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Mettere in scena la tragedie di Pasolini è un’operazione da far tremare i polsi; lo dimostra l’esiguità di regie tratte dal Teatro di Parola in un contesto, come quello del centenario dell’autore ormai alle ultime battute, che ha visto una fioritura di convegni, mostre, iniziative, e anche spettacoli teatrali – tra cui è da ricordare Questo è il tempo in cui aspetto la grazia, biografia poetica di PPP ad opera di Fabio Condemi e Gabriele Portoghese.[1] Se poche e pochi hanno avuto il coraggio di attraversare il corpus pasoliniano lungo questa direttrice, è quindi particolarmente meritorio il programma Come devi immaginarmi / Progetto Pasolini, curato dal direttore di Emilia Romagna Teatro Valter Malosti insieme a Giovanni Agosti, che ha commissionato allestimenti di tutti i testi teatrali di Pasolini, ideati nel 1966 (durante un grave attacco di ulcera): prima di Pilade, in scena dal 16 al 19 febbraio 2023, ha aperto il ciclo il Calderón diretto da Fabio Condemi; seguiranno Bestia da stile diretto da Stanislas Nordey, Orgia di Federica Rosellini e Gabriele Portoghese, Porcile a cura di Michela Lucenti e Balletto Civile insieme alla compagnia Arte e Salute di Nanni Garella, e Affabulazione di Marco Lorenzi. Un parterre di artiste e artisti diversamente ‘giovani’ (in un paese dove la gioventù artistica è una condanna che affligge ben oltre il mezzo del cammin dantesco) alle prese con una forma, la performance dal vivo, in cui la tendenza alla museificazione può avere effetti devastanti, e la contaminazione con il tempo presente è una necessità imprescindibile.

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Milleluci costituisce uno spettacolo per molti versi ineguagliato nella storia della televisione pubblica italiana, sia per la sua collocazione storica – il 1974, durante il periodo dell’austerity e alla vigilia della proliferazione dell’emittenza televisiva privata – che per le scelte artistiche che lo caratterizzano. Il programma, diretto da Antonello Falqui, promuove una celebrazione in grande stile del passato musicale e dello spettacolo nazionale, affidandone per la prima volta la conduzione a una coppia femminile di protagoniste assolute come Mina e Raffaella Carrà. La loro elevata e versatile professionalità artistica, unita a una presenza scenica complice e autoironica, supportata dal contributo di una squadra di collaboratori di prim’ordine (da Gianni Ferrio a Roberto Lerici) e di ospiti significativi, fa di Milleluci un rilevante punto d’approdo. Il viaggio del programma televisivo attraverso i generi dello spettacolo musicale e i media che li hanno veicolati (dalla radio al café-chantant, dalla rivista al cabaret, dall’operetta al musical alla televisione) viene ricostruito attraverso un elaborato lavoro storico e scenografico che può essere fruito da diverse tipologie di pubblico, da quelle attente agli aspetti performativi, a quelle che ne colgono il portato autoriflessivo e sottilmente critico. 

Milleluci represent a spectacle in many ways unparalleled in the history of italian public television, both for its historical position –  1974, during the period of austerity and on the eve of the proliferation of private television broadcasting – and for its artistic choices. The program, directed by Antonello Falqui, promotes a celebration in grand style of the musical past and the national show, conducted for the first time by a female couple of absolute protagonists such as Mina and Raffaella Carrà. Their elevated and versatile artistic professionalism, combined with a close and self-mocking stage presence, and with the contribution of a team of first-rate collaborators (from Gianni Ferrio to Roberto Lerici) and significant guests, makes Milleluci an important arrival point. The journey of the television program through the genres of the musical show and the media that broadcasted them (from radio to café-chantant, from magazine to cabaret, from operetta to musical and to televison) its reconstructed through an elaborate historical and scenographic work, that can be enjoyed by different types of public: from those attentive to the performative aspects, to those that capture its self-reflexive and subtly critical brought.

È il 16 marzo 1974 quando, sul programma nazionale televisivo, si accendono per la prima volta ‘mille luci’ sulla storia dello spettacolo musicale: si tratta di una rievocazione in grande stile, destinata a segnare una tappa ineguagliata per la televisione italiana non solo per l’ingente dispiegamento di mezzi finanziari, ma anche per l’attenta rilettura dello spettacolo musicale che lo show propone. Il pubblico mostra di gradire l’operazione, assicurando al programma un successo attestato da 24 milioni di spettatori, che costituiscono un assoluto record per l’epoca,[1] forse attratti dal titolo del programma che, oltre a richiamare l’opulenza e la retorica altisonante dello show business, costituisce una pausa rilassante nel difficile clima dell’austerity.

In effetti, le misure introdotte dal governo Rumor nel dicembre 1973 per contrastare le conseguenze della crisi petrolifera non hanno ripercussioni solo sui trasporti, ma investono numerosi aspetti della vita quotidiana tra cui il consumo di media, come cinema e televisione, che subiscono contrazioni nella programmazione.[2] Perciò le ‘mille luci’ del varietà diretto da Antonello Falqui – da spegnersi rigorosamente prima dell’ora fatidica del coprifuoco – aprono a una pluralità di aspettative e di direzioni cui lo show cerca di far fronte.

È d’altra parte difficile inventare un format musicale inedito e originale. Come hanno messo in luce Luisella Bolla e Flaminia Cardini, la «macchina sonora» della Rai[3] ha già prodotto decine di programmi che fanno della musica il loro punto di forza. Accanto ai consolidati Canzonissima – un vero e proprio cavallo di battaglia del varietà sostenuto da una competizione canora, in onda dal 1956 al 1975 – e Teatro 10, che nel 1972 raggiunge la terza edizione, presentata da Alberto Lupo con Mina, le tipologie di show musicali più frequentate sono diverse. Oltre alle proposte dedicate ai singoli generi musicali (dal pop al jazz alla musica classica) e ai loro principali protagonisti,[4] in particolare dall’inizio degli anni Settanta si avviano percorsi più innovativi, organizzati come viaggi alla scoperta di territori, culture, tematiche che prendono forma anche attraverso le canzoni. È il caso di Europa Folk e pop (di Gianni Minà e Gian Piero Ricci), seguito, l’anno successivo (1973) da Folk e pop nell’America latina, due itinerari di perlustrazione e conoscenza di spazi geografici e musicali; ma anche di format come Milledischi, trasmesso dal 1971 con l’obiettivo di arginare la crisi del disco valorizzando tutte le novità (dalla musica classica al jazz e folk e canzonette) o Adesso musica dell’anno successivo con la medesima formula.

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San Berillo web serie docè il prodotto di un laboratorio audiovisivo condotto dalla visual artist Maria Arena nel quartiere catanese di San Berillo, una sorta di no man’s land abitata per lo più da sex workers e immigrati. Grazie all’attivazione di dinamiche relazionali basate sulla condivisione di esperienze, il format riesce a indagare le traiettorie esistenziali di una comunità che tenta di riabilitare il proprio modus vivendi attraverso feconde pratiche di rigenerazione urbana. Le due stagioni della serie coniugano la mobilità e la leggerezza del web con la profondità di sguardo del documentario e offrono una inedita cartografia di corpi e storie. L’intervento mira a ricostruire la poetica queer che ha ispirato l’architettura del progetto, da intendersi come strategia di messa in forma di un’alterità che attraversa le strade, i muri e i volti degli abitanti del quartiere, da sempre in lotta per una piena affermazione di sé.

The San Berillo web serie doc is the product of an audio-visual laboratory led by Maria Arena, a visual artist, in the San Berillo neighbourhood in Catania – practically a no man's land mostly inhabited by migrants and sex workers. By promoting relational dynamics on the basis of shared experiences, this format successfully portrays the existential trajectories of a community trying to rehabilitate its way of life through fertile practices of urban renewal. The series' two seasons combine the fluidity and simplicity of the web with the in-depth gaze of a documentary, thus offering an innovative map of bodies and stories. This presentation aims to rewire the queer poetics which inspired the architecture of the project, intended as a strategy to embody an "alterity" which runs through the streets, the walls and the faces of this suburb's inhabitants, always fighting for a fuller self- affirmation.

San Berillo Web Serie Doc è l’esito di un laboratorio di video-documentazione votato al recupero – attraverso una pratica di comunità – del ‘senso del luogo’ dello storico quartiere catanese San Berillo.[1] L’attività ha coinvolto nel corso di tre anni un gruppo composito di ragazzi che hanno condiviso un’esperienza formativa per certi aspetti inedita, perché caratterizzata da un approccio multidisciplinare e da una reale interazione con lo spazio[2].

Il progetto si inserisce nel piano di rigenerazione urbana guidato e sostenuto dalla Associazione Trame di quartiere,[3] protagonista di un’infaticabile attività di studio e sensibilizzazione nel cuore di Catania. Grazie all’intuito di Maria Arena, visual artist già autrice del docu-film Gesù è morto per i peccati degli altri (2015) selezionato alla 55ª edizione del Festival dei popoli di Firenze, i vicoli, i muri, i corpi e le storie che pulsano a San Berillo hanno trovato una via di ri-composizione formale che conferisce alle micronarrazioni lo statuto di «immagini della memoria»[4] e assegna loro la consistenza di «database interattivo».[5]

Le due stagioni della serie, disponibili su un canale youtube dedicato[6], coniugano la liveness e l’interattività del web[7] con la profondità di sguardo del documentario e puntano sull’attivazione di dinamiche relazionali basate sulla condivisione di esperienze e di ‘estratti di vita’. I tanti attori sociali coinvolti (abitanti, immigrati, docenti, attivisti, sex workers) offrono testimonianze emblematiche della condizione di marginalità in cui versa il quartiere e, allo stesso tempo, rilanciano la necessità di una risemantizzazione di spazi, abitudini e memorie.

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Perché dopo quarantacinque anni Nanni Moretti ha sentito il bisogno di andare a Santiago e di riparlare del golpe di Auguste Pinochet che rovesciò il governo socialista cileno e uccise il presidente Salvador Allende?

Il documentario Santiago, Italia sembra motivato non solo dal racconto delle vicende dell’epoca, ma dalla necessità di riflettere – attraverso quei fatti – sulla cospicua differenza di comportamento socio-politico tra l’Italia di allora e quella di oggi. In questo senso il documentario ripropone in termini nuovi, se non inediti, il rapporto Italia-Cile attraverso una serie di interviste a uomini e a donne cileni, che in vario modo hanno vissuto gli accadimenti del 1973. In questa prospettiva tali interviste somigliano più a finestre sul mondo ovvero a racconti liberi, ma puntuali dove la vicenda o il ricordo personale coincidono con il ripensamento sul valore della sfera pubblica, ridefinendo in tal modo lo spazio del reale dentro la messa in scena docu-filmica.

Nella ricorrenza stabile di un architettura definita, di una fotografia nitida e di un montaggio calibrato, serrato ed incisivo, Moretti modifica di volta in volta la costruzione delle inquadrature in base ai vari ‘personaggi’ – dal primissimo piano al piano medio ad esempio – non tanto come sguardo del regista sulle storie di ogni testimone in relazione alla Storia, ma piuttosto viceversa come trasposizione nel linguaggio filmico – nella materia sensibile – delle peculiarità dei vari individui agenti all’epoca dei fatti. Moretti così entra in scena solo quando intervista un condannato per torture per sottolineare il suo (ovvio) non essere imparziale.

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  • Un istinto da rabdomante. Elio Vittorini e le arti visive →

 

Nel rispondere a un’intervista sul bollettino Bompiani Pesci rossi dell’aprile1946, Vittorini esprime la convinzione che «tutto della storia sociale sia implicito nella storia dell’arte», ma che, viceversa, «non […] tutto della storia dell’arte sia implicito nella storia sociale». L’assunto può sembrare paradossale, eppure risponde a un’idea precisa di ciò che è trasmesso dalle arti figurative: «nell’arte interviene qualcosa che non è società», prosegue, «e che la società, fin’ora, non si fa scrupolo di escludere dalla propria storia» (Vittorini 2008, p. 289). Nella polemica contenuta in queste parole, Vittorini sta portando avanti una propria battaglia contro la divaricazione della cultura dalla società che, in controluce, non può non lasciare intravedere il programma del progetto Politecnico. Programma che, in quel giro di mesi, sta subendo trasformazioni tanto radicali da indurre a modificare persino la periodicità della rivista, da settimanale a mensile. In un frangente cruciale per la vicenda del periodico, affermare – come fa Vittorini – che la società lascia deliberatamente fuori dal proprio orizzonte «qualcosa di molto umano» (ibidem) equivale perciò a una dichiarazione di fallimento: la società, che si cercava di rinnovare con una «nuova cultura», pare volerne fare con ostinazione a meno.

Quasi per reazione, l’attenzione di Vittorini per le arti è ora prioritaria rispetto ad altre questioni. L’affermazione è esplicita nella nota ‘Ai lettori’ nella terza pagina di Politecnico n. 29, il primo fascicolo mensile, pubblicato nel maggio del ’46: «È infatti perché il nostro contributo alla preparazione di una nuova cultura possa riuscire più meditato, più paziente ed esteso, che la nostra attenzione e la nostra indagine si attarderanno, d’ora in poi, anche su problemi situati, rispetto ai problemi essenziali ed urgenti, in una posizione accessoria e marginale» (Vittorini 2008, p. 291). ‘Accessorio’ e ‘marginale’ sono aggettivi dalla connotazione in apparenza negativa, ma nella prospettiva di Vittorini vanno a identificare quel «qualcosa di molto umano» che è caratteristico dell’arte, da recuperare in una società appiattita su questioni contingenti, legate alla cronaca. Il passaggio dal settimanale al mensile non è indolore e, come traspare anche dall’avviso ‘Ai lettori’, implica una revisione della cultura intesa al contempo come ricerca (o ‘creazione’, secondo il lessico vittoriniano) e come divulgazione, in un equilibrio troppo precario per essere destinato a durare.

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Nel mondo dei media always on, che quotidianamente ci investono con una Ê»granularità di stimoliʼ da gestire con sempre più abile multitasking, il teatro, tra le più antiche forme di comunicazione artistica, ridefinisce il proprio statuto e la propria funzione mediali tramite l’appropriazione e l’elaborazione dei linguaggi attivi nel mediascape contemporaneo.

La questione dello sviluppo dell’arte teatrale in parallelo all’evoluzione della comunicazione e delle sue tecnologie, già asse teorico stratificato di riflessioni e traiettorie di ricerca, si arricchisce di un nuovo, significativo, momento di analisi e divulgazione con il volume Teatro e immaginari digitali. Saggi di mediologia dello spettacolo multimediale a cura di Alfonso Amendola e Vincenzo Del Gaudio (Gechi Edizioni, 2018).

 

 

Pubblicazione collettanea dalla spinta vocazione prismatica, il testo concentra l’attenzione di diversi studiosi nei confronti del «plesso semantico che tiene insieme il teatro con i nuovi media digitali» (Amendola, p. 18), nel segno di una prospettiva di ricerca duplice, media-archeologica e sociologica, ben argomentata nell’introduzione dai curatori.

Il primo approccio, seguendo l’intuizione dello studioso Jussi Pa­rikka, si fonda sull’ «investigate the new media cultures through insights from past new media» (Parikka, 2002); il che significa, nell’indagine sul medium-teatro, riconoscere e valorizzare gli spettacoli pionieristici nell’uso delle tecnologie analogiche, che dagli anni Ottanta del secolo scorso sono riusciti a rideterminare i rapporti di forza tra teatro e media.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Negli anni Trenta, a Hollywood, legare il lancio di un film alla promozione di un altro tipo di bene di consumo era una pratica abituale. L’industria americana si lasciava volentieri coinvolgere in iniziative di questo genere, nella consapevolezza che il cinema potesse ottenere un effetto trainante sui consumi. Anche in Italia, tra le due guerre, nonostante le potenzialità del sistema industriale fossero più limitate, ci fu qualche tentativo di legare l’uscita in sala alla vendita di altre merci. Spesso erano le stesse agenzie americane a organizzare la promozione dei film. Ad essere maggiormente sfruttate erano le immagini delle star diffuse sulla stampa femminile, che le mostravano in pose sorridenti pubblicizzare prodotti di bellezza, come il sapone Lux o la crema Ponds. Nel 1936 in occasione della distribuzione in Italia di un film con Shirley Temple, i magazzini Rinascente ospitarono una linea di vestiti per bambine ispirata al look della piccola star (Gundle 2006, pp. 175-96). Il tema dello sfruttamento del cinema a fini promozionali non è stato ancora del tutto affrontato. È stato Stephen Gundel ad offrire un rilevante contributo alla riflessione sulle dinamiche di produzione della Ê»pubblicità del cinemaʼ, indagando i meccanismi di promozione dei film, come le campagne di lancio e le pubblicità. Eppure il discorso andrebbe esteso anche alla rilevanza della pubblicità Ê»attraverso il cinemaʼ, ossia all’apporto che l’apparato audiovisivo ha dato al sistema industriale promuovendo nuovi modelli identitari e stili di vita, dunque nuovi desideri e bisogni indotti. In Italia, per la prima volta proprio negli anni Trenta, alcune attrici iniziarono a dare il loro sostegno personale alle case di moda o a promuovere prodotti fabbricati nel Paese, come accadde a Silvia Jachino, ritratta sulle pagine di Cinema a bordo di una Fiat 500, Ê»la vettura delle stelleʼ. L’intenzione autarchica del fascismo, alla fine del decennio, non riuscì ad esprimersi a pieno nel campo della moda e del design, poiché questi settori anche grazie alla funzione assolta dalla cultura cinematografica nell’economia discorsiva dei messaggi pubblicitari, si rivolgevano ad un pubblico d’élite le cui aspirazioni si proiettavano verso stili di vita eleganti, la ricchezza e l’agio, piuttosto che verso la gloria della nazione fascista. L’economia italiana non era sufficientemente dinamica per permettere al cinema di agire a fondo sull’immaginario collettivo, a differenza di quanto accadrà nel secondo dopoguerra. Eppure fu proprio in quegli anni, e attraverso il coinvolgimento di gruppi ristretti di spettatori, che il cinema iniziò ad agire come orientatore di gusti e desideri.

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1. Il racconto

A dare spessore umano al film è una profonda relazione tra il movimento del plot e lo sviluppo interiore del personaggio a partire da una Ê»ferita inconsciaʼ che affligge il protagonista all’inizio del suo percorso, scrive la sceneggiatrice hollywoodiana Dara Marks. La ferita di Viola e Dasy non è inconscia, ma fisica. La superficie del corpo doppio, un’anomalia genetica che porta con sé un’indefinita identità di genere, si incarica di rendere visibile ed esteriore lo sviluppo interiore delle coprotagoniste. L’incidente scatenante che consente il loro Ê»risveglioʼ coincide con la rivelazione che il padre mente per sottometterle e guadagnare dalle loro esibizioni canore: al contrario di quanto i genitori avevano sempre affermato separarsi è possibile, serve solo del denaro. Per procurarselo avrà inizio la fuga. Ma soltanto una di loro, Dasy, desidera scindersi dal corpo della gemella, e soltanto il gesto d’amore di Viola permetterà al personaggio doppio di rinnovarsi [fig. 1].

Il viaggio interiore inizia quando la doppia protagonista intraprende il percorso che la porterà a rigenerare corpo e voce della creatura multipla. Secondo quanto teorizzato da Maureen Murdock, l’avventura di questa singolare eroina dal doppio corpo ha inizio con il rifiuto della madre, appendice passiva paterna. Viola e Dasy scappano su un motorino e partono alla ricerca della loro nuova identità [fig. 2]. Ma è solo l’inizio del viaggio: un gommone le porta verso un’esperienza traumatizzante di seduzione maschile su un panfilo, da cui le due fuggono tuffandosi in mare. Così perdono il denaro, sottratto a un sedicente discografico di nome Marco Ferreri, necessario per sostenere l’operazione di divisione dei loro corpi. È in questo momento che ha inizio il ribaltamento dei ruoli fra le due coprotagoniste, dentro un’acqua scura dove le banconote si disperdono in mare: Dasy, la leader che si scontra con il padre, cede il ruolo attivo a Viola, la gemella remissiva che decide di sfidare la sorte gettandosi in mare. È la prima esperienza di morte. Quando padre e sacerdote le ricatturano dopo il naufragio, durante una cerimonia rituale religiosa, anzi pagana, Dasy torna motore dell’azione pugnalandosi. La seconda esperienza di morte conduce il racconto al suo punto di svolta, cioè al rinnovamento dell’eroina doppia. La macrosequenza conclusiva è un happy end affidato ai corpi e alle voci delle due sorelle ormai separate. Nella discesa della parabola che coincide con la liberazione dalla Ê»ferita fisicaʼ delle coprotagoniste, tutto avviene in un’unica scena di una decina di minuti narrativamente reticente: momento di trasformazione, climax e risoluzione finiscono quasi per coincidere.

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1. La metafora animale

Tutto il cinema di Ferreri può essere letto come una sorta di grande bestiario grottesco sulle disavventure del corpo nello scenario della contemporaneità; i suoi film sembrano illustrazioni quasi ‘fumettistiche’ (per la loro paradossalità e paradigmaticità) delle teorie sul potere biopolitico che Foucault elabora soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni settanta. I dispositivi economico-sociali-tecnologici-culturali vengono indicati come strumenti alla base dell’assoggettamento, della subordinazione e della disciplina dei corpi, senza distinzioni di genere. Per Ferreri le dinamiche della storia comportano l’allontanamento dell’essere umano dalla propria costituzione animale, la costrizione e la perdita progressiva della dimensione corporea, identificata come l’unico luogo autentico di una conoscenza strettamente connessa all’esperienza e al suo tessuto multiforme di materie, bisogni, desideri, sogni.

Nel configurare le devastazioni operate dalla storia sul corpo, l’autore rappresenta il soggetto maschile come un’entità instabile e disperata. Se, da una parte, l’uomo continua a forgiare il corpo della donna in quanto superficie di segni perfettamente rispondente all’esigenza di un controllo e di una dominazione – facendone di volta in volta una macchina feticistica, un manichino (Marcia nuziale, 1966), una cosa inerte (Dillinger è morto, 1969), un simulacro sostitutivo (I Love You, 1986), una carne di consumo (La carne, 1991) – dall’altra è anch’egli vittima del sistema che autorizza il suo ruolo di carnefice; è, in definitiva, un soggetto sopraffattore e allo stesso tempo sopraffatto dagli stessi dispositivi di relazioni e di dominio che tenta di amministrare.

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