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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
Abstract: ITA | ENG

Nel mio intervento vorrei parlare di un lavoro del 1988 di Mona Hatoum: Measures of Distance. Il video racconta per immagini la possibilità di uno scambio intimo fra esistenze che si snodano lontane.  Le vicende di una madre e una figlia, divise prima dalla guerra e poi dalla storia (la famiglia di Hatoum è palestinese), vengono colte in un momento di apparente ricomposizione, ma lasciano delle misure di distanza che si sono fatte reali nel progressivo allontanarsi dei mondi personali e privati. Hatoum riproduce e trasferisce sullo schermo le lettere scritte a mano che percorrevano la distanza da Beirut a Londra fra lei e la madre. La trascrizione dei caratteri arabi scorre accompagnata da una voce – quella dell’artista – che legge a voce alta e in inglese. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un viaggio in Libano. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione fra madre e figlia, discorsi intorno alla vita, l’amore, la sessualità, il matrimonio. Il corpo materno, forte, è ripreso in modo da mostrare anche la sua fragilità e si confonde con lo sfondo dell’immagine.  Le lettere che scorrono sullo schermo – in una lingua per molti inaccessibile in Occidente – sono tramite e divisione, una gabbia di caratteri che mettono in contatto madre e figlia ma le lasciano distanti nello spazio. Legate da un rapporto che è rappresentato per la sua intimità, le due donne sanno di vivere mondi separati. In questa scena minuta, in un angolo della casa, Hatoum prende lo spazio per disporre gli elementi principali di una geopolitica che già negli anni Ottanta annunciava la complessità con cui il presente convive: il peso delle guerre, le migrazioni, l’esilio, le identità culturali, il dominio dell’Occidente in un mondo globalizzato. Il percorso di Hatoum si muove in varie opere intorno ai temi della casa, ma se in molti lavori, soprattutto a partire dalla fine degli anni Novanta, l’avvicinamento ai temi del domestico avviene attraverso la poetica del perturbante, in questo video la costruzione di una sorta di hammam domestico e privato libera le possibilità di uno scambio intimo e duraturo.

In this paper I would like to talk about Mona Hatoum’s work, Measure of Distance, issued in 1988. Through the images, the video shows the possibility of an intimate exchange between existences unfolding far away from each other. The events of a mother and daughter, divided first by the war and then by history (Hatoum’s family is Palestinian), are captured in a moment of apparent recomposition, which, nevertheless, leaves ‘measures of distance’ that have become real in the progressive distancing of their personal and private world. Hatoum reproduces and transfers to the screen the handwritten letters that traveled from Beirut to London, through the distance separating her from her mother. The transcription of the Arabic characters of the letters runs accompanied by a voice – that of the artist – who reads them aloud and in English. In the background, we see the image of her mother, taken in the shower by Hatoum herself during a trip to Lebanon. The reading of the correspondence alternates with fragments of conversation between mother and daughter, talks about life, love, sexuality, marriage. The strong maternal body is taken up in such a way as to show her fragility as well and blends into the background of the image. The letters that scroll across the screen – in a language inaccessible to many in the West – are connections and division, a cage of characters that connect mother and daughter but leave them distant in space. Linked by a relationship that is represented by its intimacy, the two women know they live in separate worlds. In this minute scene, in a corner of the house, Hatoum takes the space to arrange the main elements of a geopolitics that already in the Eighties heralded the complexity with which the present coexists: the weight of wars, migrations, exile, cultural identities, the domination of the West in a globalized world. The path of Hatoum moves in various works around the themes of the house. However, while in many of her works, especially those issued at the end of the nineties, the approach to the themes of the domestic takes place through the poetics of the uncanny, in this video the construction of a sort of domestic and private hammam frees up the possibilities of an intimate and lasting exchange.

1. Introduzione

Measures of Distance è un lavoro di Mona Hatoum di grande delicatezza, perfetto per una riflessione sulla libertà con cui, dopo il «taglio femminista» (per usare un’espressione di Carla Lonzi), è possibile entrare e sostare nello spazio domestico – concettualmente e concretamente – senza temere l’ombra della grande ala dell’angelo del focolare. Il lavoro ci consegna una nozione di intimità che supera e sfida, in piena continuità con il femminismo degli anni Settanta, i tradizionali steccati che pretendevano di separare la sfera personale da quella pubblica. In questo video del 1988 l’operazione di Hatoum, a partire dalla costruzione di un dispositivo complesso, è quello di legare rappresentazione e soggettività, immergendosi nel racconto di una relazione madre-figlia, in cui proprio il tema dell’intimità serve come punto di passaggio per una riflessione che non è esagerato definire geo-politica. Gli elementi principali di una configurazione del mondo che già negli anni Ottanta annunciava la complessità con cui il presente convive – il peso delle guerre, le migrazioni, l’esilio, le identità culturali, il dominio dell’Occidente in un mondo globalizzato – sono richiamati dalla sovrapposizione di elementi visivi e sonori. Sullo sfondo l’immagine della madre, ripresa nella doccia dalla stessa Hatoum nel corso di un ritorno a casa, in Libano, nel 1981.

Figlia di genitori palestinesi rifugiati in Libano, Hatoum ha replicato una vicenda di esilio. Trovatasi a Londra al momento dello scoppio della guerra civile in Libano del 1975 e impossibilitata a tornare nel suo Paese, la sua condizione è stata a lungo quella di apolide. È stato detto che Measures of Distance è uno dei pochi lavori, se non l’unico, con un intento chiaramente autobiografico: l’intensità dei materiali e l’uso che ne fa l’artista lo rendono una vera e propria auto-etnografia (Kahn 2007). Hatoum parla di esilio scegliendo di raccontare la distanza che si è creata fra lei e la madre, senza temere ricadute nostalgiche, né riduzioni del discorso a una dimensione privata e femminile, limitata e separata così come vorrebbe la tradizione. Hatoum riproduce, dunque, e trasferisce sullo schermo, le lettere scritte a mano della madre che percorrevano la distanza da Beirut a Londra. La trascrizione dei caratteri arabi scorre accompagnata da una voce – quella dell’artista – che legge quelle stesse lettere in inglese con un tono che tradisce la tristezza e la nostalgia. Alla lettura della corrispondenza si alternano frammenti di conversazione in arabo tra madre e figlia, registrati dal vivo.

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Abstract: ITA | ENG

John Akomfrah (Accra, Ghana, 1957), uno dei principali artisti britannici del nostro tempo, adotta una ‘estetica del riciclo’ per realizzare opere video basate su fonti testuali e visive eterogenee. Intrecciando filmati d’archivio a riprese originali, Purple (2017), videoinstallazione a sei schermi, si avvale delle potenzialità insite in una narrazione non lineare per far convergere ricordi autobiografici e questioni eco-filosofiche e per evocare l'interconnessione tra gli esseri umani e il mondo naturale. Purple è il secondo capitolo di una trilogia di progetti che si concentrano sulla vitalità e la precarietà della natura: il primo, Vertigo Sea (2015) presenta l'oceano come un luogo di terrore e di bellezza in cui si condensano storie legate alla colonizzazione, alla schiavitù, alle migrazioni, alle guerre e alle attuali problematiche ecologiche; l’ultimo, Four Nocturnes (2019) si interroga sulla mortalità, sulla perdita, sull'identità frammentata, sulla mitologia e sulla memoria, utilizzando come ossatura narrativa il declino delle popolazioni di elefanti in Africa. Analizzando questa trilogia, il saggio si propone di riflettere sullo spostamento del fulcro tematico che si delinea nelle più recenti opere di Akomfrah: l’essere umano perde progressivamente centralità nella narrazione per fare posto ad altre specie e agli elementi naturali – il vento, la pioggia, la neve, l'aria – che diventano attori di un dialogo post-antropocenico sul nostro presente culturale e geologico, dal quale emergono i rapporti di causalità tra le logiche imperialiste e capitaliste della modernità e l’attuale condizione di precarietà sociale e climatica.

One of Britain’s leading contemporary artists, John Akomfrah (Accra, Ghana, 1957) mixes a broad spectrum of images and sources into evocative video works according to his commitment to the idea of a “recycling aesthetic”. Weaving together historical and original footage, Purple (2017), his largest installation to date, concentrates on the human impact on the environment. The video’s nonlinear structure weaves together autobiographical memories and ecological and philosophical issues, resulting in an impressive collage of ideas, images and sounds that evokes the interconnectedness of humans and the natural world. Purple is the second in the trilogy of projects that focus on the vitality and volatility of the natural world: Vertigo Sea (2015) portrays the ocean as a site of both terror and beauty in which diverse narratives interact, touching upon migration, the history of slavery and colonisation, war and conflict and current ecological concerns; Four Nocturnes (2019) questions mortality, loss, fragmented identity, mythology, and memory using Africa’s declining elephant populations as its narrative spine. Analyzing this trilogy, the essay aims to reflect on the shift in focus in Akomfrah’s works: Instead of privileging humans in the narrative, the artist assigns an equal, or even greater, importance to other species and elemental components –  the wind, the rain, the snow, the air we breathe –  that became the actors in a post-Anthropocenic dialogue on our own cultural-geological present, where modern society has become, in the course of centuries of capitalist industry, a driver of social injustice and climate change.

«Welcome to Battersea Power Station»: questo messaggio di benvenuto, reso effervescente dal dinamico sfondo di sequenze video in cui tutti sorridono, inebriati da cibo e bevande, musica, yoga e shopping, accoglie l’internauta che si appresta a fare una ricerca sulla omonima centrale elettrica londinese.

Nell’homepage del suo sito si celebra, infatti, l’apertura di una delle «London’s most exciting new shopping and leisure destinations», frutto della riconversione della centrale a carbone di Battersea, dal 1980 inserita nella National Heritage List come Grade II* Building a ragione del suo interesse architettonico e storico.[1]

Bisogna addentrarsi nella piattaforma web per scovare qualche cenno alla storia dell’edificio, che si apprende essere opera di Sir Giles Gilbert Scott, famoso architetto attivo agli inizi del secolo scorso, noto soprattutto per avere progettato le cabine telefoniche rosse, uno dei simboli dell'Inghilterra: scarni sono i riferimenti alle qualità strutturali e agli elementi in stile Art Deco, e solo una sintetica timeline riassume i principali eventi, dal 1929, con l’inizio dei lavori, al 1983, anno della cessazione dell’attività, e poi ancora fino al 2012, quando avviene l’acquisto da parte degli attuali shareholders. Questi ultimi, evidentemente, preferiscono gli slogan a una contestualizzazione, seppur sommaria, della centrale e delle sue attività nelle vicende socioeconomiche e culturali del paese:

Anche sul sito di WilkinsonEyre, lo studio di architetti che ne ha progettato e curato il restauro e la riconversione, la storia della centrale è limitata a sei righe, tre delle quali dedicate a ricordare, come un glorioso aneddoto, l’apparizione dell’edificio sulla copertina dell’album dei Pink Floyd Animals, uscito nel 1977. Questo cenno, con tutta probabilità inserito con l’intento di accrescere il prestigio del complesso, fornisce a chiunque abbia in mente quel disco e, soprattutto, quell’immagine, un indizio che rimanda a un’altra storia, assai più amara e cupa di quella di un’innocua e prodiga centrale elettrica che ha permesso alle generazioni passate di «mangiare, bere, comprare e giocare».

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È il 1998 quando Marina Ballo Charmet, psicoterapeuta di professione e fotografa sin dagli anni Ottanta, presenta la sua prima videoinstallazione dal titolo Conversazione (installazione con 4/10 video su 4/10 monitor, 1' ciascuno in loop) [fig. 1]. Il luogo espositivo è lo Studio Marconi di Milano, spazio di ricerca sempre attento alle sperimentazioni anche in ambito multimediale: in una stanza sono disposti ad ellisse dieci monitor, i quali trasmettono close-up di corpi di altrettante persone, prevalentemente volti, colli, tempie. La traccia audio, invece, riproduce il suono del loro respiro: ci si aspetterebbe uno scambio, un dialogo tra i diversi soggetti, come vorrebbe il titolo – o, al massimo, una riflessione sull’impossibilità di esso, sull’incomunicabilità – invece, semplicemente, essi sostano, pazienti e sospesi.

Lo spettatore è immerso nella presentificazione di ciò che non è nulla di speciale, che non è nemmeno pensato, un processo automatico, ma che è tale, «esattamente così e niente di più» (Barthes 1980, p. 108). Si fa ‘presenza’, in altre parole, ciò che è percepito ma non visto, il «fuori campo» (Ballo Charmet 2013, pp. 81-96; 2019; Lissoni 2007, p. 110 e 113): «è come se la frangia, la piega, il vivere esperienze senza essere presenti attentamente, assumesse importanza, fosse necessario. “La cosa” esiste: ha una sua presenza e un suo senso. Il marginale, il latente, si rivelano sorprendenti» (Ballo Charmet 2017, p. 57).

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Una delle frasi conclusive del primo manifesto di Rivolta femminile redatto nel luglio 1970 – «Vogliamo essere all’altezza di un universo senza risposte» (Lonzi 1974, p. 18) – è all’origine dell’unico autoritratto realizzato da Silvia Giambrone, esposto a Villa Medici nel 2010 con il titolo Autoritratto (Io nel settembre 2009 all’altezza di un universo senza risposte) [fig. 1]. Su una serie di nove fogli di acetato trasferibili contenenti le lettere dell’alfabeto, scelti tra quelli in uso una volta nella grafica e nel disegno industriale, Giambrone cancella le singole lettere che compongono il titolo dell’opera in modo che la scrittura proceda attraverso un processo di sottrazione. «Il lavoro di Carla Lonzi» – spiega l’artista in conversazione con Nina Power – «è stato tanto importante da ispirare l’unico autoritratto che io abbia mai fatto […]. Allora mi ero resa conto che per realizzare un autoritratto, dovevo correre il rischio di sottrarmi ai codici linguistici» (Giambrone-Power 2016, p. 45).

L’autoritratto di Giambrone, come ha chiarito Giovanna Zapperi, rimanda all’urgenza di rendere visibile ciò che è assente o è stato rimosso (Zapperi 2017, p. 247) e si ricollega a un’altra affermazione lonziana tratta da Sputiamo su Hegel – «Noi siamo il passato oscuro del mondo» (Lonzi 1974, p. 61) – usata dall’artista come titolo di un secondo lavoro di matrice linguistico-concettuale realizzato anch’esso nel 2010. La centralità del pensiero di Lonzi nel percorso di Giambrone è un aspetto su cui la critica si è soffermata in più occasioni e sul quale, come appena visto, anche l’artista si è espressa (Giambrone-Iamurri 2013; Giambrone-Power 2016). Resta invece da chiarire come l’interesse per gli scritti di Lonzi e l’aperta adesione alle istanze neofemministe stiano in relazione con un altro aspetto altrettanto importante ma meno esplorato del suo lavoro, che riguarda il rapporto con l’Arte povera: la ripresa dei testi femministi lonziani, nell’opera di Giambrone va infatti di pari passo con la rivisitazione di iconografie desunte dalle opere di artisti come Alighiero Boetti, Jannis Kounellis e Giuseppe Penone, e che talora viene espressa sotto forma di citazione. Per spiegare le ragioni del fenomeno è utile riprendere il concetto di «double allegiance» coniato in ambito letterario da Susan Rubin Suleiman nel volume Subversive Intent. Gender, Politics, and the Avant-Garde (1990), poi esteso dalla studiosa al campo delle arti visive per interpretare lo speciale rapporto che lega le opere di Cindy Sherman e Francesca Woodman a quelle dei loro predecessori surrealisti Hans Bellmer e René Magritte (Suleiman 1998, pp. 128-154). Suleiman propone un modello di lettura dialogico, riassumibile nell’espressione «yes, but», secondo il quale nelle opere di Woodman e Sherman il confronto con i precursori non implicherebbe né l’accettazione passiva della tradizione, né la distruzione del canone, ma un dialogo serrato che consentirebbe loro di saldare la sperimentazione formale e culturale dell’arte d’avanguardia con la critica alle ideologie dominanti formulata dalla teoria femminista.

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Giuliana Cunéaz (Aosta, 1959) è un’artista del tutto originale nel panorama delle arti elettroniche e digitali (viene definita media artist) italiane. Il nucleo forte del suo lavoro è caratterizzato dal dialogo e dal confronto con la scienza, intesa sia come apporto di riflessioni e cambiamento dei paradigmi del nostro pensare, sia – e forse soprattutto – come inarrestabile bellezza e suggestione evocativa delle immagini scientifiche, rivisitate e ricreate grazie alle ultime tecnologie digitali, fino al 3D e al virtuale. Definirla media artist è riduttivo, in quanto il suo lavoro – dagli esordi nei primi anni Ottanta – prende le mosse da studi artistici (Accademia di Belle Arti di Torino) ed è segnato dalla commistione di nuove tecnologie e di oggetti e di materiali che esulano da quest’ambito: la luce, innanzitutto (in dialogo con l’ombra), ma anche pietra, polvere dorata, carta, marmo, ferro, coni riflettenti. Questo dialogo si esprime in alcune opere anche attraverso un più ampio richiamo a figure e a temi del passato, che affiorano dal mito e dalla leggenda. Ad esempio, nell’installazione Il silenzio delle fate (1990). Qui, mi scrive Giuliana Cunéaz, «affronto, attraverso lo studio delle leggende legate al territorio della Valle d'Aosta, la natura misteriosa e inquietante di queste creature femminili (spesso capricciose, vanitose e irascibili) in relazione al nostro immaginario e ai luoghi. Le fate, figure sempre in bilico tra l’immateriale e l’umano, sono indubbiamente emanazioni della natura. È interessante notare, (sempre attraverso le leggende) come dietro alla bellezza e al fascino spesso nascondono una deformità (piede caprino o coda d’asino) che cercano di mascherare. Un altro aspetto è l’innamoramento verso un essere umano che generalmente poi le abbandona lasciandole nella disperazione o anche come possano partorire solo orchi che cercano di sostituire con bimbi rapendoli in fasce nelle culle...» (Cunéaz 2021).

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  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →
  • Arabeschi n. 16→

 

{cardone_marcheschi_simi_intro_sperimentali_s_fig1| Athyrium Filix-Femina (For Anna Atkins) (Kelly Egan, 2016), 35mm, colore, 5 min. Cortesia dell'artista. Tutti i diritti riservati}

Il cinema sperimentale, così come la videoarte e l’arte dei nuovi media, sono da sempre linguaggi in cui ampia e significativa è la presenza delle donne (Blaetz 2008). È stata la Feminist Film Theory (Mulvey, 1978; De Lauretis, 1984; Silverman, 1988; Creed, 1993; Pravadelli, 2018) a farci comprendere con chiarezza che le pratiche audiovisive sperimentali hanno rappresentato tradizionalmente uno spazio privilegiato dell’agire femminile che, nell’assenza delle costrizioni economiche e censorie tipiche dell’industria cinematografica, ha trovato maggiore libertà di ricerca e di produzione. È infatti nel circuito indipendente e sperimentale, nei luoghi porosi dell’incontro con gli spazi e le pratiche dell’arte, che le donne sono riuscite a spostare i confini dell’(auto)rappresentazione e a costruire un laboratorio attivo dove poter sperimentare, ‘fare esperienza’, di nuove soggettività in divenire.

Tuttavia, se recenti ricerche all’incrocio tra Women’s Studies e Film Studies hanno fatto emergere, progressivamente, la densità e la specificità del ruolo delle donne nell’industria cinematografica, più complessa è l’analisi della produzione sperimentale, che resta ancora poco esplorata e in attesa di essere ritracciata e ridefinita in una più ampia prospettiva storico-teorica.

I saggi raccolti in questo numero di Smarginature ci consegnano una prima mappatura delle poliedriche forme della sperimentazione femminile, in una costellazione di pratiche e di opere dove affiorano rimandi formali, tematici, teorici: a partire dalle origini del cinema, in un momento di effervescenza teorica e produttiva in cui più estese sono le zone di ibridazione tra il film e le arti (Lischi 2004), passando per la stagione più intensa dello sperimentale, con la nascita del video e dell’espansione del cinema nelle forme installative e ambientali (Dubois 2006; Lischi 2003), per arrivare, infine, a quella «condizione post-mediale» (Krauss 1999) che ha aperto a nuove esplorazioni dell’audiovisivo.

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Abstract: ITA | ENG

Il Manifesto 1985, ideato dal critico Enrico Cocuccioni, è un video di quasi cinque minuti dedicato alla computer art. Nato come testo critico dal linguaggio fortemente allegorico, è stato dapprima tradotto in uno storyboard e poi trasformato in un video, usando le stesse tecnologie a cui esso è dedicato. Realizzato nel centro di produzione video più all’avanguardia nell’Italia degli anni Ottanta, la SBP CGE, il video affronta il problema della rappresentazione artistica nel panorama delle comunicazioni di massa e dei nuovi media. Il saggio analizza il passaggio dal testo scritto al linguaggio dinamico del video, interrogandosi sulla trasformazione del genere letterario del manifesto da parte delle tecnologie digitali. Attraverso altri esempi, riflette inoltre sul recupero del manifesto programmatico, un tipo di testo ampiamente usato dai movimenti d’avanguardia e molto raro negli anni Ottanta. 

Manifesto 1985, conceived by the critic Enrico Cocuccioni, is an almost five minutes video devoted to computer art. Born as a critical text with a deeply allegorical language, it was first translated into a storyboard and then it became a video, made with the same technology that it deals with. Realized in the most innovative Italian video production centre of the Eighties (SBP CGE), the video deals with the problem of the artistic representation in the landscape of mass communication and new media. The paper analyses the passage from written text to the dynamic language of video as well as the transformation of the manifesto as a literary genre by digital technologies. Through other examples, it also reflects on the rehabilitation of the programmatic manifesto, a kind of text extensively used by the avant-garde movements and very rare during the Eighties.

 

1. Tra testo e immagini.

Il 30 marzo 1985 il Lavatoio Contumaciale di Roma ospita il dibattito La critica dell’arte: confronti, a cura di Filiberto Menna e Lamberto Pignotti.[1] In questa occasione Enrico Cocuccioni presenta il Manifesto critico. L’arte tra videostasi e neosofia, un testo con cui annuncia un’arte che non può solo ripiegare sul passato, ma deve aprirsi alle nuove tecnologie.[2] Sebbene non vi sia un esplicito riferimento, dal testo si evince un’allusione alla scena artistica che in quegli anni stava prendendo forma attorno all’uso del computer e di cui Cocuccioni in Italia è tra i primi a occuparsi in qualità di critico.[3] Lo scritto sarà poi tradotto in uno storyboard con una piccola variazione nel titolo (Manifesto 1985. L’arte tra videostasi e neosofia), corredato da puntuali e lunghe didascalie, in previsione di una sua traduzione in video.[4] Qualche mese più tardi è in questa nuova forma visiva e dinamica che sarà presentato al VideoArt Festival di Locarno (3 – 7 agosto 1985), privo del sottotitolo L’arte tra videostasi e neosofia e accompagnato da un nuovo testo intitolato Un manifesto critico in videoclip.[5] Come spiegato da Cocuccioni in quest’intervento, il video è frutto di una rielaborazione del manifesto teorico e intende «evocare, in forma sintetica e metaforica, quasi con un linguaggio da spot pubblicitario, l’attuale condizione storica dell’arte in rapporto alla nuova realtà tecnologica».[6]

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Nel 2003 Agnès Varda riceve l’invito a partecipare alla 50° Biennale di Venezia, all’interno della sezione Utopia Station: un’area di transito e in transito, progettata come lo spazio di una stazione, dove poter sostare e osservare contributi artistici di varia natura, provenienti da tutto il mondo. Aderiscono al progetto oltre 150 tra artisti, architetti e interlocutori che non fanno necessariamente parte del panorama artistico contemporaneo. Agnès Varda, tra questi ultimi, nell’accogliere l’invito propone per l’occasione un’installazione videosonora. Da questo momento per la cineasta belga si aprono nuove opportunità, sia sul piano dei territori artistici, fino a quel momento videofilmici e fotografici, sia su quello della scrittura. Pur mantenendo i principi compositivi che ne caratterizzano da sempre il lavoro, a partire da Patatutopia – questo il titolo della videoinstallazione – i tratti della multimedialità interverranno nella scrittura di Agnès Varda consentendole di ampliare, strutturalmente, le declinazioni dei dispositivi di ripresa e i modi della rappresentazione del racconto. O, della ex-peau-sizione, per dirla con il neologismo di Jean-Luc Nancy, subentrato proprio al termine Ê»rappresentazioneʼ, peraltro con un rinvigorimento di senso dato dalla sostituzione, al suo interno, della sillaba Ê»poʼ con la parola omofona peau, pelle.

A fondamento dell’intero lavoro di Varda c’è, infatti, un Ê»discorsoʼ aperto allo sguardo, alla presentazione del racconto più che alla sua rappresentazione, attraverso uno s-velamento progressivo operato dai mezzi di ripresa prima e poi di montaggio, che va di pari passo, autoalimentandosi, con la creazione-rivelazione di immagini e suoni da condividere. Un togliere i veli alla realtà, andando oltre la pura documentazione della stessa, per far affiorare un mondo-corpo fatto di Ê»piccole coseʼ; e forse, proprio per questo, maggiormente incisivo.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →
  • Arabeschi n. 12→

Studiare il corpo (e i corpi) al cinema significa anzitutto considerare due distinte, sebbene interrelate, dimensioni. Da una parte, i film (e in generale i prodotti audiovisivi) rappresentano i corpi: li traducono, cioè, in immagini visive e sonore costruite attraverso molteplici forme di sguardo, caricandoli di significati di volta in volta differenti, e proiettandoli fuori dal mondo fisico e carnale e dentro un universo di fantasie, modelli e repertori immaginari. Dall’altra, i corpi sono anche (e soprattutto) una delle materie principali attraverso cui il cinema, la televisione e le arti elettroniche formano e sviluppano il loro discorso, la loro “parola audiovisiva”: pensiamo, ad esempio, a come i gesti e le voci degli attori e delle attrici partecipino alla produzione e alla messa in forma del racconto nel cinema narrativo, a come la performance corporea stia spesso alla base delle sperimentazioni videoartistiche; o ancora alla centralità assoluta del corpo (parlante, danzante, cantante, in ogni caso “presente”) che ha caratterizzato la comunicazione televisiva fin dalle sue origini.

Pensare il corpo negli scenari mediali obbliga a misurarsi con un oggetto visibilissimo ma intimamente sfuggente. Allo stesso tempo portatore e produttore di senso, il corpo cinematografico si impone come rappresentazione (e, dunque, come incarnazione di una pluralità di significati sociali, culturali, autoriali, e così via) e insieme come entità performativa, capace di creare significati attraverso la propria fisicità.

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