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«Quale rapporto intercorra tra la parola tipografica – quella poetica in particolare – e il gesto grafico del disegnatore, il colpo di pennello del pittore, il tratto di china del fumettista, il frame congelato del videoartista; in che modo questo rapporto si sia evoluto, modificato, arricchito nel tempo, […] sono questi, ci pare, i problemi fondamentali da cui partire per avviare una riflessione sul nesso arte-poesia […]». Così Riccardo Donati apre la Prefazione al volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Le Lettere, Firenze 2014), introducendoci nella trattazione, di ampio respiro, del rapporto tra poesia e arti della visione che è, nelle sue più differenti declinazioni, pur sempre una questione di designazione e assimilazione di codici differenti.

All’incrocio di arte della visione e arte dell’enunciazione si situa lo ‘sguardo’ del poeta che diviene parola-guida dei capitoli nei quali si analizzano le quattro differenti «forme del vedere arte in poesia» (p. 13) e i loro rappresentanti più significativi del Novecento italiano. Il lavoro di Donati instaura dialoghi, spesso inaspettati, tra poeti e autori non di rado distanti fra loro. È cioè sottesa a questa mappatura di sguardi novecenteschi la visione critica dello studioso che non teme di farsi ardita e fornire una chiave di lettura, tra le tante possibili, di una materia così eterogenea: ogni capitolo ha, dunque, la dichiarata natura di percorso, avventuroso ma costantemente guidato. Il pericolo del disorientamento è scongiurato dalle coordinate metodologiche e interpretative che Donati fornisce prima, per traghettarci, poi, lungo un viaggio che procede attraverso una scansione erudita e argomentativa in cui si chiamano in causa direttamente i testi offrendo, così, una ricognizione attenta e originale del panorama culturale considerato.

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Nouvelles histoires de fantômes è l’ultima mostra curata dallo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman, in collaborazione con Arno Gisinger. Un essai visuel, secondo la definizione dello stesso autore, che ricompone nello spazio del Palais de Tokyo e attraverso il dispositivo dell’esposizione molti snodi cruciali del suo pensiero. Come per Atlas. ¿Cómo llevar el mundo a cuestas? (Reina Sofia, 2010), e a distanza di oltre dieci anni dalla pubblicazione di L’Image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg (2002), la matrice centrale dell’intera operazione, la sua ‘cassetta degli attrezzi’, è l’Atlante della memoria di Warburg.

Centrale per la modalità di orientamento attraverso le immagini proposta dai pannelli del Bilderatlas warburghiano (Devant le temps. Histoire de l’art et anachronisme des images, 2000); per il tema delle Pathosformel e della loro trasmissione, che Didi-Huberman sviluppa in direzione di una riflessione critica costante sul presente, con il concetto di ‘sopravvivenza’ che si trasforma in quello di resistenza politica (Survivance des lucioles, 2009). E ancora, per le modalità attraverso cui le immagini vengono associate tra loro, con l’atlante e il montaggio individuati come temi-figure tra loro correlati e comuni a tutta una generazione di intellettuali tedeschi. È il caso ad esempio del Kriegsfibel di Bertold Brecht, il ‘sillabario’ composto nella forma di un atlante fotografico sul tema della guerra (Quand les images prennent position. L’Œil de l'histoire 1, 2009) che Didi-Huberman non a caso inserisce tra le proiezioni in mostra.

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«Quello che mi interessa – sostiene Paolo Gioli – è la formidabile capacità che la materia fotosensibile ha nel manomettere e immaginare, quasi sempre drammaticamente, ogni cosa tocchi. Prima dell’immagine c’è la materia».

Ridurre, sgretolare, trasformare la fotografia in materia fotografica, in qualcosa di malleabile per poi manipolarla: la metodologia di ricerca di Paolo Gioli percorre da sempre questo binario. La mostra Abuses. Il corpo delle immagini (Villa Pignatelli – Casa della fotografia, Napoli 12 aprile-1 giugno 2014, a cura di Giuliano Sergio), una selezione di oltre cento immagini dell’artista veneto, affronta alcuni dei temi attorno i quali ruota l’intero lavoro e il percorso artistico di Paolo Gioli: l’indagine sul corpo, in tutte le sue sfaccettature, e sulla natura morta.

In un’epoca nella quale la tecnologia ha reso difficile rintracciare la specificità del mezzo fotografico, avvicinando la fotografia stessa a quella «condizione postmediale» descritta da Rosalind Krauss, Paolo Gioli riesce a fermare l’istante sottraendolo all’effimero dell’esperienza ordinaria attraverso la costruzione di immagini fatte di innesti, suture e artifici.

L’artista oltrepassa, in tal modo, i confini strutturali dell’immagine restituendola all’osservatore in tutta la sua drammaticità. Quella di Gioli è un’operazione che oserei definire di archeologia visuale, caratterizzata dall’esplorazione incessante dell’intero universo dei processi fotografici proto-storici, storici e moderni: dal foro stenopeico, al classico procedimento positivo/negativo, al positivo diretto su diversi formati polaroid. La fotografia di Gioli (e le opere in mostra ne sono una prova) porta, dunque, alle estreme conseguenze l’intera parabola evolutiva di quella riproducibilità tecnica postulata da Benjamin, estremizzandone dinamiche e processi, e rendendo palesi i meccanismi ad essa interni e le difficoltà e incertezze da essa derivanti.

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Paolo Benvenuti (Pisa, 1946) ha una formazione pittorica e si avvicina al cinema nella seconda metà degli anni Sessanta attraverso la frequentazione di seminari dedicati al cinema d’avanguardia, all’underground e a Roberto Rossellini. Nei primi anni Settanta segue sui loro set prima Rossellini e poi Jean-Marie Straub, i quali, in modo diverso, segneranno la sua rigorosa e coerente concezione di cinema. Sempre in quel giro di anni Benvenuti comincia a girare i primi documentari, tra cui Del Monte pisano (1971) e Medea, un Maggio di Pietro Frediani (1972), che rimangono testimonianze importanti di un recupero della cultura contadina come depositaria di moduli recitativi e narrativi che influenzeranno molti dei suoi lavori a venire. Nel 1974 è la volta del lungometraggio Frammento di cronaca volgare, incentrato sull’assedio di Pisa da parte dei fiorentini dal 1494 al 1509. Benvenuti comincia qui il suo lavoro sulle fonti documentarie che costituiscono la base di partenza della gran parte dei suoi film, ma Frammento di cronaca volgare risente eccessivamente del magistero straubiano e Benvenuti attraverserà un momento di crisi che si risolverà qualche anno dopo con il notevole corto Il cartapestaio, nel quale il regista si emancipa dai suoi modelli e chiarifica la sua idea di cinema.

Dopo altre prove documentarie, nel 1988, alla Settimana della Critica della Mostra del cinema di Venezia, Benvenuti presenta il lungometraggio Il bacio di Giuda, film dall’andamento ieratico e solenne che trae spunto dal libro di Mario Brelich L’opera del tradimento, nel quale viene riconsiderata sotto altra luce la figura di Giuda Iscariota. Il film scatenerà enormi polemiche che ne renderanno difficile la distribuzione. Quattro anni dopo è la volta di Confortorio, che racconta di come i padri dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato tentarono di convertire due ebrei condannati a morte per furto con scasso. Il film, caratterizzato da scelte cromatiche e luministiche che rendono alla perfezione il senso del tormento, vincerà il Premio della Giuria dei Giovani al Festival di Locarno e il Gran Premio della Giuria al Festival di Montpellier. Nel 1996 esce Tiburzi, elegia dedicata alla mitica figura dell’omonimo bandito maremmano, mentre nel 2000 Gostanza da Libbiano – messa in scena degli atti processuali relativi al processo per stregoneria di Monna Gostanza – vince il Gran Premio della Giuria al Festival di Locarno. Nel 2003 porta in concorso alla Mostra di Venezia Segreti di Stato, che getta nuova luce sui fatti relativi alla strage di Portella della Ginestra e dà forma filmica a parte delle meticolose ricerche compiute da Danilo Dolci intorno a quella vicenda. Il film è una sorta di impegno preso da Benvenuti nei confronti di Dolci stesso, cui è dedicato. A Venezia Benvenuti tornerà nel 2008 con Puccini e la fanciulla, evento speciale fuori concorso. Il film, privo di dialoghi e tutto giocato su sperimentazioni contrappuntistiche di musica e rumori, ripresenta la tragica storia di Doria Manfredi, la servetta di casa Puccini morta in circostanze misteriose. Anni di ricerche hanno portato Benvenuti e i suoi collaboratori a compiere scoperte straordinarie che hanno cambiato anche la storia biografica di Giacomo Puccini. Attualmente, Paolo Benvenuti sta lavorando ad un progetto sul Caravaggio.

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Qui di seguito la trascrizione integrale dell'intervista. Si ringrazia Livia Giunti per l'ospitalità e l'assistenza.

Riprese audio e video: Livia Giunti; Montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato, Luca Zarbano; Animazioni: Gaetano Tribulato

D: Il tuo incontro con il cinema si perfeziona attraverso il rapporto con due registi tra loro diversi come Roberto Rossellini e Jean-Marie Straub. Puoi dirci qual è stato il tuo percorso, cosa ti hanno dato l’uno e l’altro e perché hai sentito che erano quelli i modelli da seguire?

R: La mia storia cinematografica non comincia con Rossellini e Straub ma comincia, praticamente, da quando sono nato, perché in casa mia mio padre faceva il documentarista: il puzzo della pellicola io in casa l’ho sempre sentito. Non solo, la cosa interessante è che i fratelli Taviani, che sono di San Miniato e che sono venuti a studiare all’università a Pisa, amando il cinema hanno conosciuto mio padre e insieme a lui hanno realizzato alcuni documentari, per cui quando ero piccolo io ho visto mio padre con la cinepresa, ho visto i Taviani e mio padre che lavoravano ai loro documentari. Ma, forse, proprio perché il cinema era il linguaggio di mio padre, io crescendo non mi sono avvicinato al cinema con interesse, anzi, devo dire che al cinema andavo a vedere i film di cowboy e indiani, ma del Cineclub che mio padre organizzava sempre con i Taviani e dei film cosiddetti ‘intellettuali’ e ‘culturali’ io non ne volevo sapere assolutamente niente. Per me il cinema era uno svago e basta.

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Il 3 e 4 dicembre 2013 si è svolto presso l’Università degli Studi di Milano il convegno internazionale «Corpi in pietra», organizzato dal Dipartimento di Filosofia in collaborazione con il Centre International de Philosophie di Parigi e l’Università degli Studi di Bergamo e patrocinato dalla Società Italiana d’Estetica. I partecipanti all’incontro, volto a esplorare il tema della monumentalizzazione del corpo (con particolare ma non esclusivo riguardo ai cinema studies), hanno delineato e approfondito la questione dell’animazione dell’inanimato affrontando di volta in volta specifici casi di studio.

La prima sessione dei lavori, presieduta da Andrea Pinotti, è stata aperta dall’intervento di Filippo Fimiani (Università degli Studi di Salerno) intitolato La carne impossibile. Immagine, immaginario, medium. Prendendo le mosse dal celebre saggio di Maurice Blanchot, Les deux versions de l’imaginaire, Fimiani ha incentrato la sua presentazione sulle relazioni tra immagine, maschera funeraria e fotografia, relazioni che coinvolgono diversi discorsi e statuti – antropologici, semiotici, ontologici, mediali – e che sintetizzano un dialogo più che ventennale con la fenomenologia e con la sua ricezione francese (Sartre e Lévinas in testa).

All’intervento di Fimiani è seguito quello di Barbara Le Maître (Université Sorbonne Nouvelle Paris 3), De Jack Torrance en corps fossile, dedicato all’evoluzione teorica della nozione di «fossile» esemplificata attraverso l’analisi concreta di alcuni passaggi chiave di Shining. Nella sua relazione Does Materiality Matter? The cinematic body between the monumental, the mechanical and the ephemeral, Vinzenz Hediger (Goethe-Universität Frankfurt) ha delineato un percorso di natura squisitamente teoretica sui concetti di medium e di cinematic body (il corpo rappresentato e quello esperito tramite empatia), con particolare riferimento alle osservazioni sviluppate da Vivian Sobchack e Christiane Voss.

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Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione

fantastica e del sogno poetico dànno alle cose un’anima

sensibile e mutabile come l’anima umana.

Gabriele D’Annunzio, Il piacere

Poetiche o artistiche, consolidate dalla tradizione o sperimentali, sono molteplici le espressioni che possono dare forma a una storia d’amore. Modulando un incontro tra parola e immagine che contempla, in un continuum tematico, la stesura di un romanzo, l’allestimento di un museo e la pubblicazione del catalogo, Orhan Pamuk ci offre delle prove invitanti.

Nel 2008, due anni dopo il conseguimento del Premio Nobel, lo scrittore aveva richiesto al fruitore de Il museo dell’innocenza, romanzo caratterizzato da una tensione metanarrativa non troppo celata, una duplice condizione. All’interno di un testo non illustrato, tra le pieghe rassicuranti di un flusso narrativo tradizionale, il narratore si era rivolto tanto al lettore di un museo in fieri e ‘visibile’ solo verbalmente, quanto al visitatore di un romanzo che finiva per coincidere con il racconto legato al criterio di esposizione degli oggetti. È stata questa la prima forma della sofferta relazione tra Kemal, imprenditore dell’alta borghesia, e Füsun, avvenente commessa. Ambientata negli anni Settanta, l’opera si concludeva con un abile cedimento alla tentazione dell’autoreferenzialità, giacché il protagonista decideva di dare ordine e sistematizzare, attraverso la creazione di un museo, la collezione di oggetti (dalle sigarette alla grattugia per mele cotogne, dai fermagli per capelli ai cucchiaini) ossessivamente raccolti per alleviare il tormento provocato dalla lontananza e, infine, dalla morte dell’amata.

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[E]verything is illuminated in the light of the past. It is always along the side of us, on the inside, looking out. Like you say, inside out.

Liev Schreiber, Everything is Illuminated (Screenplay)

«“Compagno, chi è l’ultimo?” “Forse io, ma dietro di me c’è anche una signora con un cappotto blu”». Con questo scambio di battute, che apre il primo romanzo di Vladimir Georgievič Sorokin Očered’ (La coda, 1983), il lettore si trova subito catapultato in una delle più tipiche situazioni della quotidianità sovietica: fare la fila. Per cosa? Alle volte, nemmeno i personaggi, così come le persone nella vita reale, lo sapevano. Ma si stava in coda comunque, perché se questa si era formata c’era un valido motivo, e dunque esisteva una ragione per attendere. Con l’immancabile ‘avos’ka’ (‘borsa a rete’) in mano, si aspettava il proprio turno per comprare il latte, il pane, la ‘vobla’ (‘pesce essiccato’), il ‘farš’ (macinato utilizzato per polpette o per altre ricette). Accanto a inossidabili vecchietti le cui giacche erano (e sono, in rarissimi casi, ancora oggi) letteralmente invase da distintivi di ogni genere, si stava in piedi per ore per acquistare anche altre cose, come le ‘papirosy’ (‘sigarette’), la vodka (o, in assenza di questa, anche i profumi Krasnaja Moskva, Šipr o Trojnoj odekolon potevano andar bene), la ‘tualetnaja bumaga’ (‘carta igienica’), o i quasi indistruttibili ‘granenye stakany’ (‘bicchieri a faccette’). Un dato certo relativo al periodo sovietico prima, e alla perestrojka poi, è che in Urss vi era una penuria cronica di articoli di prima necessità. Il cibo e gli oggetti necessari nella vita quotidiana erano spesso assenti, e proprio per questo, quando invece c’era disponibilità, si creavano code infinite.

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Catania, 26 aprile 2013


Riprese Video: Salvo Arcidiacono, Luca Zarbano, Silvia Cocuzza; Riprese Audio e Musica: Luca Zarbano; Montaggio: Salvo Arcidiacono, Luca Zarbano, Gaetano Tribulato; Grafica e Animazioni: Gaetano Tribulato.

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