recent times, in fact, the interest in lighting on stage, a territory almost unknown to theatrical studies, is acquiring its own space. A space that echoes different voices and perspectives, that seems to be marked by a particular affinity and dialogue between scholars and lighting professionals, between theoretical reflections, historical investigations and artistic practices (something that also happens in other fields –  a sign of the time). This dialogue has now also established for other ‘languages’ in the Performing Arts, on a backdrop of studies that has changed since a few decades ago, in the case of light the need for comparison seems to become more pressing. Maybe because of the complexity of the subject from a technical and technological point of view; maybe because of the lack of a consolidated panorama of reference studies (as it is for other languages of the performance). Each conversation – which we like to think of as a ‘walk’, evoking thoughts in motion and the physical sharing of a space of exchange – will attempt to highlight topics and subjects that are specific to the artist interviewed. However, we will also try to revisit the same themes in order to give shape to a prism, proceeding along the path and exploring the different landscapes, that will illuminate different central issues in lighting practices. In this sense matter, colour, darkness, space, architecture, perception, relationship with other arts will be recurring references.

In un numero dei Quaderni di Teatro del 1980 dedicato al teatro materiale (che ai più sembrava all’epoca lontano dalla ‘Storia’ del teatro) ritroviamo uno tra i pochissimi (brevi e dimenticati) momenti di attenzione al fenomeno dell’illuminazione scenica nell’ambito degli studi teatrali. Eugenia Casini Ropa vi intervistava Guido Baroni e lo introduceva rinunciando a tracciare qualsivoglia profilo biografico, data la vastità delle sue esperienze. Orizzonti diversi – dopo quasi mezzo secolo – ma mi piace qui evocare quel momento isolato di attenzione ai professionisti della luce in scena, nella volontà di renderli parte integrante e oggetto di indagine degli studi teatrali e mettermi in una posizione analoga.

Mi limito dunque a ricordare gli esordi dell’attività di Pasquale Mari, cofondatore insieme a Mario Martone, Angelo Curti, Andrea Renzi, di Falso Movimento, sodale di Martone e colleghi/colleghe nella successiva compagine di Teatri Uniti, con una ricchissima esperienza tanto nel teatro che nel cinema (tra le sue numerosissime collaborazioni: con i registi Amelio, Archibugi, Bellocchio, Binasco, Cecchi, Cirillo, De Rosa, Dini, Ozpetek, Servillo, Sorrentino), ma anche nella danza e in prestigiose produzioni nell’opera lirica.

Per tutto quanto riguarda le sue creazioni rinvio dunque al suo sito http://www.pasqualemari.it/about/.

Mi preme invece ricordare che negli ultimi anni la frenetica attività dalle scene ai set si accompagna a quella didattica presso l’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico nonché a occasioni di riflessione, dove momento cardine è il tema della condivisione dello spazio e dove anche al cinema è rivendicata la qualità di ‘arte vivente’ – e ciò in larga parte proprio grazie al ruolo che vi svolge il fattore luminoso.

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Nel 2019 è stato pubblicato per Franco Cesati Editore, all’interno di una collana dedicata alla teoria e alla geografia della letteratura e diretta da Federico Bertoni e Giulio Iacoli, il volume Spazio mediale e morfologia della narrazione, a cura di Sara Martin e Isotta Piazza. Il testo ospita gli interventi dell’omonimo convegno tenutosi presso l’Università di Parma nel 2018 nell’ambito del progetto The medial space.

Il punto di partenza (e di destinazione come vedremo) per la storia della nozione di ‘spazio mediale’ ha origine nel campo degli studi letterari. Si ritrova in particolare in una ricerca sulla letteratura di fine Ottocento di Isotta Piazza, Lo spazio mediale. Generi letterari tra creatività letteraria e progettazione editoriale (Cesati, 2018). In questo nuovo volume, però, un gruppo di studiosi e di studiose prova a estendere tale categoria interpretativa a tutti quei media o «format editoriali» che contribuiscono alla «morfologizzazione della narrazione» (p. 9), come il cinema, la televisione e i media digitali.

Si tratta di una formula che va oltre i confini dell’opera. Il concetto di ‘spazio mediale’, infatti, riguarda l’influenza che svolgono sul testo e sul contenuto aspetti materiali e immateriali della produzione come i supporti, i media di riferimento, i generi o le relazioni fra autore, sistema produttivo e pubblico.

È l’idea complessiva che emerge dal confronto delle trattazioni accolte nel libro. Anche se suddivisi in tre sezioni ‒ dedicate rispettivamente a spazio mediale e letteratura, audiovisivo e transmedialità ‒ i saggi contribuiscono singolarmente alla definizione del concetto proponendo l’analisi di un caso di studio. Nei primi due interventi della prima parte Carlo Zanantoni e Isotta Piazza affrontano il rapporto fra editoria e forme brevi, sull’esempio dell’attività di Pirandello per il Corriere della Sera, e i legami tra letteratura e web. Nella seconda sezione Sara Casoli spiega come i personaggi travalichino diversi spazi mediali attraversando più media, dai racconti agli immaginari della serialità contemporanea, seguita da Sara Martin che si concentra sulla rimediazione filmica e seriale del romanzo The Handmaid’s Tale di Margaret Hatwood. Nell’ultima parte, invece, Giulio Iacoli propone un approfondimento sulla transmedialità attraverso l’analisi dell’adattamento di Il giocatore invisibile, film di Stefano Alpini tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Pontiggia. Qui si inseriscono anche gli studi di Giulia Benvenuti e Paolo Giovannetti sulle transizioni tra letteratura e cinema di alcune serie italiane come Gomorra, Romanzo Criminale e Suburra. Il segmento conclusivo del volume ospita infine una sintesi degli spunti emersi durante la tavola rotonda affidata a Gianni Turchetta e Mara Santi e al dialogo tra Giulio Iacoli e il regista Stefano Alpini. Turchetta, in particolare, sottolinea che la prospettiva pragmatica dello spazio mediale dei testi letterari o audiovisivi ‒ definita nel corso delle analisi precedenti come l’insieme delle influenze reciproche fra le scelte di produzione, le forme e i temi esposti ‒ emerge con più evidenza in età moderna grazie allo sviluppo dell’editoria ma può essere estesa nel tempo a ogni atto creativo, ciascuno con le proprie peculiarità. Le possibilità di adattamento, traduzione o attraversamento dei contenuti fra spazi mediali diversi, invece, secondo Mara Santi può consentire la creazione di nuove macrocategorie come quella di ‘politesti’, con cui si supera il limite stesso del testo unico. Ma da questo confronto emerge anche, come notano nell’introduzione le curatrici, un’attenzione complessiva a prodotti intermediali situati al confine fra diversi media.

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All’interno dell’ampio panorama dei processi intermediali, il fotoromanzo e le novellizzazioni, ossia le trasposizioni narrative delle opere cinematografiche, rappresentano due pattern emblematici di contaminazione tra la letteratura e i linguaggi visuali. Lungo un percorso di ricerca avviato oramai da più di un decennio, Jan Baetens ha contribuito a definire il campo d’indagine relativo a questi due generi, aggiornandone di volta in volta le coordinate teoriche in diversi interventi, tra i quali ricordiamo, ad esempio, le monografie La Novellisation: Du Film au roman (Les Impressions Nouvelles, 2008) e Pour le roman-photo (Les Impressions Nouvelles, 2010), oppure ancora la galleria virtuale, curata insieme a Stefania Giovenco, Le roman-photo: Images d’une histoire, pubblicata nel 2014 nel quarto numero di Arabeschi.

Sulla scia tracciata da tali studi, l’autore ha elaborato la teorizzazione di un nuovo sottogenere, non canonico, sviluppatosi al di fuori dei circuiti accademici e partecipe tanto del legame con il cinema che caratterizza il film novel, quanto della narratività articolata sulla giustapposizione di testi e immagini fotografiche su cui si basa il photonovel. È proprio come esito di una inestricabile ibridazione dei codici che nasce, dunque, The Film Photonovel. A Cultural History of Forgotten Adaptations (University of Texas Press, 2019). Il volume offre una organica trattazione dedicata al ‘cinefotoromanzo’, un particolare ‘adattamento’ dei film su riviste illustrate – come Star cineromanzo gigante, edita da Bozzesi, pioniere nel settore – che a metà degli anni Cinquanta hanno raggiunto il periodo di massima circolazione in Italia, trovando poi ulteriori canali di diffusione in altri Paesi europei e in Francia in particolare.

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Il volume La scrittura dello sguardo. Gianni Celati e le arti visive (Presses Universitaires de Strasbourg, 2020), curato da Matteo Martelli e Marina Spunta, raccoglie gli atti dell’omonimo convegno internazionale, tenutosi a Strasburgo nel dicembre 2018 e organizzato in collaborazione con Nunzia Palmieri. Obiettivo dei quindici contributi raccolti è ricostruire un dato non ancora sufficientemente indagato nell’opera celatiana, la centralità dello sguardo e delle arti visive. Autore tra i più letterari della nostra tradizione, Celati è stato tra i primi (insieme a Calvino) a interrogarsi sui confini e i limiti della parola, arrivando a sostenere – in ‘Il racconto di superficie’, apparso sul Verri nel 1973 – che per avvicinarsi alla fabulazione, ovvero «l’illimitato divenire e tutte le metamorfosi a cui soggiaciamo», la scrittura avrebbe dovuto «uscire da se stessa, se riesce a farcela. Il problema dello scrivere oggi è tutto qui». Queste parole rivelano in controluce come la poetica celatiana, stante la messa in discussione della staticità del testo, sia costruita su basi non soltanto letterarie. I suoi temi – il rapporto tra corpo e spazio, il ruolo del paesaggio, la riflessione sul senso del quotidiano – derivano tutti da un dialogo con le arti della visione, che divengono «materia di riflessione e di formazione del pensiero, un oggetto di ricerca critica e artistica, un incontro e uno scambio per pratiche interdisciplinari e scritture ibride» (p. 12). Di questo «pensiero figurale» (p. 10), Gestaltung d’una spinta conoscitiva presente sia negli scritti teorici sia nella pratica creativa, La scrittura dello sguardo individua forme e funzioni attraverso tre sezioni che hanno il merito di favorire i rimandi interni, mantenendo al contempo una coerente focalizzazione sul cimento con diversi media: pittura, fotografia, cinema.

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  • Arabeschi n. 15→
  • Incontro con Fanny & Alexander →
Abstract: ITA | ENG

Il saggio analizza come il teatro nella poetica di Fanny & Alexander si mescola ad altre arti. In particolare si ripercorrono cronologicamente i principali progetti teatrali della compagnia sotto tre prospettive differenti. La prima riguarda la presenza del cinema nel progetto Ada o ardore. La seconda affronta la potenza dell’immagine nel progetto Oz. La terza e ultima tratta invece il più recente dispositivo, chiamato “eterodirezione”, che ha inaugurato un nuovo procedimento compositivo a stretto contatto con la parola e la letteratura (Progetto Discorsi, Storia di un’amicizia e Se questo è Levi).

The essay analyzes how theater, in Fanny & Alexander's poetics, meets many other arts. In particular, the main theatrical projects of the company are traced chronologically from three different perspectives. The first concerns the presence of cinema in the project Ada o ardore. The second deals with the power of the image in the Oz project. The last deals with the most recent device, called “heterodirection”, that is remote control, which inaugurated a new compositional process involving language, dance and literature (Discorsi Project, Storia di un’amicizia and Se questo è Levi).

 

1. Prologo

Piccole fiammelle tremolanti illuminano la ribalta. Sull’arcoscenico campeggia la frase Ei blot til, lyst, che in italiano significa «non per il solo piacere», un invito, che è anche un ammonimento. I personaggi sono figurine di carta colorata. Un bambino, Alexander, con occhi pieni di immaginazione, contempla il proprio teatrino, prima di alzarsi in piedi, chiamare Fanny ed esplorare la casa della nonna, che tra lampadari di cristallo, tende, drappeggi, antichi quadri alle pareti, un letto con il baldacchino e sedie di legno intagliato che sembrano dei troni, appare, agli occhi del bambino, una reggia. La prima scena del film Fanny e Alexander di Ingmar Bergman (1982)[1] ha un sapore iniziatico. À rebours la scelta della compagnia ravennate – fondata dieci anni dopo l’uscita del film, nel 1992, da Luigi De Angelis e Chiara Lagani – di utilizzare come proprio nome, e marchio di fabbrica, il titolo del film di Bergman, appare quanto mai esatta. Le forme, le atmosfere e i temi ci sono già tutti, o quasi: l’archetipo dell’infanzia, la potenza dell’immaginazione e dell’arte, il piacere della macchineria artigianale e della meraviglia, la costruzione di dispositivi della visione, la complicità di una coppia, un fratello e una sorella… E poi dell’immaginario di Bergman si potrebbero aggiungere i contrasti tra eros libertino e rigore nordico, amore per le grandi opere e ossessione per il dettaglio, fascinazione per una raffinata tradizione borghese e carica innovativa nella rottura delle forme.[2] Fanny & Alexander nasce richiamandosi a un grande regista cinematografico e teatrale, che è soprattutto un artista-intellettuale creatore di mondi.

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Abstract: ITA | ENG

Le realtà alternative, le trame ambigue dei film di David Lynch e i protagonisti che le abitano sono stati spesso forieri di riflessioni sull’estetica delle sue opere, sull’aspetto perturbante che le accomuna e, non da ultimi, sugli stati della mente dei personaggi, presi ad esempio anche nell’ambito degli studi psicanalitici. Nel ripercorrere la filmografia del regista statunitense, il saggio affronta un’analisi delle scene che più concorrono a trasmettere una sensazione inquietante e straniante allo spettatore, rilevando come Lynch abbia scelto di caratterizzare queste particolari scene con elementi che rimandano al teatro o di circoscriverle su un vero e proprio palcoscenico. Si è cercato dunque di dare un’interpretazione alla scelta registica di rinviare all’estetica del teatro nei momenti salienti e quasi sempre rivelatori delle sue opere, per mezzo di un’analisi semiologica e iconografica che non manca di approfondire anche lo stile recitativo impiegato in queste cornici perturbanti.

The alternative realities and the ambiguous plots of the movies of David Lynch, together with the protagonists that inhabit them, have been the object of studies about both his aesthetics and the uncanny behaviours of those characters. While tracing a path along the filmography of the American director, the essay analyses some of the most meaningful scenes that inspire eerie and alienating sensations to the spectator, with the aim to highlight how these particular scenes are distinguished by a peculiar theatrical space setting or acting. The author investigates this director’s choice through a semiological and iconographical analysis, deepening also the acting style employed in these uncanny frames that furthermore are often a solution key of the events.

 

 

Chissà perché ho il pallino dei sipari

dal momento che non ho mai fatto teatro.[1]

 

 

Le riflessioni proposte negli ultimi trent’anni sulle opere di David Lynch sono molte, stimolate nella maggior parte dei casi dal singolare modo di raccontare del regista, dalla particolare poetica che sottende i suoi film e soprattutto dal desiderio di aggiungere un’interpretazione alle realtà in essi narrate, spesso ambigue e poco comprensibili. Nel tentativo della ricerca di un senso, molti studiosi si sono avvalsi delle teorie sviluppate in ambito psicologico o psicanalitico, partendo da Sigmund Freud, passando da Jacques Lacan, per finire con Slavoj Žižek.[2] Certo, sin dai primi film Eraserhead (1977) e The Elephant Man (1980) – senza escludere cortometraggi come Grandmother (1969) – la struttura narrativa con cui Lynch compone le sue opere potrebbe essere assimilabile a quella che definisce le realtà vissute da chi soffre di disordini mentali e indagate in ambito psichiatrico. Gli studi incentrati sull’analisi psicologica dei protagonisti e delle loro fantasie non sono però sufficienti a comprendere la poetica lynchiana, per la quale invece andranno prese in considerazione altre questioni di ordine estetico. Se è vero che il fascino perturbante delle opere di Lynch risiede nel suo saperci condurre in mondi oscuri, incomprensibili, i cui confini spesso sfumano in realtà impossibili che dall’inconscio (da stati onirici o allucinatori) trascendono nel soprannaturale, è altrettanto vero che a renderle ineguagliabili è lo sguardo eclettico del regista che fa uso sapiente dei diversi registri – iconografico, musicale, linguistico – per tesserli in un montaggio che si concede i tempi dell’ostensione e le sospensioni per una riflessione. Inoltre, il regista ci pone spesso di fronte all’ostentazione della finzione cinematografica, mostrandoci nel medesimo film realtà apparentemente slegate e confuse tra loro e privandoci, con un sicuro effetto di straniamento, di un’immersione nella diegesi. Ciò avviene per mezzo di una concatenazione di mondi immaginati o sognati dai protagonisti, ma anche tramite l’inserimento di personaggi che, seppur apparentemente umani, palesano un’appartenenza al soprannaturale o si distinguono nettamente come esseri ultraterreni.

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Remo Pagnanelli (1955-1987) è stata una figura tra le più significative della poesia italiana del secondo Novecento, sebbene ancora attenda il pieno riconoscimento critico che merita. Inoltre Pagnanelli è stato anche un attento conoscitore dell'arte e della teoria artistica; in particolare è da rilevare il suo interesse per l'opera di Freud, Jung, Arnheim, Warburg, Gombrich. Il presente intervento si concentrerà su un aspetto poco noto ma decisivo del suo lavoro, ovvero l'intenso rapporto con la cultura visuale e il ruolo giocato dalla pittura nei suoi versi. Verranno così analizzati, sulla base di un inquadramento delle peculiarità dello sguardo di Pagnanelli sui fatti dell'arte, i suoi saggi critici ed alcuni testi ispirati a opere di Caravaggio. Ma anche il cinema entra nella sua opera: il paragrafo finale dell'intervento sarà infatti dedicato all'analisi di un testo dalle forti risonanze autobiografiche, ispirato dalla visione del film L'histoire d'Adèle H. (1976) di François Truffaut. 

Remo Pagnanelli (1955-1987) has been one of the most interesting personalities in Italian poetry during the second half of the 20th Century, and he is still waiting to be fully rediscovered by critics. He was also a distinguished connoisseur of Art and Art Theory; notably, he was influenced by the works of Freud, Jung, Arnheim, Warburg, Gombrich. This essay will focus on this little-known but crucial aspect of Pagnanelli’s poetry: his deep interest in Visual Culture. Using as a framework the theoretical ideas structuring Pagnanelli’s instances of gazing, we will discuss his critical essays and some poems containing references – explicit or not – to Caravaggio’s paintings. But cinema also plays a role in the work of Pagnanelli: that’s why in the final paragraph we will examine a poem (with strong autobiographical resonances).

 

 

[…] Il tuo occhio non regge la visione?

E tu saltala, se sei un arcangelo

Remo Pagnanelli

1. Il poeta come archeologo dell’inconscio

 

«Scrivere fa parte dell’esistenza sebbene io abbia qualche dubbio in proposito. Il dubbio deriva, a seconda dei casi, dall’ipotesi di un di più di vitalità che lo scrivere rappresenta oppure, all’opposto, dal sintomo di incompletezza, di non adeguata attitudine a vivere pienamente».[1] Queste parole di Vittorio Sereni, che tolgo da un Autoritratto del 1978, si attagliano perfettamente alla figura di uno scrittore che a Sereni fu molto legato, Remo Pagnanelli, nato nel 1955 a Macerata e ivi morto suicida a soli trentadue anni.[2] Per comprendere appieno il percorso creativo di Pagnanelli è decisivo riflettere sulla sua concezione «archeologica» del sentire umano in generale e della scrittura in versi in particolare. «La poesia», osserva, «è per me operazione archeologica, nella duplice direzione di discorso del Principio e conservazione e custodia di ciò che è andato perduto o che si sta perdendo, di ciò che comunque il nostro cervello antichissimo vede di continuo “ri-affiorare”»[3] Tale concezione viene maturandosi già nel giovane Pagnanelli sulla scorta di alcuni decisivi stimoli intellettuali: in primis, il pathos dionisiaco nicciano; in secondo luogo, la lezione freudiana del sintomo e la teoria junghiana secondo cui la psiche inconscia sarebbe una struttura metapersonale, ovvero eccedente la cornice individuale.[4] E ancora, la convinzione eliotiana che la tradizione si muova per cooptazione di individualità da parte di forze sovraindividuali;[5] i contributi bachelardiani che sollecitano una lettura psicoanalitico-elementale del fatto creativo; l’ipotesi ermeneutica di Arnheim secondo cui l’iconicità deriverebbe dall’inconscio.[6] Ma, soprattutto, la nozione warburghiana di sopravvivenza e la centralità attribuita dallo storico dell’arte tedesco alla dinamica degli intrichi psichici in cui la vita simbolica non cessa di dibattersi.

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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →
  • Arabeschi n. 14→

 

 

Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia

 

1. Orientarsi con le stelle

Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.

E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.

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Con la curatela di Luciano De Giusti e di Roberto Chiesi, nel 2015 è stato pubblicato per la Cineteca di Bologna e Cinemazero Accattone. L’esordio di Pier Paolo Pasolini raccontato dai documenti, prima uscita della collana Pier Paolo Pasolini, un cinema di poesia, dedicata alla produzione cinematografica del poeta bolognese. A distanza di pochi anni, la serie continua a scandagliare l’universo registico pasoliniano, seguendone l’evoluzione lungo un ordinato asse cronologico, e si arricchisce di un ulteriore segmento, Mamma Roma. Un film scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini (2019). Il volume, curato da Franco Zabagli, porta adesso all’attenzione dei lettori la drammatica storia della madre – ritagliata da Pasolini sul corpo e sul temperamento di Anna Magnani – che tenta con disperata ostinazione di tracciare per il figlio Ettore un sentiero di riscatto, e mantiene l’impostazione inaugurata nel 2015. Se Accattone ha imposto una riflessione sul passaggio al cinema come forma espressiva relativamente nuova nella carriera di Pasolini, che dopo una frequentazione della scrittura per il grande schermo esercitata sulle sceneggiature di film altrui impugna la macchina da presa tra il 1960 e il 1961, la seconda pellicola del poeta-regista, proiettata per la prima volta in occasione della XXIII Mostra del Cinema di Venezia nel 1962, mette in campo tematiche, dinamiche di ricezione e scelte estetiche, sorrette da una consapevolezza ancora maggiore, che vengono affrontate lasciando di nuovo ‘parlare’ anche i documenti e la bibliografia primaria.

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