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  • [Smarginature] «Ho ucciso l'angelo del focolare». Lo spazio domestico e la libertà ritrovata →
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Il testo teatrale La voix humaine (1930) di Jean Cocteau è un atto unico con un solo personaggio femminile parlante al telefono rinchiusa tra le pareti domestiche. L’opera è un monologo disperato di una donna che parla con l’uomo che la sta abbandonando, ovvero un dialogo simulato in cui il pubblico partendo dalle parole di lei deve immaginare le parole e l’essenza di lui. Il testo è stato ed è ancora oggi uno degli spettacoli più rappresentati e più volte oggetto di riscrittura e adattamento. Nell’introduzione Cocteau definisce il progetto come risposta alle lamentele da parte delle attrici che le sue opere erano troppo dominate dallo scrittore/regista, non lasciando spazio per dimostrare la capacità artistica di chi recita. Col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione, la grande prova attoriale per tante grandi interpreti che volevano dimostrare la propria bravura tramite le tante sfumature offerte da un testo puntato sugli aspetti dolorosi dell’amore. In questo saggio prendo in considerazione tre adattamenti cinematografici di La voix humaine che mettono alla prova tre grandissime attrici, partendo dal film di Rossellini con Anna Magnani, passando dall’adattamento di Edoardo Ponti con la madre Sophia Loren, fino ad arrivare alla versione recentissima di Almodovar con Tilda Swinton. In modi diversi e sovversivi, le trasposizioni cinematografiche indagano e sfruttano l’originale, amplificano il tempo e lo spazio spoglio di Cocteau, focalizzando sulla complessità dell’autorappresentazione della protagonista e del suo rapporto con gli oggetti e con gli spazi domestici in cui vive: spazi di sofferenza e assenza ma anche di agency e dignità.

Jean Cocteau’s theatrical text La voix humaine (1930) is a one-act play featuring a sole female character speaking on the phone trapped within the confines of the domestic space. The work is a monologue or more precisely a simulated dialogue of a desperate woman speaking with her lover who is leaving her. From her words, the audience is meant to imagine the words and the essence of the man. Still today the text is a widely staged work, often rewritten and adapted for the stage and screen. In the introduction, Cocteau defines the project as a response to actresses’ complaints that his works were all too often dominated by the writer/director leaving little space for the display of the artistry of the actress. With the passage of time, the text has become practically a manual for acting, a great challenge for actresses who wanted to demonstrate their versatility thanks to the many nuances offered by a text focused on the painful aspects of love. In this essay, I look at three cinematic adaptations of La voix humaine that put three great actresses to the test: Rossellini’s early version featuring Anna Magnani, Edoardo Ponti’s version featuring his mother Sophia Loren, and most recently Pedro Almodovar’s version starring Tilda Swinton. In distinctive and subversive ways, the adaptations explore and exploit the original, expanding the time and space of Cocteau’s text and focusing on the complexity of the self-representation of the protagonist and of her relationship with the objects and the domestic space that she inhabits: spaces of sufferance and absence but also of agency and dignity.

Nell’introduzione al suo testo teatrale La voix humaine (1930), Jean Cocteau definisce il progetto come una risposta alle lamentele da parte di quelle attrici che lo avevano accusato di far risaltare, nelle sue opere, più la voce dello scrittore/regista che non la capacità artistica di chi recita. Il testo di Cocteau nasce quindi come un esperimento a partire da alcuni elementi basilari: è un atto unico, c’è un solo personaggio femminile in una camera da letto spoglia in cui spicca l’accessorio di ogni dramma moderno, il telefono, un’invenzione che ha cambiato definitivamente il modo di concepire e rappresentare le relazioni. Il monologo è un dialogo simulato in cui, tramite le parole della protagonista, dobbiamo immaginare le parole, le reazioni e il carattere di chi sta dall’altra parte della cornetta. Il dramma infatti consiste in una lunga telefonata, più volte interrotta, tra una donna che sta parlando al telefono – probabilmente per l’ultima volta – con l’uomo che la sta lasciando dopo un rapporto sentimentale durato cinque anni. Si tratta di uno spettacolo che è stato fatto più volte oggetto di riscrittura e adattamento, e col passare degli anni è diventato praticamente un manuale di recitazione per tante grandi attrici che volevano dimostrare la propria bravura a partire da un testo basato sugli aspetti dolorosi della fine di un amore.

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Il caso di Anna Magnani offre una fenomenologia sempre feconda sulle possibiltà di osservare l’opera di un’attrice come la testimonianza creativa di un autore. La sua politica di attrice (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnice Mur, 2015) afferma non soltanto un compendio di figure e personaggi che diventano essenziali per capire il paesaggio filmico del neorealismo italiano, ma anche un manifesto sulla creazione del personaggio in un momento in cui dalle cinematografie nate dal dopoguerra europeo spuntano i ritratti della femminiltà moderna (Sieghlor 2000; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). Dal punto di vista figurativo, troviamo nei suoi film delle immagini ricorrenti che si ripetono intorno alla sua presenza. Intendiamo queste immagini come motivi visuali (Balló & Bergala, 2016) che accompagnano la costruzione dei personaggi dall’attrice di film in film, e che a volte diventano delle vere unità di significazione narrativa e simbolica composte intorno alle sue figure. Il motivo più costante che troviamo a questo riguardo è quello della donna sdraiata sul letto. Un’immagine composta intorno a dei momenti significativi delle sue eroine realiste, che esprimono l’angoscia, la calma, la tristezza o la gioia della solitudine nell’intimità della propria camera. Pur non essendo in apparenza il motivo più rilevante in un senso narrativo, è quello più frequente e probabilmente quello che rege un maggior simbolismo nella carriera di un’attrice che ha esplorato e rappresentato le idee degli affetti e del desiderio oltre la narrativa melodrammatica classica e dell’amore romantico.  Attraverso il motivo della donna sul letto, questo studio cercherà di delineare il significato e l’importanza che prendono i luoghi dell’intimità legati allo spazio domestico nella costruzione del divismo di un’attrice per cui la rappresentazione della femminilità è stata fondamentale nella sua politica di attrice. 

The case of Anna Magnani offers an always fertile phenomenology on the possibilities of observing the work of an actress as the creative testimony of an author. Her actress policy (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnice Mur, 2015) affirms not only a compendium of figures and characters that become essential for understanding the filmic landscape of Italian neo-realism, but also a manifesto on the creation of the character at a time when portraits of modern femininity were emerging from post-war European cinema (Sieghlor 2000; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). From a figurative point of view, we find recurring images around her films. We understand these images as visual motifs (Balló & Bergala, 2016) that accompany the construction of characters by the actress from film to film, and that sometimes become true units of narrative and symbolic signification composed around her figures. The most constant motif we find in this regard is that of the woman lying on the bed. An image composed around significant moments of his realist heroines, expressing the anguish, calm, sadness or joy of loneliness in the intimacy of their own room. Although it is apparently not the most relevant motif in a narrative sense, it is the most frequent and probably the one that holds the most symbolism in the career of an actress who explored and portrayed the ideas of affection and desire beyond classical melodramatic fiction and romantic love.  Through the motif of the woman on the bed, this study will attempt to delineate the meaning and importance of the places of intimacy linked to domestic space in the construction of the stardom of an actress for whom the representation of femininity was fundamental in her politics as an actress.

Il caso di Anna Magnani offre numerose possibilità di osservare nel percorso di un’attrice la testimonianza creativa di una autrice. La sua politica di attrice (Moullet, 1993; Brenez, 2013; Carnicé Mur, 2015) mostra non soltanto un compendio di figure essenziali del paesaggio filmico del neorealismo italiano, ma appare anche come un manifesto della creazione del personaggio in un momento in cui nelle cinematografie europee del dopoguerra affiorano i tratti della femminilità moderna (Sieghlor, 2000; Jandelli, 2007; Pravadelli, 2015). Dal punto di vista figurativo, troviamo nei suoi film una serie di immagini ricorrenti che muovono intorno alla sua presenza, generando una certa familiarità tra il mondo drammaturgico legato ai suoi gesti e la memoria degli spettatori. Ne sono esempi il motivo della pietà, quello della donna che corre, l’attrice nel suo camerino, o la donna sul letto. Vorrei leggere queste immagini attraverso il prisma della prospettiva teorica con la quale autori come Casetti e Di Chio (1994) o Balló e Bergala (2016) osservano i motivi visuali nell’analisi filmica, ovvero unità iconografiche che nutrono di senso l’universo filmico, diventando esse stesse unità autonome di significazione narrativa e simbolica. In questo caso, i motivi visuali appena elencati accompagnano la costruzione del personaggio di Anna Magnani di film in film, definendo una serie di tratti di familiarità e iconicità nel suo ventaglio di eroine quotidiane, così da offrire un ritratto profondo e non stereotipato dell’identità femminile del suo tempo.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Mamma Roma appare il frutto del contrasto fecondo tra la corporeità, disordinata e ossimorica, di Magnani, in tutte le sue emanazioni – il distendersi delle posture nel gioco d’attrice, le variazioni della voce, dal canto all’urlo alla risata – e la tensione astrattiva di Pier Paolo Pasolini che mira a fissarla in una icona, figura simbolica che rappresenta un’essenza, un assoluto scolpito nel mito e non più vivo nella confusione del reale. Così il film esalta l’attrice nella sua doppia misura performativa: mostra la messa in forma del corpo, di taglio teatrale, nel piano sequenza e mette in luce il lavoro cinematografico dell’attrice nel primo piano.

Mamma Roma appears to be the outcome of the fruitful conflict between Anna Magnani’s corporeality, marked by disorder and excess, in all its forms – the gestures and the voice, screaming, singing, laughing – and the tension towards the abstraction typical of Pier Paolo Pasolini, that tends to freeze the actress as it sees her as an icon or a myth, as opposed to someone alive in the confusion of the real. Therefore, the film enhances Magnani in her double quality as a performer: in the sequence shots it shows the gestures of the entire body typical of her performances on stage, whereas the close-ups put to the foreground her work as a cinematographic actress.

 

1. Scritture

In un passo del 1960 dal titolo Donne di Roma, Pier Paolo Pasolini descrive così la figura di Anna Magnani:

A stagliarsi per primo è il volto dell’attrice, con i contrasti vividi di luce e ombra: gli occhi bistrati di nero si distendono sulla pelle candida come un fazzoletto. Magnani appare bendata, come fosse cieca, una veggente o una profeta: una sorta di idolo. Pasolini vede nell’attrice sì un corpo governato dalla fisiologia (le risate, i piccoli rutti, l’andare al bagno) ma soprattutto una figura ieratica («sta seduta sempre col busto eretto», «come su un palcoscenico»). Magnani è «la pura vita», segno e corpo di una romanità eterna e a-storica (le «generazioni di donne romane che sono state al mondo prima di lei»).

A ridosso delle riprese del film, la figura di Anna Magnani torna ad affacciarsi nella scrittura pasoliniana:

 

 

Il brano di Donne di Roma gioca sulla materialità concreta e perfino scatologica per poi aprirsi alla dimensione simbolica (Roma sub specie Magnani). La parola poetica adotta lo stesso passo e lavora per astrazione: riassume per sineddoche il corpo dell’attrice nelle «ciocche» e nelle «occhiaie», e la musicalità quasi scricchiolante dei termini sembra trasformarne il volto, dissolvendolo in un elemento ritmico, battente e ripetuto. Dal canto suo, la dimensione sonora è ossimorica: domina nell’«urlo» che «risuona nelle disperate panoramiche» per acquietarsi subito dopo nelle «occhiaie mute» e culminare nel silenzio sonoro (un canto tanto forte da rendere sordi, dunque impossibile da udire) che chiude l’ekphrasis della celebre sequenza di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945). Ancora un passaggio dal concreto all’astratto: la voce di Magnani/Pina perde matericità, quasi si stacca dal corpo per assumere una consistenza eterea e distendersi negli spazi senza storia della tragedia, divenendo «canto degli aedi», suono eterno e tuttavia, per paradosso, silenzioso proprio perché assordante.

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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
  • Arabeschi n. 20→

 

 

Pier Paolo Pasolini non ha mai codificato una puntuale e organica teoria della recitazione cinematografica ma ha sempre prestato grande attenzione alle scelte di casting, intervenendo continuamente su questioni relative al rapporto con gli attori e le attrici. La sua sensibilità verso la dimensione corporale, l’interesse per la relazione tra spazi e figure fanno sì che ogni film rilanci sempre nuove traiettorie di senso legate alla presenza e alle dinamiche di interazione fra interpreti. L’importanza delle pose, dei gesti, degli sguardi dei personaggi determina una frizione costante fra verità e artificio, puntando alla perfetta combinazione fra carattere e atto performativo.

Con la Galleria «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini si vuole disegnare una mappa delle pratiche e delle teorie attoriali messe in atto dal regista, tema finora poco indagato dalla critica ma decisivo per intendere gli equilibri e le dinamiche del suo sguardo. La struttura prevista sarà quella di un dizionario-atlante, con voci dedicate ad attori e attrici che ricostruiscano – dove è possibile sulla base della documentazione disponibile – la relazione fra il regista e l’attore, le peculiari caratteristiche performative che il viso e il corpo di ogni interprete assumono nei film di Pasolini, oppure (nel caso degli attori professionisti e delle star) le modalità con cui lo scrittore si confronta con la loro immagine divistica.

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Per quanto riguarda l’incrocio tra Film Studies e Women’s Studies, il decennio degli anni Cinquanta offre un interessante campo di osservazione della nascita – o rinascita – del personaggio femminile moderno, specialmente nelle cinematografie europee. Questa rinascita coinvolge una trasformazione sociale che ha portato la teoria filmica femminista a esplorare, nell’importanza del binomio società-cinema (Sieglohr 2000) anche il possibile rapporto attrici-spettatrici (Garofalo 1956; Grignaffini 2002; Jandelli 2007; Pravadelli 2015). Non a caso questo decennio diventa anche l’ambiente di nascita di nuove forme divistiche che, stimolate dalla trasformazione dei nuovi panorami mediatici, pongono l’accento sull’importanza delle attrici nella costruzione delle identità culturali, in un momento in cui anche nelle sale lo sguardo è femminile.

Lo status iconico di Anna Magnani come diva italiana del dopoguerra è un esempio di come la storia di una nazione potrebbe essere scritta attraverso i corpi (e i gesti) delle sue attrici (Grignaffini 2002). Diversi film della seconda metà degli anni Quaranta suggeriscono la loro capacità di rappresentare le mutazioni culturali e sociali di un contesto turbolento come quello della transizione democratica italiana. Il periodo tra il 1946 e il 1950 comprende la sezione più prolifica della carriera dell’attrice, con un totale di dodici interpretazioni che racchiudono le basi del suo manifesto figurativo: la donna che, desiderando più di quanto le sia concesso, finisce per ‘traboccare’ dal mondo filmico che la contiene, spesso attraverso i suoi gesti. In un probabile rapporto con il contesto sociale con cui dialogano, tutte le figure incarnano una traiettoria di cambiamento. Sia per desiderio di promozione sociale, mobilità o trasformazione personale, personaggi come Angelina Bianchi (L’onorevole Angelina, L. Zampa, 1947), Gioconda Perfetti (Abbasso la ricchezza!, G. Righelli, 1946), Linda Bertoni (Molti sogni per le strade, M. Camerini, 1948) o Assunta Spina (Assunta Spina, M. Mattoli, 1948) espongono idee alternative di una femminilità archetipica nell’esaltazione del desiderio individuale come dimensione principale. In questo periodo Magnani indossa i gesti di madri che militano in politica (L’onorevole Angelina), prostitute con devozione religiosa (Lo sconosciuto di San Marino, V. Cottafavi, 1948; Vulcano, W. Dieterle, 1950), vedove con ambizioni di imprenditorialità sociale (Abbasso la ricchezza!), femmes fatales che sono anche donne autonome (Il bandito, A. Lattuada, 1946; Assunta Spina) o attrici che militano nella resistenza politica (Avanti a lui tremava tutta Roma, C. Gallone, 1946). La transizione che questi personaggi subiscono ha anche degli aspetti narrativi ed estetici. Significativamente, molti dei personaggi di questi anni tracciano traiettorie di emancipazione spesso troncate dall’imposizione di un simbolico ritorno all’ordine che viene segnato dalla punizione che tocca alla donna ambiziosa, insoddisfatta o libera. Tuttavia, i gesti dell’attrice travalicano l’ideologia prevalente dei film con un messaggio di ribellione, a volte tragico ma sempre complice e catartico verso le spettatrici. Parola, volto e gesto diventano così lo specchio di un desiderio di emancipazione in un momento in cui il cinema nazionale trova le donne «come pubblico e come argomento» (Morreale 2011, p. 82) [fig. 1].

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La Carrozza d’oro (1952) di Jean Renoir è un film che fonde insieme riflessioni su cinema, teatro e arte. Girato in Technicolor e ispirato all’atto unico di Prosper Mérimée (La carrozza del Santo Sacramento, 1829), è – come lo ha definito lo stesso regista – «una commedia. […] un omaggio all’antico Teatro Italiano, particolarmente a quella forma di teatro detta la Commedia dell’Arte» (Renoir, 1953). Il film mette in campo un’infinita serie di interessanti relazioni tra realtà e finzione finendo col portare sul grande schermo la storia di un’attrice (Camilla), specchio di Magnani, per la quale la vera vita è quella che interpreta nei suoi personaggi (Colombina). Il contributo si concentrasulla grande prova di Magnani-Camilla che, intessendo sul suo corpo il duplice ruolo dell’attrice e della donna contesa in amore che sceglierà alla fine la strada dell’Arte, finisce col creare un doppio gioco tra illusione di verità e attorialità. La sua arte, come accaduto già per altri ruoli, si fonda sull’equilibrio perfetto tra recitazione a teatro e recitazione nella vita al punto da rendere difficile scindere l’attrice dalla donna, divenute ormai corpus unico.

La Carrozza d’oro (1952) is a film by Jean Renoir that combines reflections on cinema, theatre and art. In Technicolor and inspired by Prosper Mérimée’s one-act play (La carrozza del Santo Sacramento, 1829), it is – as the director himself defined it – «a comedy. [...] a tribute to ancient Italian theatre, particularly to that form of theatre known as the Commedia dell’Arte» (Renoir, 1953). The film introduces an endless seriesof interesting relationships between reality and fiction, ending up by bringing to the big screen the story of an actress(Camilla), a mirror of Magnani, for whom the real life is the one she plays in her characters (Colombina). The contribution focuses on Magnani-Camilla's great performance, who, by weaving onto her body the dual role of the actress and the woman challenged in love who will ultimately choose the path of Art, ends up creating a double game between the illusion of truth and acting. Her art, as in other roles, is based on the perfect balance between acting in the theatre and acting in life, to the point of making it difficult to separate the actress from the woman, who have now become a single corpus.

«Cara Anna, questa è l’ultima forma del nostro racconto-sceneggiato, […] leggila e dammi le tue impressioni. Ti abbraccio. Luchino».[1]Camila. La carrozza del Santissimo Sacramento è il titolo della sceneggiatura firmata nel 1950 da Luchino Visconti, Suso Cecchi D’Amico, Antonio Pietrangeli e conservata tra le carte del Fondo Visconti nell’archivio della Fondazione Istituto Gramsci di Roma.[2] Cosa resta oggi di quel film mai realizzato – voluto dal principe siciliano Francesco Alliata di Villafranca fondatore, insieme ad alcuni amici, della casa di produzione Panaria Films (1946) – ce lo ricorda Stefano Moretti:

Il progetto di lavorare sulla pièce di Prosper Mérimée[4] si risolse in una fumata nera per Visconti e fu nel 1952 portato a termine da Jean Renoir, che il 28 marzo 1951 riceveva dal produttore Robert Dorfmann un telegramma a cui sarebbe seguito un rapido botta e risposta:

Renoir, all’epoca, era desideroso di tornare in Europa e di fare un film con l’attrice che non esitava a definire «la quintessenza dell’Italia». In una lettera di qualche tempo dopo, indirizzata a Jean Vilar, difatti leggiamo:

1. «La commedia, il teatro e la vita»

Nel 1952 Magnani sale sulla carrozza in puro stile Settecento che i Lanza di Trabia[7]avevano rimesso in moto e trasferito da Palermo a Roma affinché divenisse la protagonista, almeno nel titolo, del film diretto da Renoir: Le Carrosse d’or.[8]

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  • [Smarginature] Divagrafie, ovvero delle attrici che scrivono →

 

 

Mi piace affacciarmi a questa finestra un poco prima dell’alba: fra le quattro e le cinque del mattino, New York è deserta. È l’unica ora in cui sembra che la città si conceda un breve riposo, le strade sono silenziose, le luci dei grattacieli spente, una leggera foschia comincia a formarsi sui laghetti del parco: è uno degli spettacoli più belli del mondo. E quando da quelle colline là di fronte spuntano le prime luci, si vede soltanto la cima delle torri appoggiate sulla nebbia, è un paesaggio magico, sospeso nell’aria, tinto di azzurro e di viola […].

Anna Magnani, New York, 1955

 

Nascosta tra la piccola finestra di un maestoso grattacielo affacciato su Central Park, un’insonne Anna Magnani contempla l’alba nascente, di colore viola, sulla città di New York. Questa è forse la più bella immagine della cronaca del suo primo viaggio negli Stati Uniti, non soltanto per la plasticità del bel controcampo che ci offre, ma per quella del piacere e del desiderio di un’attrice che per una volta sparisce come corpo per diventare sguardo.

La mia avventura americana, pubblicata da Tempo nel 1953, è l’unico pezzo autobiografico rimasto di Anna Magnani, che non lasciò memorie scritte né autorizzate. Si tratta di un’insolita ‘finestra’ sull’intimità, che tanti suoi contemporanei invano cercarono di penetrare, di un raro paesaggio interiore di un’attrice che è stata celebre sia per la sua generosità sulle scene, sia per l’estrema determinazione con la quale ha chiuso allo sguardo pubblico, come fece davanti alla camera di Fellini in Roma (1972), i limiti della sua privatezza.

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Con la curatela di Luciano De Giusti e di Roberto Chiesi, nel 2015 è stato pubblicato per la Cineteca di Bologna e Cinemazero Accattone. L’esordio di Pier Paolo Pasolini raccontato dai documenti, prima uscita della collana Pier Paolo Pasolini, un cinema di poesia, dedicata alla produzione cinematografica del poeta bolognese. A distanza di pochi anni, la serie continua a scandagliare l’universo registico pasoliniano, seguendone l’evoluzione lungo un ordinato asse cronologico, e si arricchisce di un ulteriore segmento, Mamma Roma. Un film scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini (2019). Il volume, curato da Franco Zabagli, porta adesso all’attenzione dei lettori la drammatica storia della madre – ritagliata da Pasolini sul corpo e sul temperamento di Anna Magnani – che tenta con disperata ostinazione di tracciare per il figlio Ettore un sentiero di riscatto, e mantiene l’impostazione inaugurata nel 2015. Se Accattone ha imposto una riflessione sul passaggio al cinema come forma espressiva relativamente nuova nella carriera di Pasolini, che dopo una frequentazione della scrittura per il grande schermo esercitata sulle sceneggiature di film altrui impugna la macchina da presa tra il 1960 e il 1961, la seconda pellicola del poeta-regista, proiettata per la prima volta in occasione della XXIII Mostra del Cinema di Venezia nel 1962, mette in campo tematiche, dinamiche di ricezione e scelte estetiche, sorrette da una consapevolezza ancora maggiore, che vengono affrontate lasciando di nuovo ‘parlare’ anche i documenti e la bibliografia primaria.

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Nella città l’inferno di Renato Castellani rappresenta dal punto di vista della performance un caso di collaborazione a quattro mani tra la sceneggiatrice, Suso Cecchi D’Amico, e l’attrice, Anna Magnani; con la messa a punto del personaggio di Egle, l’istrionica detenuta del carcere delle Mantellate interpretata dall’attrice. Il contributo prenderà in analisi alcune scene delle due stesure delle sceneggiature, conservate presso il fondo Castellani del Museo Nazionale del Cinema, in cui il lavoro di scrittura dell’una per l’altra sottende da un lato una profonda conoscenza della Magnani, andando oltre lo stereotipo, e dall’altro una sicurezza avvalorata dalla profonda amicizia che legava le due donne, che ha permesso alla Magnani di valorizzare le potenzialità del suo lavoro attoriale, qui giocato sulla capacità di inserirsi nella scrittura della D’Amico potenziando la performance con l’assoluta padronanza della scena e l’uso dell’idioletto che contraddistingue il personaggio di Egle. 

…and the Wild Wild Women by Renato Castellani represented a case of collaboration between the screenplay and the performance as the result of the deep knowledge and friendship that connected the screenwriter, Suso Cecchi D’Amico, and the performer, Anna Magnani, that is flown into Egle’s character. The proposal is going to analyze some scenes of the two scripts, stored in the Castellani’s archive collection at the National Museum of Cinema, where this collaboration emerges and promoting and strengthening Magnani’s performance. 

 

 

 

Le parole di Suso Cecchi D’Amico poste in esergo offrono un ritratto di Anna Magnani in cui la lucida obiettività di talune affermazioni («non era bella […] le gambe erano magre e leggermente storte […]») viene del tutto sopravanzata dal tono poetico e immaginifico della descrizione («spesso cupa come il suo cane lupo color dell’ebano […]»), e dal suo chiudersi sull’improvviso emergere di tratti di splendore («aveva un décolleté splendido, come pure lo erano le mani e i piedi […]»), sino alla resa incondizionata di fronte al suo fascino («Dovunque entrasse in scena, non guardavi altri che lei»). Un ritratto delineato da parte di qualcuno che proprio scrivendo per lei, in qualche modo Ê»di leiʼ, aveva sviluppato con l’attrice e la donna un rapporto di profonda intesa e amicizia, durato molti anni e rievocato in numerose occasioni. Un’amicizia fatta di fiducia, in particolare da parte della Magnani nei confronti di Suso, che confidava nella scrittura della sceneggiatrice, avvertendola rispettosa della sua personalità più che dello stereotipato personaggio Ê»Magnaniʼ e, soprattutto, delle sue qualità di attrice, spesso previste, anticipate, ma mai imposte nei ruoli scritti per lei; una collaborazione che inizia con L’Onorevole Angelina (L. Zampa, 1947) e prosegue con Bellissima (L. Visconti, 1951), Camicie rosse (G. Alessandrini, 1952), l’episodio Anna Magnani (L. Visconti, 1953) in Siamo donne, Nella città l’inferno, di cui si parlerà in questo contributo, e che si conclude con Risate di gioia (M. Monicelli, 1960). Ma se sono note le tappe di un rapporto che conosce una fase calante proprio in concomitanza con l’ultimo film di Monicelli, e che si nutre del sodalizio artistico ma anche di quello umano (con la Magnani che coinvolge l’amica nelle sue crisi sentimentali, nelle incomprensioni con i registi, nelle sue partenze – quella per l’America –, nelle sue Ê»ruzzeʼ notturne), non sempre sono state osservate nel dettaglio le relazioni tra la scrittura dell’una per l’altra, e la performance dell’attrice.

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